U n giorno di primavera del 1922 nei pressi dei Barren Grounds, un luogo perduto dell’Artide canadese a circa due giorni di slitta dal grande fiume Kazan o della Pernice Bianca, nell’aria gracchiavano queste parole:
M’appari tutt’ amor,
il mio sguardo l’incontrò;
bella sì che il mio cor,
ansioso a lei volò…
Sono i versi di una romanza di Caruso che suonavano da un grammofono dentro una tenda. Seduti ad ascoltare c’erano un Inuit con le sue due mogli e accanto a loro un uomo bianco, che con un certo disappunto pensò: “Sono arrivato con cent’anni di ritardo”.
Knud Rasmussen era un groenlandese figlio di coloni danesi. Da bambino imparò il dialetto Kalaallisut e a tenere a bada il freddo, la fame e una muta di cani. Guidare la slitta era un gioco – vento e neve sulla faccia, cristalli di gioia pura – da grande avrebbe fatto l’esploratore. Fu fortunato: quello che sotto altre latitudini o in altri tempi sarebbe rimasto il sogno di un bambino, alla fine dell’Ottocento in Groenlandia poteva diventare una plausibile prospettiva di carriera. Dopo aver guidato altre quattro spedizioni, nel 1921 decise che con la slitta avrebbe fatto l’orlo al polo Nord. La V spedizione Thule in tre anni avrebbe attraversato l’Artico fino a toccare l’estrema punta della Siberia, una corsa lungo il bordo del mondo prima che le popolazioni Inuit fossero prese per sempre nel girotondo delle merci, barattando la loro memoria per la modernità.
Di recente Adelphi ha pubblicato una scelta di testi incentrati attorno alla figura di Aua, sciamano della tribù Igloolik, una comunità che vive ancora su un’isola del bacino di Foxe al 69° parallelo Nord (l’intero racconto – Il grande viaggio in Slitta – invece è stato tradotto in italiano qualche anno fa per Quodlibet). È una raccolta etnografica preziosa che però non sembra tenersi sull’impalcatura di una robusta teoria o di una rigorosa demarcazione del lavoro sul campo; secondo gli attuali paradigmi dell’antropologia, l’atteggiamento di Rasmussen nei confronti degli Inuit che incontra sarebbe giudicato quantomeno ingenuo. In questo senso, è un libro che appartiene più alla letteratura di viaggio che alle scienze sociali.
Scrive Agamben in un suo libricino che non basta un evento, per quanto eccentrico rispetto all’orbita ordinaria di una vita, per cominciare un’avventura. L’avventura esige sempre un “chi”, qualcuno che colga in un evento casuale il senso di una strana necessità. Può essere un incontro, una lettera, una domanda (anche un libro comprato per caso). Entrare nell’avventura ha a che fare con la leggerezza, con l’essere portati, con il lasciarsi scivolare. Una vela, una slitta.
Solo gli spiriti dell’aria conoscono
Ciò che incontro dietro il monte,
ma comunque io spingo
i miei cani ancora avanti,
ancora avanti,
ancora avanti!
Nella tundra dell’Artico gli incontri inattesi si annunciano nei suoni sospesi nell’aria. Uno sparo. Il latrato dei cani. Un nome urlato nel mezzo di una bufera, di cui rimane poco più di un bisbiglio. Un gemito come di animale che muore. Parole che non sembrano parole. Takornaoq, detta “la timida” ha un neonato sulla schiena, un grumetto d’ossa che ha adottato e si chiama Qasitoq, “discanto”. La sera nell’igloo Takornaoq racconta. Qual è stata l’esperienza più orribile della tua vita?
Sentimmo un rumore che non riuscivamo a capire. Sembrava un animale morente, ma in certi momenti somigliava a una voce lontana. (…) c’era qualcosa che sembrava una persona (…) si voltò verso di noi. Sanguinava agli angoli degli occhi, tanto aveva pianto.“Kikaq (‘tu mio osso rosicchiato’)” disse “ho mangiato mio marito e i miei figli”.
Per tre anni Rasmussen e i suoi compagni vissero insieme alle comunità Inuit nello stesso paesaggio spietato. In inverno la temperatura può scendere 50 gradi sotto lo zero, il suolo è ghiacciato e l’unica forma di sostentamento possibile era la caccia ai grossi animali marini, foche e trichechi, e alle renne nel periodo estivo. Dove gli sforzi di giornate intere potevano essere spazzati via da una bufera, il freddo e la fame potevano trasformare la vita in un orrore inconcepibile. Cosa significa essere umani sull’orlo ghiacciato del mondo?
Tu terra,
nostra grande terra,
vedi questi cumuli
di ossa sbiancate,
queste ossa secche
che sono sbriciolate
dalla forza
dell’aria del possente
mondo?
He-he-he!
Il cosmo degli Inuit è tenuto insieme da una complicata burocrazia di tabù illogici, cavilli, sacrifici e penitenze. All’insistente richiesta di una spiegazione Aua esasperato può rispondere soltanto con altre domande, mentre fuori l’oscurità è già calata e le raffiche di vento riempiono gli occhi e la bocca di neve. “E perché questa continua bufera? Perché qui dentro deve essere così freddo e lugubre? Perché le persone devono ammalarsi e soffrire?”
Silenzio.
Nemmeno tu sai dare spiegazioni, quando ti chiediamo perché la vita è come è. E così deve essere. (…) noi non spieghiamo niente, non crediamo niente, ma in ciò che ora ti ho mostrato sono le nostre risposte.Noi abbiamo paura!
La prima visione è Nimeriarjuag o il verme peloso. Si muove ondeggiando, è molto veloce e guarisce le malattie.
Poi c’è Qarajaitjoq, l’animale cavo: la sua testa sono solo mascelle che si spalancano verso l’interno. Da una mascella cresce un braccio che finisce in una mano a forma di cappio, i suoi occhi sono anelli e assiste le donne che soffrono durante il parto. Poi c’è una visione che non ha nome. Fu un orrore silenzioso così forte che non riuscì ad addomesticarla. Mentre lo disegnava lo rivedeva e tremava. E poi c’è il malinconico Isitoq, o l’occhio gigantesco. Lo incontrò quando era triste, da poco erano morti i suoi genitori. L’occhio gigantesco gli disse: “non devi aver paura di me, anch’io combatto i pensieri dolorosi; perciò ti seguirò e diventerò il tuo spirito ausiliario”.
Queste sono alcune delle apparizioni che lo sciamano Anarqaoq disegnò con una matita. Potevano prenderlo all’improvviso, mentre si inoltrava nella “Grande Solitudine”. Il paesaggio interiore degli inuit che Rasmussen incontra è potente e misterioso quanto la distesa a di ghiaccio in cui vivono. Dietro ognuno di loro c’è un corteo di spiriti che sono vivi come gli orsi, le volpi o le foche. In un filmato girato durante la spedizione si vedono due teste di lupo uscire da un foro; sembrano accarezzarsi la testa, come per raccapezzarsi su cosa è successo. Poi si protendono fuori fino al tronco: sono uomini con delle maschere, sono lupi che attaccano gli altri uomini. Il filmato finisce. La soglia tra uomo e animale è un buco che si può attraversare da una parte all’altra. Il passaggio di questa soglia, ci ricorda Agamben, è “l’avventura delle avventure”.
E se l’evento che è in questione nell’avventura non è altro che l’antropogenesi, cioè il momento in cui il vivente (…) ha separato – per poi riarticolarle insieme – la sua vita e la sua lingua, ciò significa che, diventando umano, esso si è votato a un’avventura che è ancora in corso e di cui non è facile prevedere gli esiti”.
Sfondando i confini di un genere e di tutta la letteratura, l’avventura appartiene all’infanzia, al linguaggio, alla poesia. Gli amuleti possono proteggerti. Hanno il potere magico dell’analogia e dell’affetto, perché vengono donati da persone che vogliono il tuo bene. In una foto in bianco e nero si riconoscono: il becco di un cigno, il cranio di una strolaga, i denti di un orso, il corpo di un ermellino. Ma i talismani più potenti sono le parole. Le formule magiche sono brandelli di canti antichissimi, possono essere ereditate o comprate a caro prezzo e van ripetute sussurrando, “come segreti confidati all’aria”. La poesia è un utensile come un ago d’osso, una freccia, un coltello da ghiaccio, serve a sopravvivere. Perché quando la vita si mostra nella sua potenza indifferente e terribile, quando le nostre case crollano e si apre una voragine che lascia intravedere un abisso è con l’immaginazione e con le parole che ricominciamo, ogni volta, il compito di essere umani.
Il grande mare mi ha portata in movimento
mi ha messa in moto,
mi muovo come le alghe in un ruscello.
La volta celeste e l’aria potente mi muovono,
muovono il mio intimo,
mi hanno trascinata via, al punto che tremo di gioia.
“Nessuna gioia – scrive Rasmussen -supera quella di costruire igloo, se non forse quella di entrarci”. Gli inuit sono in balia del tempo, degli animali e degli spiriti, eppure in questo immenso deserto di ghiaccio improvvisa può prorompere una gioia incontenibile. La gioia di incontrare una figura umana che appare sull’orizzonte bianco, dopo giorni di gelo e fatica. La gioia di mangiare e di scaldarsi. Ed è per la pura gioia che gli sciamani vanno a visitare il paradiso, non per conoscere né per chiedere. Il paradiso è un grande paese con molte renne dove non si patisce mai la fame e si vive solo per la gioia: si ride, si canta e si palleggia con il cranio di un tricheco. Ci si va da dietro una tenda, dove si apre un foro stretto. Mentre lo sciamano viaggia, l’aria risuona di sibili e fischi: sono le stelle, che un tempo erano persone. E allora si cerca di indovinare il loro vecchio nome. Due brevi fischi e un suono stridulo è il modo delle stelle di ringraziare, per non essere state dimenticate. Quando lo sciamano Aua arriva nel paese dei morti le anime si avvicinano credendolo uno di loro. È in quel momento che esclama Putdlâliuvunga: “io sono ancora di carne e sangue”.
Son passati quasi cent’anni dalla V spedizione Thule. Igloolik è diventato un insediamento di case prefabbricate, gli inuit ormai non dipendono più dai capricci degli spiriti ma da quelli del mercato dei beni di importazione: gasolio, tabacco, alcool, armi e munizioni per la caccia. I ghiacci eterni si sciolgono ed è un evento senza memoria nella loro lingua, che infatti non possiede le parole per raccontarlo. Per questa ragione qualche anno fa Sheena Adams, una ricercatrice dell’Inuvik Regional Energy project, ha raccolto accanto a sé i pochi anziani che ancora parlano i dialetti locali per estrarre dalla lingua antica parole nuove, e poter così dire il cambiamento climatico e le tecniche per affrontarlo. Ora turbina eolica è annugihiut anugihiuttin (vento, ali di libellula); uktuun significa termostato, siqiniqmin aullan pannello solare. Alcune parole però non sono traduzioni ma sono nate liberamente durante le lunghe discussioni. Tra le preferite dagli anziani ce ne è una in particolare. Si dice Taniktunn, “imparare insieme”.