S i conoscono il 25 febbraio del 1956, Ted Hughes e Sylvia Plath, a una festa, in mezzo a “esistenzialisti col dolcevita e pallide ragazze inglesi”, nella città universitaria di Cambridge: lui è un promettente poeta, lei “un’esuberante americana con varie pubblicazioni a suo nome”. Si sposeranno di nascosto dopo solo quattro mesi, avranno due figli, Frieda e Nicholas, vivranno in Inghilterra, negli Stati Uniti, viaggeranno per l’Europa, costruiranno il loro Eden lontano da tutti. Scriveranno romanzi, raccolte di poesie, drammi per la radio. Si lasceranno nel 1962. Sylvia Plath commetterà suicidio nel febbraio del ‘63 nella sua casa di Londra. Ted Hughes morirà d’infarto trentacinque anni dopo, il 28 ottobre del 1998, lasciando nel suo archivio una scatola che potrà essere aperta solo nel 2023. Probabilmente contiene alcuni diari della moglie.
Quando Connie Palmen ha scritto Tu l’hai detto lo ha fatto con l’intenzione di ridare voce a Ted Hughes: voleva permettergli di consegnare la sua versione della storia con Sylvia Plath, essere altro rispetto all’uomo odioso, al crudele fedifrago che, si raccontava, avesse spinto la moglie a uccidersi, dopo averla lasciata per un’altra donna. Per anni, in ognuna delle sue apparizioni pubbliche, Hughes è stato additato come assassino, per anni dalla lapide di Sylvia Plath-Hughes è stato cancellato il cognome del marito:
Dal momento della sua morte autoinflitta ho ereditato la sua lingua, sono diventato l’esecutore della sua fama postuma, mettendo così in atto come un boia la mia stessa condanna […] come in ogni tragedia il tempo è stato un subdolo antagonista, tramite l’insorgere di un femminismo militante e impegnato in una guerra santa, alla ricerca di un dio da adorare e di un capro espiatorio da punire.
Tu l’hai detto si dovrebbe porre così come ha fatto la recente biografia di Sylvia Plath, Suo marito, scritta da Diane Middlebrook; essere un tentativo, cioè, di produrre una nuova lettura di una relazione diventata tanto pubblica suo malgrado, per renderla più complessa, più umana, più tridimensionale; un po’ come il romanzo scritto da Zelda Fitzgerald (Lasciami l’ultimo valzer, in Italia pubblicato da Bollati Boringhieri) e l’epistolario con Francis Scott (Caro Scott, carissima Zelda, ed. La Tartaruga) sono riusciti a consegnare un’immagine della donna che non coincidesse più solo con la sua malattia, pur contenendola, e di un matrimonio di enormi felicità e dolori; così questo romanzo doveva raccontare l’altro lato del paradiso: essere la storia di una relazione, niente più.
“Eravamo giovani e inesperti,” scrive Hughes, così come avrebbe potuto farlo Fitzgerald, “in un cammino esitante verso il mondo degli adulti, fatto di responsabilità, stipendi, case, entrambi alla ricerca della nostra voce. Scrivevamo ogni giorno, sognavamo una vita da poeti, avevamo pochi soldi e passione in abbondanza”.
Dovrebbe condividere la postura di Suo marito: dovrebbe, ma non lo fa. Se il libro di Diane Middlebrook come sottotitolo aveva Ted Hughes & Sylvia Plath. Ritratto di un matrimonio, quello di Palmen non sembra intenzionato a offrire un’immagine di coppia: così per smarcare Hughes da un’immagine bidimensionale che non gli rende giustizia, finisce per diventare un innecessario atto di difesa unilaterale. Finalmente libero di dire la sua, di svelare intere porzioni di quella che doveva essere la vita con Sylvia, dal libro di Palmen Hughes esce come un egomaniaco ripiegato su se stesso, che ha vissuto il matrimonio con Plath solo in relazione a sé – riconducendo perfino il suicidio a un dispetto, a un ultimo affronto di quella donna che non poteva stare né con lui né senza di lui.
In questo lungo monologo, Hughes quindi si maledice (“se il giorno del nostro incontro avessi ascoltato ciò che gli astri non mi sussurravano bensì mi urlavano a gran voce”), condanna il suicidio della moglie (“se il suicidio era una trappola con cui voleva catturarmi per fagocitarmi, inglobarmi in sé e fare di noi un solo corpo, ci è riuscita”), e inveisce contro amici e estranei, scagliandosi contro “la babilonica industria costruita sulla glorificazione di mia moglie” e Al Alvarez che, incurante dell’impatto sui due figli della coppia, sull’Observer pubblica un articolo dal titolo Sylvia Plath: The Road to Suicide e ne Il dio selvaggio “tenta di motivare ex cathedra il suo suicidio con sproloqui pseudopsicologici”. Il racconto del matrimonio si trasforma in un’aula di tribunale, in un ring: ci deve essere un vincitore, ci deve essere la ragione e il torto, il martire e la carnefice, la vittima e il suo fascista da amare.
Cosa resta di Sylvia Plath? Nelle parole di Connie Palmen “è una poetessa, è bella e spiritosa, colta e sensuale, talentuosa e cupa, è geniale e pericolosa”, una doppiezza poco lusinghiera, che la fa ora incomprensibile sirena che ridendo confessa che “due anni e mezzo fa mi sono suicidata ed eccomi qui, praticamente come nuova” e donna che odia le altre (“anche senza la sua chiaroveggenza vedeva in ogni donna una Gezabele capace di soffiarle il marito”), ora bambina fragile, bisognosa di rassicurazione, la ragazza che il giorno del matrimonio
in un vestito rosa confetto, gli occhi umidi e colmi d’aspettativa che mi guardavano ardenti di gioia, risvegliava tutto quanto di me ci fosse di cavalleria, tenerezza, premura e amore in una misura che non avrei mai sospettato, un desiderio prorompente di proteggerla contro tutto il male e farle attraversare la giungla sana e salva.
Viene da chiedersi perché Connie Palmen abbia deciso di rendere lineare una storia che non lo è affatto e che pure dichiara di volersi salvare dalla bidimensionalità. A Sylvia Plath non riconosce quasi il ruolo di autrice, descrivendo la sua poesia come poco più che diaristica (“le poesie che mi aveva affidato nel caso non fosse sopravvissuta all’intervento erano tutte, senza eccezioni, allusioni a nascita e a rinascita, infarcite di un inequivocabile disprezzo per le donne senza figli come mia sorella e Dido Merwin”) e viene da chiedersi se lo faccia per fedeltà filologica alla figura di Hughes o per una sincera disistima nei confronti di una donna che, prima di essere suicida, sposa o figlia ossessionata dal padre, è stata una tra le più amate e lette poetesse del Novecento. Eppure, durante la prima notte, in cui Plath e Hughes dormono insieme, fa dire alla poetessa che “il desiderio di scrivere che per lei equivaleva a quello di vivere, l’uno non poteva esistere senza l’altro”: in fondo, per capire la poesia, i temi, la simbologia della Plath, basterebbe questa frase – Palmen però sembra dimenticarlo subito.
I dubbi che Tu l’hai detto solleva non riguardano dunque il giudizio sulla persona di Hughes o, almeno non dovrebbero farlo: a dover essere analizzato non è il matrimonio tra Hughes e Plath, ma la sua narrazione, perché questo è un romanzo e non un atto processuale. Il problema è come viene usato il materiale narrativo, come vengono piegati i testi a un’interpretazione, a una tesi, è chiedersi come far coesistere la parzialità di una storia (il racconto di uno dei testimoni) con la sua implicita obiettività (la verità finalmente disvelata). Il problema è comprendere di chi siano le frasi che leggiamo e da quale punto di vista siano pronunciate: se, cioè, quando Hughes dice che nelle poesie di Sylvia “il desiderio di morte non era soltanto il richiamo di un padre defunto a cui immolarsi, ma anche un ben più banale regressivo desiderio di una vita libera da marito e figli, senza preoccupazioni e responsabilità, e senza l’obbligo di diventare famosa” a parlare sia un uomo stanco, sfinito da quella che era una relazione di co-dipendenza, o un uomo incapace di comprendere il prezzo delle ambizioni per una scrittrice nell’Inghilterra di metà secolo, o se, invece, a pronunciarle sia la stessa scrittrice olandese, che non sembra aver alcuna fiducia nel valore confessionale (ma anche finzionale) della poesia.
È quindi questo l’interrogativo che lascia il libro: se questa è una versione, solo una versione, della loro relazione, riesce Connie Palmen a scrivere la storia di un narratore inaffidabile, lasciando percepire i limiti di una narrazione unilaterale? “La storia del matrimonio tra due scrittori offre il suo resoconto nei loro testi” si legge, “le stanze in cui abbiamo vissuto erano disseminate di quaderni, taccuini, manoscritti, dattiloscritti, appunti su fogli sciolti, i suoi in pile ordinate, i miei caotici e sparpagliati, finché lei non se occupava”.
Ancora una volta, da quei fogli, riusciamo a leggere solo un pezzo della storia.