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i si può interrogare a lungo su dove poter rintracciare la natura più profonda di un’opera e quale sia la chiave per addentrarcisi, se questa materia sfuggente risplenda in primo piano o se essa debba invece essere intercettata tra le pieghe dei significanti, generando così un’estenuante ricerca che coinvolge il fruitore e il creatore in un gioco di scoperta continuo. Ma se “il diavolo si nasconde nei dettagli” come suggerisce un noto adagio popolare, questa posizione del dettaglio rivelatore può essere tanto più vera almeno da quando Freud ha fatto le sue scoperte, cioè da quando sappiamo che non sempre quello che sta in superficie è ciò che custodisce il significato più profondo. E se dunque è l’inconscio, con il suo andamento irregolare, a dettare l’andamento dei nostri pensieri e quindi anche la loro concretizzazione, la chiave più interessante sta forse proprio nell’indagine di questi vuoti, piccoli indizi rivelatori, dettagli apparentemente di poco conto, dati che paiono null’altro che accessori ma che nel loro radicale farsi specchio del moderno costituiscono forse l’unica, vera, via di accesso. Sono questi “nuovi silenzi che sorgono là dove poco prima c’era un linguaggio”, per usare le parole di Gianni Celati, che meritano di essere indagati per giungere a una conoscenza autentica dell’oggetto.
Guido Vitiello nel suo nuovo saggio Una visita al Bates Motel, pubblicato da Adelphi nella bella collana “Imago”, prende spunto proprio da alcuni indizi apparentemente di poco conto per addentrarsi tra i meandri più segreti e nascosti del film di Alfred Hitchcock Psycho, come nel caso del refuso, niente di più freudiano, da cui trae origine il testo, un “oggetto dimenticato che emerge come scarto o detrito”, sono sempre parole di Celati, che costituisce, alla fine, una delle vie privilegiata di accesso verso la natura più profonda del capolavoro del 1960 del regista britannico. Un’operazione, quella di Vitiello, che appare quasi come un tentativo di indagine microstorica cinematografica, soprattutto se si prende in considerazione la scala ridotta del suo sguardo indagatore, che si posa, oltre ovviamente che sul film in generale, non solo sul Bates Motel, la casa in cima alla collina che diventa luogo del delitto per eccellenza, ma anche sui dettagli e gli elementi apparentemente minori della scenografia.
Il tentativo ermeneutico di Vitiello è certo giustificato dalle idee di Hitchcock circa la realizzazione di un film: è nota la sua cura maniacale per ogni dettaglio – Vitiello nelle prime pagine racconta per esempio della precisione nell’elaborazione del trailer del film girato sullo stesso set – e per Psycho la faccenda si fa ancora più calzante. Infatti nella celebre intervista con François Truffaut, Hitchcock, parlando di Psycho sottolinea come la cosa più importante del film fosse “il montaggio dei pezzi del film, la fotografia, la colonna sonora e tutto ciò che è puramente tecnico”, individuando in questi meccanismi la possibilità di “far urlare il pubblico” e creare “una emozione di massa”, sottolineando poi come non sia stato il messaggio a incuriosire il pubblico, né questo sia stato sconvolto dall’interpretazione o dal romanzo, ma invece, a commuovere il pubblico “sia stato il film puro”. La purezza del film per come intesa in questo frangente da Hitchcock e la cura per ogni aspetto del suo creatore sono allora le basi che giustificano il tentativo di Vitiello e ne garantiscono l’importante riuscita, così come l’itinerario di ricerca adoperato, che sembra replicare l’indagine di un detective sul luogo di un delitto: nel corso dei capitoli l’autore sembra infatti vestire i panni di un ispettore affiancato da un Watson d’eccezione che non è nient’altro che lo stesso Hitchcock.
L’operazione di Vitiello appare quasi come un tentativo di indagine microstorica cinematografica.
La storia che racconta Visita al Bates Motel nasce prima dell’uscita del film, con l’annuncio in un trafiletto del The Hollywood Report che la nuova opera del regista è ispirata da un libro di Robert Bloch: “Hitchcock to Film Psyche” recitava il titolo del breve pezzo – una delle tante immagini che Vitiello ha giustamente deciso di riportare nel libro. La vocale finale alterata porta a una serie di congetture, come la voce che il regista avesse deciso di dedicarsi alla “mitologia greca” e a una variazione di Apuleio, voci che Hitchcock lascia con cura lievitare senza mai intervenire, chissà se per l’impegno esclusivo nella preparazione del film o per giocare con la crescita dell’equivoco. Eppure, scrive Vitiello, all’interno di questo gioco che coinvolge la cultura greca antica, “c’è un ultimo testimone che non può sottrarsi all’interrogatorio, perché è imprigionato sulla pellicola” e appare quando Sam e Lila si precipitano dallo sceriffo Chambers perché hanno perso tutte le tracce del loro detective: quella scena, “se la si inquisisce fino alle soglie della tortura passandola lentamente all’argano della moviola”, confesserà il suo segreto e tra gli arredi, curatissimi, del salottino vittoriano spicca la riproduzione della statua di Antonio Canova, Amore e psiche giacenti.
Quello che può sembrare un dato marginale acquista un valore decisivo se messo in rapporto alla imprecisione del trafiletto del The Hollywood report e l’interesse cresce ancora di più se, come in un puzzle, si aggiunge a questi dati un nuovo tassello, ovvero il fatto che Hitchcock aveva detto in un’intervista con Louella Parsons, giocando al solito con le parole e con gli intervistatori, che Psycho era “un’escursione nel sesso metafisico”, consegnando ai lettori e futuri spettatori del film un ulteriore segreto aperto, oltre ad aggiungere, sibillino, che bisognava intendere quella definizione come “un uomo che s’innamora di una bellissima donna in un ritratto. C’è intenzione, ma non c’è dimensione”. Da questi momenti introduttivi che costituiscono il materiale di partenza per l’interpretazione, il libro di Vitiello comincia a muoversi direttamente tra le stanze del Bates Motel, indagando gli oggetti che fanno parte della scenografia di questa spettrale dimora vittoriana. Gli sforzi di Vitiello cercano di obbedire a un principio ordinatore teorico che può essere sintetizzato in una ricerca, assolutamente innovativa, su elementi di un’erotica misterica nel film di Hitchcock, come testimonia anche il continuo, e sempre centrato, riferimento alla storia dell’arte e alla cultura greca classica (“la prima sequenza hitchockiana l’ha girata quasi due millenni fa Luciano di Samosata” può scrivere per esempio Vitiello e così si spiega anche l’utilizzo di tre storie del mito, quelle di Persefone, Euridice e Psiche, per l’indagine).
Visita al Bates Motel procede costruendo una fitta rete di rimandi che mescola con successo analisi del film, riferimenti alla cultura greca e istantanee di storia dell’arte.
Questo modo di procedere chiaramente non si astrae dalle immagini della pellicola, vivendo invece in un fruttuoso e coinvolgente dialogo tra scenografie, volti dei protagonisti ed elementi esterni: è il caso, per esempio, della lettura delle ferite sul viso che subisce il detective Milton Arbogast quando varca la soglia di casa Bates e viene accoltellato. Vitiello legge la posizione delle ferite sul viso, una riga scura di sangue che scende dalla fronte alla guancia, “come il trucco di un clown, a fendere l’occhio sinistro” e un bronzo di Jean-Antoine Houdon che poggia su una piccola colonna nella casa e che rappresenta il dio Cupido pronto a scagliare una freccia (ma molto appropriato e funzionale è anche il riferimento allo spirito cortese, con l’amore che scaglia le sue dolci frecce da occhio in occhio, “d’huelh en huelh” come cantava il trovatore Uc Brunec). Se il Bates Motel rappresenta allora il tempio di questo erotismo misterico e Arbogast nient’altro che un profano che si intrufola nel santuario, la freccia di Cupido, che punta sempre verso l’occhio del detective, e quindi dello spettatore, è l’unica possibile conseguenza immaginabile. E così, procedendo posizionando una alla volta le tessere di questo complesso e coinvolgente mosaico, Vitiello scrive, utilizzando un’immagine estremamente suggestiva, che se si volesse racchiudere Psycho in un diagramma, questo avrebbe la forma dell’antico simbolo della croce solare, dove il braccio orizzontale è rappresentato dall’amore volgare e “la casa irta sulla collina, il braccio verticale, l’asse dell’eros metafisico” con il parlour di Norman Bates che rappresenta l’intersezione simbolica, una croce racchiusa poi in un cerchio, “il cerchio abbagliante della fascinazione erotica e mortale”. Se si segue questa suggestiva lettura, anche l’omicidio di Arbogast diventa facilmente spiegabile come un’intromissione profana e quindi imperdonabile in un luogo sacro.
Procede dunque così Visita al Bates Motel, costruendo una fitta rete di rimandi che mescola con successo analisi del film, riferimenti alla cultura greca e istantanee di storia dell’arte, con un apparato fotografico che diventa parte integrante del testo, perdendo talvolta la classica funzione di didascalia e facendosi invece narrazione esso stesso. Vitiello veste con successo i panni dell’investigatore e guida passo passo il lettore tra i meandri di una storia segreta, con un linguaggio che ben si adatta alla materia misterica e sorprendente che il libro suggerisce, dando a un classico del cinema una nuova convincente interpretazione e donandogli, e non è facile, un nuovo e forse più profondo grado di orrore.