D ei milioni che sono stati portati dall’Africa alle Americhe, è rimasto un uomo soltanto. Si chiama Cudjo Lewis e oggi vive a Plateau, Alabama, un sobborgo di Mobile. Questa è la storia di Cudjo”.
Barracoon di Zora Neale Hurston (66thand2nd, 2019, traduzione di Sara Antonelli), scritto nel 1931 ma pubblicato negli Stati Uniti solo nel 2018, è il racconto della vita dell’ultimo sopravvissuto dell’ultimo cargo di schiavi condotto in America lungo la tratta atlantica.
L’ultima nave negriera ad aver battuto la via che collega l’Africa Occidentale e le Americhe, la Clotilda, partì nel 1859 quando “da un capo all’altro degli Stati Uniti si udiva già il rimbombo sommesso della Secessione”. È un frammento della migrazione forzata più grande della storia, che ha sradicato milioni di persone dai loro villaggi e li ha rinchiusi nei barracoon – i recinti in cui venivano tenuti i prigionieri di guerra dei principi africani – in attesa di essere venduti ai commercianti americani o europei.
Nel 1928 Zora Neale Hurston è una giovane scrittrice e antropologa. È cresciuta in Alabama, tutti e quattro i nonni sono nati in schiavitù, ma lei ha studiato e in quegli anni vive a New York dove ha iniziato una carriera di etnologa che la porterà a pubblicare libri sul voodoo e sull’ibridazione delle culture africane nel Sud degli Stati Uniti e nei Caraibi, oltre a diversi racconti e romanzi. Il suo mentore è Franz Boas, il padre dell’antropologia americana, ed è sotto sua indicazione che Hurston va a raccogliere la storia dell’ultimo schiavo. Barracoon è una testimonianza che “non aspira in alcun modo a essere un documento scientifico, ma nel complesso può dirsi accurata”. Non è uno studio accademico, ma un’ibridazione tra documento storico e manufatto artistico, che vuole raccontare “la verità essenziale piuttosto che quella fattuale, troppo spesso fuorviante”.
La natura privata del racconto di Cudjo – il cui vero nome è Kossula, americanizzato per facilitare la pronuncia al suo padrone – è uno strappo nella narrazione all’epoca dominante della tratta degli schiavi:
Il dibattito, sia scritto sia orale, ha avuto a che fare con navi e razioni, con vele e clima, con stratagemmi e pirateria e scontri a fuoco per terra e per mare, con re indigeni e accordi disonesti e immorali da entrambe le parti, con guerre tribali e prigioni per schiavi e sanguinosi massacri, e con tutte le macchinazioni necessarie a rinchiudere i giovani africani nei barracoon durante la prima tratta del loro viaggio da esseri umani a bestiame.
C’è il viaggio, il rischio di ammutinamenti, le morti in mare, ma “tutte queste parole vengono dal venditore, neppure una da chi è stato venduto”. E allora Hurston, seduta sulla veranda della casa di Kossula, chiede a lui di parlare: “vorrei sapere chi sei e come mai sei diventato uno schiavo, da quale parte dell’Africa vieni, come vivevi quando eri uno schiavo, e come hai vissuto da uomo libero”.
Partendo dall’inizio: “Non si può raccontare la storia del figlio prima di quella del padre. Per cui io non posso parlare dell’uomo che è mio padre (et te), finché non ti ho detto chi è stato il padre di lui (et, te, te, cioè nonno), hai capito?” Il racconto di Cudjo è tutto rivolto indietro, all’Africa e alla sua tribù, stanziata nella zona che corrisponde all’attuale Nigeria. Gli preme raccontare del nonno e delle sue tante mogli, della vita nel villaggio, delle cerimonie, delle leggi, dei giochi con i fratelli, dell’iniziazione e della caccia, delle canzoni di guerra, delle belle ragazze con i bracciali d’oro al mercato.
Quando Kossula ha quasi vent’anni, l’esercito del re del Dahomey – arricchitosi facendo guerra alle vicine tribù, catturando i giovani e vendendoli come schiavi – attacca il villaggio all’alba, “tantissimi soldati con i fucili francesi in mano, e anche con dei coltelli grandi. C’erano anche le donne soldato che correvano con i coltelli lunghi e facevano un gran fracasso. Catturavano le persone e gli tagliavano il collo con il coltello, così, e poi giravano la testa così e quella si staccava. Oddio, Oddio!” e paradossalmente, in quel grido sembra di sentire l’eco di quello del colonizzatore di Cuore di tenebra, “L’orrore! L’orrore!” pronunciato da Kurtz in punto di morte.
Ammazzano i vecchi e catturano i giovani. Li fanno marciare, legati, portando con sé i trofei di guerra. Li chiudono per settimane nei barracoon e poi vengono imbarcati sulla Clotilda. Settanta giorni dopo, la nave attracca in segreto a Twelve Mile Island, i prigionieri vengono portati di notte sulla terra ferma, la nave bruciata e affondata per non lasciare tracce.
Poi ci sono i cinque anni e sei mesi passati in schiavitù. Intanto c’è la guerra civile americana, e alla fine, la spaesata liberazione dalla schiavitù: “Eravamo contenti di essere liberi, ma però mica potevamo restare con quelli che non erano più i nostri padroni. Perciò dove avremmo vissuto non lo sapevamo”. Vogliono racimolare i soldi per tornare in Africa, ma il viaggio è troppo costoso. Affittano e poi comprano un pezzo di terra dei loro vecchi padroni e fondano Africatown, una comunità africana in Alabama: eleggono il capo, nominano i giudici, stabiliscono le leggi, costruiscono le case, una chiesa e un cimitero. Cudjo si sposa, ha sei figli, cinque maschi e una femmina, a cui dà un nome africano e un nome americano,
ma gli americani gli davano sempre fastidio e gli dicevano che la gente dell’Afficky ammazza la gente e si mangia la loro carne. Dicevano che i miei figli erano dei selvaggi ignoranti e andavano in giro a dire che erano come le scimmie. Perciò, come immagini, i miei ragazzi litigavano sempre.
Il desiderio di Kossula per l’Africa non si attutisce mai: diventa negli anni uno sguardo fisso sull’altra parte dell’oceano, una nostalgia incurabile. In Barracoon c’è la violenza e la nostalgia. Ma c’è anche la storia, più discreta, di una giovane antropologa che sceglie di scriverla senza sentimentalismi e senza interferenze.
La recente riscoperta del manoscritto è merito di un’altra scrittrice afroamericana, Alice Walker, che definisce Barracoon una ferita e una medicina: contiene il dolore di sapere che la schiavitù non è stata solo un crimine bianco, che popoli africani hanno contribuito alla schiavitù di altri popoli africani, che la radice di avidità è comune; ma allo stesso tempo riluce dell’umanità di un uomo che è stato venduto come bestiame e ha vissuto come schiavo.
Prima che Zora Neale Hurston torni a New York, Cudjo accetta di farsi scattare una foto. Entra in casa per mettersi il vestito buono, ma rimane a piedi nudi. “Voglio sembrare come ero in Afficky, perché è proprio lì che vorrei stare”.