D avid Mazon, dottorando in antropologia, ha scelto come argomento della propria tesi un paese nell’ovest della Francia, più precisamente nel dipartimento delle Deux Sèvres, dove si trasferisce per svolgere il cosiddetto “lavoro sul campo”. Cosa vada cercando in mezzo a quelle campagne, oltre a una generica etnografia della contemporaneità rurale francese, non è ben chiaro neppure a lui. Alloggia in una casa che battezza “Pensiero selvaggio”, inizia a conoscere la gente del posto, prende appunti, intervista, adotta due gatti che chiama Nigel e Barley, dal nome dell’antropologo inglese che ha pubblicato negli anni Ottanta un geniale saggio sul suo lavoro di dottorato (“Il giovane antropologo, appunti da una capanna di fango”) che è allo stesso tempo, probabilmente, il libro più comico che sia mai stato prodotto dalla letteratura antropologica. Anche nel diario di Mazon, che apre e chiude il nuovo romanzo di Mathias Énard, l’umorismo viene usato come strumento descrittivo di uno shock culturale: situazioni imbarazzanti, il disorientamento del nuovo arrivato e i suoi goffi tentativi di “osservazione partecipata”, i personaggi bizzarri che incontra nelle sue peripezie “ruraliste”.
Oltre questo primo livello, leggero e svagato, il libro si approfondisce in una forma più ibrida e seria a metà tra gli stilemi della letteratura di viaggio, con derive storiche e “psicogeografiche”, la saga familiare, il romanzo grottesco di matrice rabelasiana. Cambia il focus: la narrazione in prima persona del diario etnografico di Mazon lascia il posto al racconto in terza persona di una serie di vicende che vedono protagonisti gli abitanti della zona frequentata dall’antropologo, i quali a loro volta permettono al narratore di aprire finestre sul passato, prossimo e remoto, di quella parte della Francia che tra parentesi è anche quella che ha dato i natali a Énard. La macchina del tempo funziona a pieno regime favorita dall’espediente narrativo della “ruota karmica”, la trasmigrazione delle anime secondo la dottrina buddista, per cui ognuno dei personaggi chiamati in causa dal racconto può diventare pretesto per entrare, in medias res, nelle avventure di qualche sua precedente reincarnazione, la quale a sua volta può determinare un altro salto in avanti o indietro all’interno del ciclo, con possibilità di inscatolamento pressoché illimitate la cui unica contrainte – e principale collante narrativo del romanzo – è appunto quella geografica (difficile non pensare alla più bella e radicale realizzazione di questo schema narrativo, in altro ambito, ovvero Here di Richard McGuire).
Il libro propone dunque una lunga serie di “carotaggi” che consentono di incapsulare storie dentro storie: ogni individuo scivola dentro altri individui che fu e, in qualche raro caso, sarà in un non troppo lontano avvenire apocalittico. L’espansione dei franchi, la seconda guerra mondiale, le guerre di religione o l’impero napoleonico sembrano esistere tutti quasi sincronicamente, a distanza di un battito di ciglia, quello che passa, appunto, tra una morte e una reincarnazione.
Esile baricentro di questo caleidoscopico viaggio su e giù per il tempo è la storia di una famiglia di Pierre Saint Cristophe, il paese dove si trasferisce all’inizio del libro l’antropologo: famiglia sfortunata, attraversata da morti violente, follia e infelicità. A questa trama domestica più marcata riconduco l’impressione di saga famigliare che mi ha trasmesso a momenti il libro, con qualche accenno di realismo magico, tradizioni folcloriche venate di magismo e il respiro lirico-sapienziale della narrazione che sorvola sulle generazioni. Ma il vero cuore del romanzo è costituito dal lungo capitolo sul banchetto annuale dei becchini che dà il titolo al libro, durante il quale i professionisti della morte francesi si radunano (ogni anno in un luogo diverso, qui giustamente nella zona delle Deux Sevrès) per celebrare con libagioni pantagrueliche una temporanea sospensione delle loro mansione.
Se la morte è il soggetto principale, è un soggetto che manca di vitalità, per così dire: non chiudiamo il libro con una diversa cognizione delle cose ultime.
Il libro, decisamente lungo, non manca di momenti interessanti e di una notevole libertà di scrittura, accuratamente riprodotta dalla versione italiana di Yasmina Melaouah: il romanziere gioca con i registri, le citazioni, gli stili e i generi della tradizione (dall’epica, con le sue formule ricorrenti, alle canzoni popolari). Gli innesti storici, che quantitativamente costituiscono la maggior parte del romanzo, sono raccontati con dovizia di dettagli, da adepto della microstoria, e si leggono con piacere. Come si comporta un boia prima e dopo l’esecuzione pubblica di un sororicida alla fine dell’Ottocento? Cosa fa? Cosa mangia? È solo uno dei moltissimi esempi. D’altronde il cibo e in generale la dimensione gastronomica è forse il motivo più ossessivamente presente tra queste pagine e fa da contraltare, come celebrazione della vita e del presente, all’altro tema portante, quello appunto della morte, incorporato nel meccanismo narrativo della ruota e nei personaggi ricorrenti dei “becchini dalla lunga figura”.
Non mancano, tuttavia, alcuni difetti: si potrebbe forse notare che le digressioni storiche sembrano un po’ ritagliate, nella scelta dei contesti, da un manuale scolastico, portandosi dietro (nonostante il piglio microstorico) un carattere quasi celebrativo, vagamente monumentale (Clodoveo, Enrico IV, Napoleone). Ma soprattutto, le digressioni, mi sembrano solo relativamente giustificate da un punto di vista narrativo. L’espediente delle reincarnazioni è un collante debole di fronte alla massa proliferante delle storie, o forse lo scrittore non è stato abbastanza abile nell’assemblarle in modo da farci percepire una forma, uno schema, la vertigine del tempo universale. Resta soprattutto uno sfoggio di conoscenze storiche e culturali, abilmente “intramate” nella rete di questi racconti. Non che ai lavori passati di Énard mancasse una forte componente di erudizione, almeno a quelli più vasti e lunghi che lo scrittore ha dato alle stampe negli anni passati (penso a Zona e Bussola), ma in quei casi l’esuberante cultura del narratore sembrava prestata al servizio di opere di più ampio respiro e di più solido impianto. C’erano temi portanti più rilevati, o meglio sviluppati, che permettevano di ricondurre il materiale straripante a un obiettivo letterario preciso, determinato. Qua, al contrario, il disegno complessivo fatica a emergere se non confuso, un po’ pasticciato.
Se la morte è il soggetto principale, è un soggetto che manca di vitalità, per così dire: non chiudiamo il libro con una diversa cognizione delle cose ultime. Il complementare vitalismo gargantuesco del banchetto si traduce soprattutto in una moltitudine inesauribile di raffinati cibi succulenti, che ricorda certo il capolavoro di Rabelais ma come sciolto (e nonostante gli sforzi espressionistici della lingua di Énard) nello schematismo elencatorio di un Perec, senza raggiungere il peso letterario dell’uno o dell’altro.
Il rischio è di esssere ingeneroso nei confronti di un autore che stimo, e che è giustamente considerato tra i più validi romanzieri europei viventi. Forse la facilità di scrittura, a volte, rischia di penalizzare chi ne è dotato e ne fa un uso disinvolto. Confesso di avere provato più volte la sensazione di trovarmi davanti a un senso di cattiva infinità, o cattiva fluvialità, come se molto di quello che stavo leggendo fosse tutto sommato accidentale. Sempre al netto delle rimarchevoli doti narrative di Énard, le quali però, così generosamente elargite, lasciano in bocca il sapore del virtuosismo astratto. Ma forse la ragione che spiega meglio la mia parziale delusione potrebbe risiedere nella mancanza, ne Il banchetto annuale, di quella dimensione cosmopolita che caratterizzava tutti gli altri libri dello scrittore, e che in un certo senso giustificava quelli che qua mi appaiono come dei limiti. Mediterraneo, Asia, Europa orientale, i romanzi passati contenevano storie costruite nello sforzo di dare vita a punti di vista e mondi che non sono il nostro, o che ne fanno parte senza che ne siamo consapevoli. Questo importante elemento (anche politico) dell’ispirazione di Énard mi sembra messo da parte in questo romanzo molto più franco-francese, dove il viaggio nel tempo sacrifica quello nello spazio con risultati non sempre soddisfacenti. D’altronde anche l’antropologo Mazon, come tutti gli antropologi, ha inseguito il fantasma di una vita “altra”: avrebbe potuto contrarre pericolose malattie infettive in uno sperduto villaggio Dowayo, come succede al giovane narratore del libro di Barley, e magari scoprirsi a detestare il proprio oggetto di studio. Invece, per salvarsi dall’ottuso benessere dell’Occidente, è finito a coltivare ortaggi biologici in un angolo dell’Aquitania, e li è rimasto. Un destino degno di rispetto, ma poco romanzesco.