U go Crivelli è il direttore editoriale di una grande casa editrice (“una quota di mercato confermata al 7,9”), omosessuale, consumatore abituale di sesso a pagamento, un rapporto complicato e conflittuale con la vecchia madre, una malcelata antipatia nei confronti di un collega integerrimo e complice attrazione verso la nuova collaboratrice giovane e spietata carrierista. Ugo pensa spesso al suicidio e dopo essersi licenziato finisce per commissionare la propria morte al giovane amante prezzolato, non senza averlo prima sposato in comune così da promettergli, a compenso del delitto, la ricca eredità. Un incidente lo salverà da se stesso.
Il personaggio è un nuovo avatar del Walter Siti “come tutti” che parla in prima (e ogni tanto in terza) persona nella maggior parte dei suoi romanzi, diversa complessione fisica ma stessi tratti caratteriali, stessa lucidità di analisi, stesso bipolarismo scisso tra affetto e cattiveria, depressione ed eccitazione, amore e cinismo, stessa passione per gli uomini muscolosi, stessa solitudine abissale. Manuel, il gigolo con cui si accompagna, è a sua volta una declinazione siciliana di Marcello, il prostituto borgataro protagonista di alcuni tra i romanzi migliori di Siti e personaggio tra i più memorabili della letteratura italiana degli ultimi vent’anni.
Il mondo editoriale offre allo scrittore una nuova cornice, un nuovo settore sociale da aggiungere alla sua personale Commedia umana, ma questa scelta a portata di mano è la più difficile. Sarà che tirar fuori delle Illusioni perdute da questo mondo così poco avventuroso è una scommessa disperata. A un certo punto (e stiamo parlando di un libro breve, poco più di un racconto lungo) i gossip, il chiacchiericcio culturale e le invidie aziendali vengono meno, gli interni editoriali scompaiono per fare spazio al frettoloso piano suicidario: siamo abbastanza lontani da quegli spaccati nitidissimi, dagli aggrovigliati nidi di vipera che Siti aveva evocato parlando di università e televisione. Anche la trama, per chi conosce l’opera di questo autore, è una variazione sul destino del suo personaggio, l’explicit improntato a un moralismo amaro e spietato è forse la parte più efficace: il fantasma dell’infermità, l’incidente violento come nemesi ed estrema possibilità di guarigione per l’uomo ammalato di nichilismo.
Bontà non è forse tra le cose migliori di Siti (la nota a fine libro ne descrive la genesi piuttosto occasionale) ma il lettore affezionato troverà il passo, il ritmo e il suono di uno dei maggiori prosatori italiani contemporanei: quella complessa, armonica e visionaria tessitura di voci, analisi esistenziale, impennate liriche, notazioni ambientali. Insomma la scrittura intatta, sempre efficace e magnetica, di Walter Siti: la sua visione del mondo, la giustapposizione di slanci verticali e paccottiglia, di apoftegmi e banalità, quella capacità impressionante di giocare con i registri, evocare tremende verità e smentirle in uno stesso elegante giro di frase, la stessa sapienza complice e severa che tutto fonde in momenti di poesia descrittiva che non credo abbiano molti concorrenti nel nostro panorama letterario:
Tra le file dei Mac spirano refoli di liaison scombiccherate, di abnegazione fuori tempo massimo – voli senz’ali dal dodicesimo piano, maghe brianzole denunciate ai carabinieri. Strano pomeriggio: i serpenti dell’infelicità strisciano sulla moquette e si insinuano tra le postazioni senza risparmiare nessuno – che può valere, contro il loro veleno, una istituzionale diga di libri?
Per chi ama l’autore questo libro sarà dunque una piccola benamata dose di stile. Manca la pregnanza sociologica di altre sue opere, quella fattualità che Siti ha sempre assiduamente cercato nel mondo circostante trovandola, certo, per poi ricascare – o rincasare – fatalmente nel claustrofobico recinto dell’io. È il destino di chi guarda a Zola nell’epoca dell’“individualità come spot” (cito da Troppi paradisi); se si cerca un Siti a più alta densità referenziale sarà meglio prendere il notevole libretto sul denaro pubblicato lo scorso anno da Nottetempo, Pagare o non pagare, più saggistico che narrativo. Qua, del mondo editoriale e le sue magagne non resta molto, a parte un vetriolo sicuramente giustificato:
Dal soglio militante in cui si è venuto a trovare, non è difficile considerare la letteratura una questione di mercato e tante firme di successo dei solenni bluff. Come non ironizzare sui luoghi comuni che fanno vendere? I romanzi sui bambini malati di cancro, sulle donne aviatrici nella Seconda guerra mondiale, sui migranti che ripopolano paesi-fantasma (‘a questo punto, allora, facciamolo scrivere da un migrante vero’); sui trentenni frustrati che riscoprono la natura vergine, sui giornalisti eroi e le camorriste riscattate dalla maternità, sulle paturnie sentimentali del ceto medio purché finisca bene. Tutto scritto alla carlona, emotività confusa e onanistica, con errori di sintassi e di grammatica e d’orecchio.
A illustrazione vengono offerti al lettore tre satirici pastiches di romanzi commerciali che passano in mano al direttore editoriale. Solo il primo mi ha fatto sorridere, quello vernacolar-tradizionalista, negli altri due si sente di più lo zampino dell’autore. Le cose brutte sono meno facili da imitare di quel che si crede, soprattutto se a farlo è uno scrittore vero. Quelle buone invece, a un autore abituato a rimestare nel torbido, sembrano ancora precluse: il titolo del romanzo pare piuttosto antifrastico, il finale famigliare è una vaga concessione alla speranza ma l’amore, il positivo, la pars costruens sono limiti verso cui tende, senza mai raggiungerli, la sensibilità dello scrittore. La bontà capita come una grazia occasionale: niente più un lampo a ciel sereno, nel deserto.