A cinquant’anni dal suo arrivo in Italia nei “Quaderni della Medusa”, Belleville ripubblica Cento false partenze, raccolta di racconti di Francis Scott Fitzgerald uscita nel 1957 negli Stati Uniti a cura del suo primo biografo, Arthur Mizener. Il libro è un’autobiografia in diciassette racconti che uniscono fiction e non fiction, alternano storie d’amore di adolescenti a riflessioni sulla scrittura, mescolano le carte delle vite immaginate e quelle veramente vissute da uno scrittore che di sé scriveva: “La storia della mia vita è la storia della lotta tra il prepotente impulso di scrivere e un insieme di circostanze volte a impedirlo”.
Come vive uno scrittore quando non ha ancora pubblicato il suo Grande Gatsby? Il titolo di uno dei racconti della raccolta è chiaro e contiene istruzioni sopravvivenza al suo interno: “Come vivere praticamente di nulla”. A vent’anni Scott sogna di fare lo scrittore, prova a farsi assumere come cronista, trova lavoro come pubblicitario. Scrive canzonette, sketch, barzellette e, nei ritagli di tempo, racconti. Quando ne vende uno per 30 dollari si licenzia e si chiude a casa a scrivere il suo primo romanzo. Il 26 marzo 1920 esce Di qua dal paradiso, il 3 aprile sposa Zelda Sayre e continua a scrivere racconti, ma tre mesi dopo non hanno più un soldo. Scott esce dalla banca senza speranza, Zelda lo aspetta sul marciapiede e gli propone “Andiamo al cinema?”. “Tutto sembrava così tranquillo” ricorda Fitzgerald “che non mi sentii per nulla abbattuto”.
Nelle 200 pagine di Cento false partenze trovano spazio sia le disavventure quotidiane della coppia più amata degli anni Venti, “troppo povera per risparmiare”, indebitata con il macellaio e incapace di licenziare il maggiordomo, sia i taccuini, gli appunti sparsi e soprattutto i blocchi del Fitzgerald scrittore, che segnano una nuova fase, più consapevole e adulta. Fare lo scrittore per Scott non è più un sogno ma diventa un mestiere, con delle regole da seguire e una disciplina da adottare, se non altro per avere i soldi necessari a comprare un paio di scarpe nuove a Scottie. Secondo Fitzgerald, gli scrittori devono partire da un’emozione vicina alla loro esperienza e, banalmente, ripetersi.
Noi abbiamo nella vita due o tre esperienze grandi e commoventi, esperienze tanto grandi e commoventi che al momento sembra che nessun altro sia stato prima di noi così impaniato, martellato, abbagliato, sbalordito, battuto, rotto, salvato, illuminato, ricompensato e umiliato. Poi impariamo il nostro mestiere, più o meno bene, e usiamo i nostri due o tre racconti – ogni volta sotto un nuovo travestimento – forse dieci volte, forse cento, finché la gente sarà disposta ad ascoltarli.
Se il vero scrittore è un maestro delle variazioni su un tema, Fitzgerald è un maestro delle versioni di sé. Come ha scritto altrove John O’Hara “prima o poi i suoi personaggi tornano sempre a essere i personaggi alla Fitzgerald in un mondo alla Fitzgerald. Dick Diver alla fine era alto come Fitzgerald”.
Quando stavo a St. Paul e avevo circa dodici anni, passavo il tempo a scuola a scrivere sul mio manuale di geografia o sul libro di latino o sui margini di temi e declinazioni e problemi di matematica. Due anni dopo una riunione di famiglia decise che l’unico modo di costringermi a studiare era mandarmi in una scuola-convitto. Questo fu uno sbaglio. Mi distolse la mente dallo scrivere. Decisi di giocare a football, di fumare, di andare all’università, di fare ogni genere di cose inutili che non avevano nulla a che fare con la realtà della vita, la quale, naturalmente, era il miscuglio di descrizioni e dialogo che si trova nei racconti.
Cos’è reale per Francis Scott Fitzgerald? Le ragazze che da una piccola Blatz Wildcat rossa guardano “alteramente” il cielo e i ragazzi che sognano di andare a Yale, il posto dove “non c’era bisogno di immaginare nulla, perché tutto era già sostanza poetica e la vita era vivida come nei libri e nei sogni”. E poi: le ragazze che “sono il punto di contatto col mondo delle feste e delle luci” e i ragazzi che non riescono a bere un bicchiere di limonata nella stessa veranda di una ragazza che dice “Ho smesso di baciare la gente, Basil. Davvero sono troppo vecchia per cose del genere: sai che compio diciassette anni a maggio?”. Pose e gesti apparentemente banali, sguardi espressi in un avverbio, pensieri che diventano sogni ad occhi aperti, un certo modo di parlare: ecco il “miscuglio” che crea una storia e la rende vera.
Nei racconti che Scott pubblica su Esquire e sul Saturday Evening Post ci sono già le idiosincrasie di Daisy Fay e la follia di Nicole Warren, girano insospettati piccoli Carraway e Gatsby. E, se non per scoprire i loro primi modelli, curiosare nel taccuino di Scott “se le parole fluttuano o affondano, come le loro bocche si chiudono quando hanno finito di parlare”, i racconti di Cento false partenze andrebbero letti per conoscere anche quei personaggi femminili che sono rimasti nella testa di uno scrittore che in Tenera è la notte faceva dire a Abe North che era stanco dei mondi femminili e ne è stato uno dei più grandi creatori. Scrive Fitzgerald in “Quando il vento è contrario”: “Nella mia fantasia si aggira una ragazza di nome Elsie, per la quale fui sul punto di uccidermi per tutto un lungo mese, nel 1916”. Scott si rivolge a lei come se le stesse scrivendo una lettera di nascosto, come se le stesse parlando al telefono, in disparte, a bassa voce, come se l’avesse incontrata in un sogno. Da un luogo non precisato, in segreto, con affetto.
Ho scritto su di te una dozzina di volte. Quella buffa smorfietta da coniglio sulle tue labbra, me ne sono servito in un racconto sei anni fa. Quel modo in cui la tua faccia cambiava d’espressione proprio quando stavi per scoppiare a ridere, quella caratteristica, la detti a una delle prime ragazze di cui abbia mai scritto. Il modo in cui continuavo a restarti accanto cercando di darti la buonasera, e sapendo che saresti corsa al telefono appena la porta di casa mi si fosse chiusa alle spalle… tutto questo è raccontato in un libro scritto non so più quanto tempo fa.