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uando Mallarmé scriveva, nella Brezza marina (1866), “La carne è triste, e ho letto tutti i libri” subito rilanciava: “Partirò! Vascello che fai dondolare l’alberatura | Leva l’àncora verso un luogo esotico”. Simili esortazioni, oggi, hanno perso vigore: tutti i viaggi sembrano essere già fatti, l’orientalismo d’epoca coloniale è un reperto ideologico buono per dépliant turistici e nostalgie reazionarie, e l’esotico si confonde sempre più con un passato idealizzato, in cui scompaiono la noia e i problemi del presente. Un metodo spesso adottato per rigenerare la cultura del viaggio e la sua narrazione consiste nel seguire e ripensare gli itinerari seguiti da altri viaggiatori, mischiando l’euforia con l’approfondimento storico, come avviene in Al di là dei confini. Viaggio nel mondo dell’islam sulle tracce del grande avventuriero Ibn Battuta di Erich Follath. Se il primo incontro con un altro paese può avere la flagranza di un amore, questo libro trasmette invece una passione fredda. È l’opera riflessiva di un corrispondente estero di grande esperienza che permette di farsi un’idea della complessità del mondo islamico contemporaneo.
Follath ripercorre, nel 2015, l’itinerario seguito dal viaggiatore medievale Ibn Battuta, da Tangeri a Hangzhou, e nel libro alterna sezioni sui due viaggi, distanti sette secoli, proponendo un doppio esercizio dello sguardo. Da una parte, c’è la prospettiva del maghrebino. Fin dal titolo della sua opera, la Rihla, “Il viaggio” o “Un dono di gran pregio per chi vuol gettare lo sguardo su peripli inconsueti e città d’incanto”, Battuta appare come un antenato del viaggiatore moderno. Partito ventunenne nel 1325, un anno dopo la morte di Marco Polo, dimostra curiosità gratuita, interesse etnografico e artistico, spirito di avventura e un’intermittente ricerca di ritiro spirituale, tutti tratti che siamo abituati a associare all’età del turismo: partito per il pellegrinaggio a La Mecca restò fuori vent’anni, realizzando il suo desiderio di “viaggiare per il mondo”. In realtà, la sua sensibilità ci resta lontana: trascura i monumenti “indecifrabili” degli infedeli, detesta la natura quando è inospitale, accetta tranquillamente la schiavitù e il dispotismo. Un filtro determina il nostro giudizio.
Ma noi chi? Immergendoci nell’islam di oggi, Follath intende mettere in gioco questo sguardo occidentale. Il modello narrativo di quest’operazione è in fondo l’esperimento mentale che fece Montesquieu con le sue Lettere persiane, dando voce a due orientali che visitavano l’Europa dell’epoca. In quel libro dominavano lo stupore per le figure dell’autorità (il re e il papa descritti come “due maghi”), l’attenzione alla crisi economica e ai conflitti religiosi, e il tema insistito della sessualità e della condizione femminile. Il gioco di prospettiva serviva ora a criticare l’arretratezza europea, ora a segnalarne la superiorità, più spesso a sollevare domande. Gli stessi temi ricorrono nel racconto di Follath. I capitoli sull’Egitto, sulla Siria, sulla Turchia, sull’Indonesia sono occupati da ampie analisi degli attuali regimi di Al Sisi, Assad, Erdogan, Widodo; quelli su Dubai e la Cina sono dominati dalla storia dell’enorme crescita economica che ha rapidamente trasformato questi paesi; in quelli sull’Arabia Saudita e sull’Iran è forte l’attenzione per l’affermarsi di interpretazioni dell’islam particolarmente restrittive nei riguardi del pluralismo religioso e dell’amore libero.
Ma il confronto con l’islam non è più un gioco di specchi. Il lettore europeo è subito colpito da un dato: l’islam sarà presto, numericamente, la prima religione al mondo. Mentre si riassorbe la ferita narcisistica, saltano le categorie buoni-cattivi con cui siamo abituati a etichettare l’ignoto: per esempio, l’opposizione tra governo laico e repubblicano da una parte e monarchia di stampo religioso dall’altra, che dobbiamo all’imprinting della rivoluzione francese, non si applica a casi come l’Egitto, l’Iran, la Siria. In Uzbekistan la difesa dello stato laico contro l’insorgente islamismo è affidata a una dittatura post-sovietica che non ha esitato, nel 2005, a uccidere oltre settecento manifestanti.
Follath ripercorre, nel 2015, l’itinerario seguito dal viaggiatore medievale Ibn Battuta, da Tangeri a Hangzhou.
Inoltre, come si capisce ben presto, il “mondo dell’islam” – oggi più che ai tempi di Ibn Battuta – corrisponde in realtà a molti e diversi “mondi dell’islam”. Tre esempi. L’Arabia saudita, mentre in Europa avveniva l’illuminismo, precipitava nel rigore wahabita (uso questo verbo in quanto anch’io incluso nell’orizzonte post-illuministico), che si è diffuso ancor di più negli ultimi decenni: le religioni non musulmane sono proibite, sono in aumento le esecuzioni pubbliche, anche per “stregoneria” e “adulterio”, è proibito a uomini e donne incontrarsi da soli e senza controllo in un locale. Ma il regime appare tutt’altro che rivolto al passato: al contrario, gli stessi luoghi della Mecca “classica” scompaiono sostituiti da edifici ultramoderni, in una gara al record mondiale con il vicino di Dubai. Il clero radicale pretende addirittura la distruzione della casa natale di Maometto: il dispotismo vede la storia “non come un elemento di arricchimento ma come qualcosa di pericoloso e di sovversivo”. Intanto a La Mecca sorge il maggiore complesso alberghiero del mondo, con diecimila camere e settanta ristoranti: “Il pellegrinaggio era originariamente un’impresa spirituale”, si sfoga uno degli interlocutori di Follath, ma ora “è diventata un’esperienza che ricorda una sfavillante gita a Las Vegas”. Uno spiraglio di apertura ancora incerto si intravede nella giovane popolazione, che passa la vita su Youtube e Facebook, e nelle caute aperture del nuovo sovrano sui diritti delle donne e sul turismo.
In Iran si trova invece una borghesia coltissima e edonista, per certi versi vicina a quella occidentale, che vive prigioniera del regime dei mullah. È il frutto avvelenato della rivoluzione contro un sovrano, lo Shah, imposto dalle potenze occidentali. L’ospitalità, che come ricorda Follath è solitamente più calorosa nel mondo islamico rispetto ai paesi europei, raggiunge qui estremi surreali: è consueto, a Shiraz, ritrovarsi nel mausoleo del poeta Hâfez con ventenni commossi che leggono poesie, si lamentano della mancanza di opportunità e di una “vita libera”, poi invitano il visitatore a una festa privata.
L’Indonesia, infine, è un gigante ignorato: maggiore paese islamico per popolazione – i suoi oltre 260 milioni di abitanti superano ampiamente quelli di tutti i paesi islamici affacciati sul Golfo Persico – nel 2014 ha eletto un presidente sostenitore della tolleranza religiosa, appassionato dei Metallica. Nei pressi di diverse moschee di Giacarta, racconta Follath, si organizzano concerti jazz con l’invito “Welcome to the groovy Ramadan evening”. Come sa chi ci è stato, del resto, in Indonesia il pluralismo religioso corrisponde quasi ovunque a una notevole libertà di costumi.
Follath raccoglie molte voci interessate alla trasformazione di politici e imprenditori, ma anche scrittori e artisti come la turca Gaie Boralioglu, l’indonesiana Laksmi Pamuntjak, l’uzbeko Vyacheslav Akhunov. In personaggi come questi Follath, come già Ibn Battuta, sembra alla ricerca di una familiarità cosmopolita. Tornando in Andalusia, nell’ultimo capitolo del libro, rievoca il califfato di Cordoba del X secolo, esempio di convivenza tra musulmani, ebrei e cristiani, esempio ideale di Stato islamico “dove nelle scienze e le arti gareggiarono le menti migliori. Anche la letteratura fiorì. In alcuni campi furono anticipati il Rinascimento e l’Illuminismo”. Riecco le nostre condizioni per affratellarci. L’impressione conclusiva è che il confronto tra le due epoche, e tra le culture, resti irrisolto. Follath monta istantanee del passato e nuove “lettere persiane”, spiegazioni e domande innescando un salutare straniamento, distruggendo immagini superficiali e autoreferenziali che ancora circolano in Occidente. Il compito di ritrovare il filo di una narrazione resta al lettore.