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i mestruazioni ne ho sempre saputo poco: quando ho avuto il menarca, ad esempio, ho pensato che fosse arrivata la mia ora. Cos’altro potevano essere le mie mutandine bianche toccate dal rosso carminio se non morte certa? Nei pochi passi che mi separavano dal bagno alla cucina dove stazionava mia madre, non avevo in mente una diagnosi ma non era importante: a undici anni stavo per morire, non avevo dubbi. Questo perché nessuno e nessuna mi aveva introdotta al cambiamento cui stavo andando incontro da mesi – i seni ingrossati, i peli spuntati e l’altezza del mio corpo slungata –, il cui apice era rappresentato dal primo sanguinamento.
Da più grande non è cambiato molto: ho capito in fretta che di mestruazioni se ne dovesse parlare il meno possibile o, ancora meglio, non parlarne affatto. Nel dubbio: nascondere sempre gli assorbenti, non pronunciare la m-word a meno che non fosse necessario, non menzionarle sul luogo di istruzione/lavoro per spiegare il malessere diffuso, la spossatezza, i crampi.
Le mestruazioni sono quella cosa che ci capita una volta al mese per molti anni della nostra vita ma sulla quale abbiamo spesso informazioni imprecise e parziali perché ci si bada poco, a meno che non ci siano complicazioni di sorta che ci costringano a prendercene cura. Ma questo badarci poco non è né innocuo né un fatto privato: da una parte, infatti, a causa dell’opacità creatasi intorno al funzionamento dell’utero la salute del corpo delle donne ha subìto conseguenze (più o meno gravi). In secondo luogo, non è un fatto privato perché rappresenta una condizione biologica ineliminabile che interessa metà della popolazione mondiale.
E se nessun testo può, in sé e per sé, cambiare le sorti dell’umanità è pur vero che ognuno di essi può contribuire a creare un campo di interesse che affronta a viso aperto i cristallizzati discorsi oscurantisti: questo è il primo pregio del testo di Kate Clancy, apoditticamente intitolato Ciclo. Storia e cultura dell’ultimo tabù.
A causa dell’opacità creatasi intorno al funzionamento dell’utero, la salute del corpo delle donne ha subìto conseguenze più o meno gravi.
Il libro di Clancy è un saggio complesso che arriva nel bel mezzo della quarta ondata femminista e che esamina in modo rigoroso la storia della normalità nella scienza e nella medicina ingaggiando un muscolarissimo corpo a corpo contro una serie di miti e false supposizioni che da tempo definiscono lo studio del ciclo mestruale. È un testo che irrobustisce il proprio profilo accademico con una visione femminista della scienza delle mestruazioni e una prospettiva multidisciplinare, inframmezzando interviste, esperienze personali, storie tratte dalla sua ricerca pionieristica e studi accademici.
Dal concetto di tabù mestruale passando a come culture e periodi diversi abbiano teorizzato le mestruazioni e a come, nell’insieme, questi aspetti abbiano contribuito alla formazione dell’idea novecentesca di inutilità delle mestruazioni, Clancy – che è professoressa di Antropologia biologica alla University of Illinois – mette sotto il microscopio quella porzione di esistente che, nel migliore dei casi, è rimasta per lungo tempo appannaggio di discorsi di matrice strettamente scientifica e, nel peggiore, è semplicemente un punto cieco intriso di un immaginario fatto di vergogna, di disgusto, di una corporeità fin troppo reale.
Fare chiarezza su un tema rilevante per le persone e per la salute pubblica è qualcosa che, comunque, ancora non ci dice niente della qualità stessa del libro. Tuttavia, fortunatamente quello di Clancy non è un pamphlet né tantomeno un manifesto a uso e consumo dei circoletti asfittici ma un libro “pieno di scienza”. L’autrice passa in rassegna, ad esempio, i più svariati modi in cui si è andato configurando il rimosso riguardante il ciclo mestruale. Non è solo una questione di discorsi mancati o proferiti sottovoce, ma deriva primariamente dalla strutturale disattenzione nel mondo della ricerca.
Per capire di cosa stiamo parlando, si può citare lo studio condotto da un gruppo di ricercatori che ha rilevato come: “una ricerca su PubMed del termine ‘sangue mestruale’ ha prodotto un risultato nel periodo 1941-1950, seguita da un aumento costante nel tempo fino a oltre 400 pubblicazioni nell’ultimo decennio. Per avere un riferimento, le ricerche su PubMed di ‘sangue periferico’ e ‘sperma’ hanno prodotto rispettivamente quasi 100.000 e 15.000 pubblicazioni negli ultimi dieci anni” (traduzione mia).
Non è solo una questione di discorsi mancati o proferiti sottovoce: deriva primariamente dalla strutturale disattenzione nel mondo della ricerca.
Durante tutto il Novecento, si sono date essenzialmente due modalità nell’approccio al ciclo mestruale: decidere di non indagarlo tout court e classificare le mestruazioni come inutili. Come riporta Clancy: per Strassman, abbiamo le mestruazioni per ridurre le perdite e conservare energia. Per Finn, abbiamo le mestruazioni per espellere il sangue e il tessuto del nostro endometrio in eccesso, ma la mestruazione in sé e per sé non ha un motivo. Per chi non lo sapesse, si tratta del peggior insulto di tutta la biologia evolutiva, ovvero che il nostro oggetto di studio non è adattivo ma semplicemente un accompagnatore del percorso evolutivo. Inutile, anziché utile. Incidentale, anziché selezionato.
Questo è il secondo pregio di Ciclo: ricordarci che la scienza è un fatto umano fatto da esseri umani. Non esiste nessuno sguardo neutro della scienza e decidere a cosa rivolgersi è una precisa scelta di campo: “Io direi che, dato che noi scienziati siamo immersi nella cultura come qualsiasi essere umano, abbiamo una responsabilità particolare di indagare questi momenti per scoprire i nostri pregiudizi”. Mi viene in mente un passaggio di Gender tech di Laura Tripaldi: “La scienza si occupa di studiare la natura dei corpi, ma ogni affermazione sulla ‘natura’ di un corpo rischia di annullare la distanza tra l’occhio e l’oggetto, producendo l’illusione di uno sguardo privo di ogni mediazione”. Se l’occhio che guarda è sessista – per motivi plurimi – sarà più facile che si trascurino temi tradizionalmente legati al corpo femminile.
È un oscurantismo, quello sull’utero, arrivato fino ai giorni nostri in forme ancora preoccupanti: Clancy racconta come intorno agli anni Venti sia stata discussa un’ipotesi formulata da un pediatra ungherese, Béla Schick, convinto di aver scoperto una sostanza nel sangue mestruale in grado di far appassire i fiori. Erano le cosiddette ‘menotossine’, che si credeva venissero espulse attraverso i pori della donna mestruata, nel suo sudore e nel suo latte materno. Peculiare che la teoria sia stata ben presto confutata ma che questo non abbia impedito il proliferare di articoli sulle menotossine nel dibattito scientifico fino agli anni Settanta.
Non parlarne, non analizzarlo, eliminarlo dal dibattito: è così che si creano i presupposti per concettualizzare il ciclo unicamente come fastidio. Un passaggio in particolare del libro risuona molto con la mia personale esperienza: “È stato soltanto quando ho cominciato a mettere in discussione il motivo per cui consideravo le mestruazioni una scocciatura che mi sono accorta di non essere l’unica ad avere questo punto di vista”.
Non parlarne, non analizzarlo, eliminarlo dal dibattito: è così che si creano i presupposti per concettualizzare il ciclo unicamente come fastidio.
Nella mia vita, ho visto succedere la stessa cosa: è solo grazie alle svariate chiacchiere con amiche, conoscenti, cugine e compagne che ho potuto capire che il mio ciclo doloroso non è una punizione del cielo ma ha un nome tecnico – dismenorrea – e delle cause organiche; ho smesso di preoccuparmi e ho iniziato a occuparmene. La sorellanza mestruale è un delizioso avamposto dell’autocoscienza femminista, peccato che spesso sia l’unico canale per saperne di più sulla nostra salute e per renderci conto che la variabilità dei nostri corpi “contraddice la prospettiva medica comune di un unico ciclo mestruale normativo”.
Questo è il terzo pregio del libro di Clancy: mette alla berlina l’idea di un ciclo mestruale normale che patologizza e medicalizza ciò che non rientra nelle caselle di una presunta normalità. In altri termini vale la pena chiedersi: “in che modo i nostri assunti più elementari riguardo a cosa è ‘normale’ e ‘sano’ hanno fuorviato i ricercatori in passato?”. È uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo: quando Clancy redige il paragrafo Cosa significa scrivere un testo scientifico femminista sulle mestruazioni spiega come, se paragonata a una prospettiva più tradizionale, la metodologia femminista applicata alle scienze richiede di prendere in considerazione un sovrappiù di elementi: rivelare la storia, concentrarsi su chi detiene il potere e mettere alla prova gli assunti alla base di tutto questo. La metodologia femminista applicata alle mestruazioni richiede conversazioni con sociologi, storici e studiosi di scienze e tecnologie al fine di risalire alle origini di un’idea e di ascoltare le storie dei popoli e delle idee dominanti dell’epoca, oltre alle opinioni di chi si è espresso contro il pensiero dominante.
Questo è il quarto e ultimo pregio del libro di Clancy: un testo che viene scritto anche perché ci si vede costrette a ribadire tutta una serie di questioni politiche quando si vorrebbe più volentieri fare altro. E invece, ancora oggi, a molte persone che operano nel campo culturale tocca la fatica femminista della costruzione di un modello di conoscenza che tenga conto di quell’esistente che, nei secoli, è stato messo da parte, trascurato, stigmatizzato: noi, la nostra salute, i nostri corpi mestruanti.Se ci fosse stato prima lo spazio per un paradigma epistemologico che non considerasse “le donne una versione secondaria degli uomini e le vagine dei peni alla rovescia”, oggi staremmo forse, finalmente, parlando d’altro.