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a vera protagonista di Caccia alle ombre è la città. La New York verticale e accelerata che abbiamo imparato ad amare e riconoscere in centinaia di migliaia di fotogrammi di film e in altrettante pagine di romanzi. La Grande Mela vanta una caratteristica che probabilmente la rende unica al mondo: per quanto altre città e altri luoghi abbiano assunto nel tempo un valore iconico, andare a New York per la prima volta significa quasi certamente sperimentare la sensazione di esserci già stati. Di essere stati, cioè, in strade che in realtà non si è calcato mai. In buona sostanza New York ha un doppio, una città doppia che si sovrascrive costantemente a quella reale e che le dona un’ambiguità di fondo che è in grado di trasformare la città luccicante e lussuosa in una città feroce, umbratile, pronta a morde. Il tema del doppio è anche uno degli elementi su cui Herbert Lieberman ha costruito Caccia alle ombre, un noir adrenalinico tutto giocato sul dipanarsi e infittirsi di un’indagine che non cerca soltanto la soluzione a una serie di efferati omicidi, ma cerca una porta sull’abisso che li ha spalancati.
Scrittore di romanzi polizieschi, noir e horror, ma anche drammaturgo, Herbert Lieberman – classe 1933, originario di New Rochelle, nello stato di New York – ha una parabola letteraria non scontata, avendo conosciuto il successo in tarda età. Precisamente nel 1977, quando gli viene assegnato il Grand Prix della Litèrature Policiere grazie al romanzo Città dei morti, primo di una trilogia (interamente pubblicata e tradotta italiano da minimum fax) che prosegue con Fiore della notte e si conclude con questa uscita recente (per noi in Italia, il romanzo è del 1989) di Caccia alle Ombre.
La città è fatta di trame che tornano, di incontri che avvengono e tornano secondo le tempistiche imperscrutabili della metropoli, che possono accelerare fino a intrecciare le vite della gente o dilatarsi fino a rendere quelle stesse vite delle rette parallele destinate a non incontrarsi mai. Chi si incontra, nello spazio-mondo-metropoli di Caccia alle ombre, sono proprio i due protagonisti dei romanzi precedenti, Paul Konig, un apprezzato anatomopatologo, intento a leggere i corpi delle vittime che gli si presentano e a ricostruirne le identità, e Frank Mooney, un detective misantropo, che agli uomini preferisce i cavalli. Due figure che, nell’imperturbabilità delle loro esistenze, si muovono all’interno di una trama costellata da omicidi efferati e diventano il simbolo di una New York indolente e torbida, che oscilla appunto tra la luce e l’ombra, tra la notte e il giorno. Ancora una volta un doppio.
Il doppio di Caccia alle ombre è quello che in gergo criminologico si definisce un copycat, un assassino che copia il modus operandi di un altro assassino. La figura, anzi il sospetto, spunta a un certo punto dell’indagine che vede Paul Koning e Frank Mooney lavorare fianco a fianco nel tentativo di risolvere una lunga sequenza di delitti, che vanno dall’aggressione allo stupro all’omicidio. Una fitta sequenza di atti criminosi marchiati da una firma ricorrente: la presenza nelle case delle vittime di disegni e simboli inquietanti, tracciati in modo approssimativo, infantile, segni pornografici e sequenze di numeri che compaiono sui muri come la traccia visibile di quell’esplosione di violenza, schizzata disordinatamente sulle pareti. La firma lascia pensare a un misterioso criminale seriale, che viene prontamente ribattezzato “ombra danzante”, un nome che incarna quel duello tra luce e ombra che è il sostrato metaforico allestito da Lieberman – la sostanza ambigua di cui è fatta la città. Tuttavia, nel bel mezzo della ricerca, delle variazioni nel modus operandi che caratterizza gli omicidi e gli atti di violenza lascia filtrare il sospetto che esista un emulo, un secondo criminale che opera in parallelo imitando il primo, stratificando il paesaggio della violenza cittadina e rendendo più fitto il mistero. Perché risulta drammaticamente possibile, anzi probabile, che le ombre danzanti siano due.
Ma è forse l’intera città che, nel corso del romanzo, si caratterizza come un vastissimo “teatro di ombre”. Attraverso una raffinata alternanza di registri (traghettata all’italiano dalla traduzione di Raffaella Vitangeli), Lieberman allestisce una polifonia di figure marginali che stridono con la New York rampante della metà degli anni Ottanta in cui si svolge la vicenda, ne disegna il contraltare nascosto, ancora una volta il doppio, il gemello apparentemente maligno. Dico apparentemente perché la descrizione priva di giudizio morale con cui l’autore tratteggia questa umanità plurale e tutto sommato anonimo lascia intravedere nelle vite degli emarginati, nelle esistenze dei cosiddetti “bassifondi”, l’esistenza di un’etica involontaria della “città di sotto” che, per la sua stessa condizione, è portatrice di una alterità possibile rispetto alla “città di sopra” che ne determina la marginalità.
Queste figure che popolano l’affresco della città di ombre dipinto da Lieberman sono reietti, esclusi, gente che la New York delle grandi corporation fa semplicemente finta che non esistono, che si confondono e diluiscono tra la patina di grigiore di un’altra forma di anonimato che popola la città, quella degli uomini comuni, dei pendolari che ogni giorno affollano con i loro corpi gli spazi monumentali e scenografici della Grand Central, la stazione principale di Manhattan. Ma non c’è solo grigiore, in queste esistenze che negano lo scintillio della città verticale, anzi è proprio in questi personaggi che alberga la straordinaria vivacità che rende New York leggendaria, figlia dello spontaneo adattamento ad un contesto che respinge, rigetta, espelle.
Suki Klink era china nel suo giardino dietro la vecchia casa in Bridge Street. Definirlo “giardino” era un eufemismo. Si trattava in realtà di un lotto, quasi un intero acro di terra con un’ottima vista sull’Hudson che scorreva verso il mare costeggiando Battery Park. Il lotto non era coltivato nel senso stretto del termine. Non c’erano aiuole di piante annuali o perenni, né file di fiori distribuiti in ordine di grandezza decrescente o divisi per colore. C’era solo un groviglio di erbacce e sterpi lasciati liberi di espandersi. In mezzo a tutto si ergeva la statua di Diana senza naso e coperta di escrementi, non lontana da una vasca per uccelli completamente asciutta. Grilli e cavallette saltellavano senza sosta dentro e fuori dalle crepe nella pietra. Contro ogni evidenza la vecchia si ostinava a chiamarlo “il giardino” e a trattarlo come tale.
Lieberman entra nei meandri miseri e lividi di New York proprio grazie a uno sguardo scarno, privo di pregiudizi, in grado proprio per questo di sondare le bolle spaziali e sentimentali che si affastellano nello spazio della città-mondo, bolle traboccanti pensieri e ossessioni, che sono la materia vera e viva di cui sono fatte le città. What is the city but the people, diceva Shakespeare nel Coriolanus a proposito della Roma capitale dell’antichità, tradotto abitualmente in “cos’è la città se non il suo popolo”. Lo stesso si potrebbe dire della capitale della tardo modernità, New York, traducendo quel people non più come “popolo” ma come “gente”, la gente che affolla le strade e si sente sempre meno cives. È lontana, terribilmente lontana, la New York delle opportunità per tutti, il falso mito luccicante per accedere al quale Scott Fitzgerald tratteggiava la sfrontata – ma tutto sommato autentica – vitalità del Grande Gatsby, il suo entusiasmo votato alla tragedia che però avanzava con l’eleganza e con il sorriso sulle labbra, specchio rovesciato di benessere più ostentato che vissuto. Nell’accelerazione impressa dalla finanziarizzazione di Wall Street, la New York degli anni Ottanta di Lieberman è già popolata di sconfitti, di persone che non hanno molto da sperare o da ottenere, nemmeno attraverso il drammatico ascensore sociale del crimine; possono opporre alla forza che li trascina verso gli abissi della città solamente la propria capacità di adattamento, opponendo la propria esistenza biologica al sorriso perverso della città. In questo senso, l’esplosione di ferocia di cui si fanno autori le “ombre danzanti” non sono che l’esplicitazione drammatica e senza ritorno della ferocia della città.
17 marzo 1986, Crider Dale, 33 anni. Morta accoltellata nella sua casa a Richmond Hill, in Village Drive. Frequentava un corso di composizione floreale. Uccisa approssimativamente alle due del mattino. Segni di morsi sul seno, sull’addome e all’interno delle cosce. Numeri e disegni pornografici scarabocchiati sulle pareti. Rubata una considerevole quantità di contanti e gioielli. Un giovane sulla ventina, di media statura e con i capelli scuri, è stato visto fuggire dalla scena del crimine. Arma del delitto non ritrovata.
Si faceva accenno allo stile, e questo è un tema non trascurabile con cui procede la narrazione, e su questo aspetto devo introdurre una piccola annotazione di carattere personale. La parabola di Herbert Lieberman come autore di successo è una parabola tarda, come si diceva, proprio perché, pur utilizzando un linguaggio piano e di grande leggibilità, l’autore non si accontenta di allestire intrecci appassionanti in grado di far girare la pagina al lettore. L’ambizione della sua scrittura è più alta della semplice ingegneria di un congegno complesso, che è quanto normalmente richiede il pubblico di massa. È uno stile più ricercato e gravido di simboli, che lascia anche al lettore disincantato e stanco del noir-di-massa – com’è chi scrive – altri orizzonti di lettura. Perché alla descrizione scarna dei crimini violenti, di cui sono vittime quasi sempre donne oppure coppie, che innesca una sensazione di disturbo amplificata dalla freddezza dei resoconti, si alternano elementi di luce che sembrano sprigionare incredibilmente dal fango della città, dal suo sostrato più torbido.
Ferris non aveva un posto dove andare. A parte qualche bevanda alla frutta che aveva comprato nei chioschi per strada, non mangiava da settantadue ore. Eppure non sembrava consapevole di avere fame e, se anche lo fosse stato, al momento non aveva i mezzi necessari per risolvere quel problema. I soldi dell’assegno che ogni due settimane arrivavano dagli uffici in Madison Avenue avevano la straordinaria capacità di sparire l’istante stesso in cui venivano incassati. Camminava verso il parco con quella sua aria da sognatore senza meta e senza regole e uno strano sorriso che gli arricciava gli angoli della bocca.
È questa umanità resiliente, bartlebyana, ma priva del riscatto che l’assurdo del comportamento imprimeva all’antieroe di Melville, l’elemento luminoso della città. È la “città delle ombre” che si ribalta nell’elemento luminoso, per quanto dolente, mentre la New York scintillante si ribalta nel teatro naturale di un’inevitabile esplosione di ferocia, prolungamento ideale della violenza su cui la città si è pian piano edificata. Il doppio si rispecchia nel doppio, la luce si ribalta nell’ombra e viceversa. La caccia, se davvero si caccia si tratta, è soprattutto una caccia interiore che il corpo della città compie su se stesso.