L e mistiche nozze tra letteratura e scienza trovano ancora oggi terreno ostico in Italia. È passato più di mezzo secolo da Le due culture di Charles Percy Snow, in cui si denunciava il pericolo di una frattura tra scienze moderne e mondo umanistico, eppure i maggiori sforzi sono stati compiuti proprio dagli scienziati, che spesso si sono fatti divulgatori, hanno scelto il racconto anziché il saggio scientifico (Piergiorgio Odifreddi, Margherita Hack, Luigi Cavalli Sforza). Molto più raro il caso contrario: scrittori che hanno provato a cimentarsi con le tematiche della scienza. Perché una dimensione pervasiva come la scienza manca quasi del tutto nell’odierna narrativa italiana (se si esclude, naturalmente, la SF e pochi, isolati casi come L’energia del vuoto di Bruno Arpaia o Almanacco del giorno prima di Chiara Valerio)? Al massimo funge da riflesso pavloviano come nel caso della Solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano – dove i numeri primi sono, appunto, un orpello retorico e non vero carburante narrativo.
Non possiedo gli strumenti per trovare delle risposte sufficientemente articolate al perché di questa situazione (impianto ancora troppo umanistico della scuola? Rigurgiti di crocianesimo? Condizionamento della cultura cattolica?): ne prendo atto, e da lettore me ne rammarico. Perché mi piacerebbe leggere in Italia romanzi come La formula del professore di Yoko Ogawa, La freccia del tempo di Martin Amis, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon. Romanzi che fanno della scienza parte integrante del racconto e del mondo romanzesco che creano. Anche perché da parte della scienza c’è una vera e propria autostrada a disposizione. Basta prendere le dichiarazioni degli scienziati per trovarci dei romanzi in nuce. Questa dichiarazione di Alan Turing, “Lo spostamento di un elettrone di un miliardesimo di centimetro potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l’uccisione di un uomo”, non è la trama di un giallo? E quest’altra di Erwin Schrödinger, “La funzione Ψ dell’intero sistema porta ad affermare che in essa il gatto vivo e il gatto morto non sono stati puri, ma miscelati con uguale peso”, non è puro Pirandello o Kafka?
Un enorme potenziale di storie da raccontare, insomma. Gli stessi scienziati poi sono personaggi da romanzo: tralasciando il caso più noto di Alan Turing, di cui oggi – per fortuna – anche i muri conoscono se non altro il nome, si pensi a Paul Erdős, il matematico ungherese che si nutriva di caffeina, non possedeva una casa, teneva tutti i suoi beni in due logore valigie e si faceva ospitare a casa degli amici matematici, dove si occupava di matematica per diciannove ore al giorno, e quando qualcuno lo invitava ad andare a dormire, rispondeva seccato “Ci sarà tempo per riposare sotto terra”. Oppure il russo Grigorij Perel’man che rifiuta il milione di dollari del premio Clay e va a vivere come un barbone per strada. Immaginatevi questo tesoro trasformato in fiaba, mito, racconto, romanzo, saga. Una risposta positiva a questa lunga premessa però c’è, ed è un romanzo italiano appena uscito per Feltrinelli: La chimica della bellezza di Piersandro Pallavicini.
La chimica della bellezza tenta un nuovo approccio narrativo alla scienza, che non sia quello combinatorio di Italo Calvino o di Primo Levi.
Pallavicini, chimico inorganico e scrittore, non nuovo a queste sfide (le prove generali c’erano state con Atomico dandy del 2005), ha finalmente scritto “il” romanzo che ancora mancava in Italia: il romanzo delle due culture (ricordate Charles Percy Snow?), il romanzo dove la scienza, la chimica per la precisione, la chimica supramolecolare a essere ancora più precisi, diventa racconto portante, motore narrativo, scena viva e non semplice sfondo. Con un occhio al filone anglosassone della campus novel (altro genere narrativo in cui siamo carenti, a me viene in mente soltanto Scuola di nudo di Walter Siti, ma siamo nel secolo scorso), Pallavicini costruisce – sintetizza, saremmo tentati di dire per restare in ambito chimico – una “science comedy”, dove però non si bara, non si procede per luoghi comuni, la chimica è narrazione e la narrazione si fa scienza, dettagliata e inclusiva.
Raccontare la trama di un romanzo è come tagliare i capelli a Sansone. Cercherò invece di spiegare perché, a mio avviso, La chimica della bellezza è un romanzo che merita di essere letto, riletto, appuntato, mandato a memoria, insegnato a scuola eccetera. Innanzitutto La chimica della bellezza tenta un nuovo approccio narrativo alla scienza, che non sia quello combinatorio di Italo Calvino o di Primo Levi (tra i pochi, appunto, a occuparsi della spinosa materia). Pallavicini usa il comico, in tutte le sue declinazioni, dalla commedia degli equivoci allo slapstick, dal wodehousian humour al cammeo alla Piero Chiara. Tutto ciò si ripercuote naturalmente sulla trama. Un esempio:
Oh, vita vita, aspettami che arrivo. Accelero il passo, anzi spicco la corsa qui sotto i portici, e alzo la testa, inspirando l’aria svizzera bisognoso di energia. Venti passi più in là, dove si apre un’immensa piazza d’acciottolato, ci sono Guillaume Chaleur e la sua ciurma che giocano a pallone.“Maximò!” mi chiama lo scienziato francese. Agita un braccio, mi fa segno di correre verso di loro. Ha lo stesso completo di prima, ci ha solo infilato sopra un’incerata giallo canarino. Uno dei ragazzi calcia il pallone verso di me, teso, alto. Ok, lo prendo di petto, stoppo, metto giù. Italia-Francia uno a uno ma poi vi abbiamo fottuto ai rigori, penso, insensatamente, mentre scatto euforico palla al piede verso Chaleur con l’intenzione di raggiungerlo e dribblarlo, anzi di fargli un tunnel o magari un sombrero, e invece mi finisce un piede tra un ciottolo e un altro, prendo una storta, annaspo e come un pirla casco giù.
Passiamo a chi popola la scena, i personaggi: più che personaggi, autentiche persone, dotate come sono di una spiccata tridimensionalità – per dire, viene voglia di confidarsi con Annina, di fare i compiti con Valentina, passeggiare con Pirloux, fare amicizia con Max Galbiati. Terminata la lettura, ti mancano: ti mancano l’ultracentenario Virginio de Raitner e consorte, l’allegra festa mobile dei chimici capitanati da Chaleur. Pallavicini guarda al futuro, ma ciò non esclude che attinga anche al passato: la tradizione dei nomi parlanti, che risale a uno dei padri del romanzo moderno, Charles Dickens, è qua più viva che mai, il geniale chimico Chaleur, l’aureo bassotto Pirloux, l’astioso Serpentàn, il lumbard Obertenghi, la fantozzianamente enfatica Paulina Karminski ecc.
E infine, il linguaggio: dare un’anima narrativa al lessico scientifico è il grande risultato ottenuto da Pallavicini. In Italia, come si diceva, ci sono riusciti in pochi, firme come Italo Calvino e Primo Levi. Pallavicini ci riesce in modo organico e sistematico, perché mentre libri come Le cosmicomiche, Ti con zero, Il sistema periodico sono raccolte di racconti e sviluppano un unico registro – quello drammatico, o al massimo quello ironico – La chimica della bellezza è un romanzo e, come tale, gioca su più tavoli.
Quello comico (“Questa era la trovata. Secondo dei calcoli fatti da de Raitner si poteva far condensare prolina e tirosina […] “Idée jolie” ha sospirato Guillaume, scuotendo la testa. ‘Ma funzionava un cazzo’”); quello epico (“si poteva pensare a macchine molecolari che catturassero e trasformassero molecole a ciclo continuo, o che riconoscessero e distruggessero virus e cellule cancerogene. Si potevano immaginare materiali che si formassero e disfacessero con un impulso, supermolecole che spostassero ioni a comando attraverso membrane cellulari”); quello digressivo (gli aneddoti scientifici); emotivo (“Ma la bellezza cura. La bellezza lenisce il dolore, distende gli animi, allontana la paura della morte. […] La bellezza è anche una sintesi inimmaginabile progettata da un genio e realizzata nel suo laboratorio. È l’intuizione, il salto logico che risolve un problema che per cinquant’anni ha tenuto in scacco generazioni di chimici”); metafisico (“A parte che dio purtroppo non esiste e dunque a cosa mai ci saremmo sostituiti, ma anche un semplice studente del quarto anno in chimica si rendeva perfettamente conto che non stavamo facendo nulla di vagamente avvicinabile a un Dna artificiale”). Se vi sembra poco.