S e si può forse dubitare dell’utilità della psicanalisi per quanto riguarda l’avanzamento della felicità umana, certamente la disciplina istituita dal dottor Freud ha favorito ottimi risultati nell’ambito della ricerca artistica. Le opere di Georges Perec ne sono una chiara e alta testimonianza: paziente di Françoise Dolto in giovanissima età, più tardi di Michel de M’Uzan, tutta la sua opera porta iscritte nella forma e nello stile le peripezie dello scavo psicanalitico, per la gioia di esegeti e appassionati di significati nascosti, connotati, rimossi, criptati. Non va esente da questo imprinting terapeutico il primissimo romanzo di Perec, redatto appena ventenne e in soli due mesi dopo un viaggio in Jugoslavia: L’attentato di Sarajevo.
Rifiutato all’epoca dagli editori Seuil e Nadeau, chiuso a lungo negli archivi di uno scrittore che nonostante il suo dichiarato terrore della pagina bianca ha prodotto moltissimo in poco tempo (muore nel 1982 appena quarantacinquenne), dopo anni di sonno ha visto la luce nel 2016 in Francia per Seuil e oggi, in Italia, da Nottetempo (nella traduzione di Angelo Molica Franco). Ad onta di quanto si potrebbe credere vista la già ampiamente sfruttata riserva di inediti perechiani, quest’ultimo arrivato è tutt’altro che trascurabile, e non solo per i fanatici dello scrittore (nel loro caso la lettura è obbligatoria). Certamente si riconoscono la penna, i temi e le forme di questo autore così unico nel panorama mondiale del Novecento, temi forme e stilemi che troveranno migliori affermazioni in opere a venire ma che non rappresentano, in questo caso, un semplice saggio di gioventù: si sente già il maestro.
Anticipando uno schema binario che troverà piena formulazione in quello che è forse il capolavoro di Perec, W o il ricordo d’infanzia (diciamo il miglior libro a pari merito con La vita, istruzioni per l’uso), il romanzo alterna le avventure sentimentali di un narratore incastrato in un complicato triangolo amoroso – tra Belgrado e Sarajevo – alla narrazione/interpretazione storica dei fatti occorsi il 28 giugno del 1914 nella capitale bosniaca. Questo secondo elemento è molto meno sviluppato del primo ma abbastanza da aprire interessanti scorci per chi non è andato oltre la manualistica “scintilla” che fece scoppiare la prima guerra mondiale, e da entrare in una risonanza significativa con il ménage complicato e crudele dei protagonisti: la bella e sfuggente Mila, il suo amante passionale Branko e il suo cogitabondo concorrente, che è la voce narrante. In W un memoir autobiografico interferiva con la storia di una società fantapolitica spalancando gli abissi dell’immaginario totalitario e della Shoah: qui vediamo la prima elaborazione di una simile dialettica. Come succedeva per la parte autobiografica di quel “romanzo”, la storia di un antagonismo amoroso raccontata dal narratore de l’Attentato è segnata da una così pesante autoriflessività da farci sospettare che in fondo (come sempre in Perec) il narratore ci stia parlando d’altro. E che questo altro abbia una relazione con la storia avec sa grande hache (gnomico gioco di parole perechiano intraducibile in italiano: la storia con la S maiuscola, ma anche la storia con la sua grande “ascia”), è naturalmente, per quanto ellitticamente, suggerito dall’alternarsi di questi amori alle vicende relative a Gavrilo Princip, Francesco Ferdinando, i movimenti nazionalisti balcanici, eccetera.
Il narratore racconta retrospettivamente ciò che gli è accaduto e ogni evento, il luogo stesso dell’enunciazione (l’io presente che riferisce intorno all’io passato), sono soggetti a una serrata confabulazione critica e analitica, alla barra di un giudizio ipercerebrale paranoicamente ossessionato dai buchi e dagli “schermi” (per tornare alla psicanalisi) della memoria. L’amnesia è un fantasma che infesta la narrazione e frasi del genere “è come se avanzassi sulle sabbie mobili” abbondano accanto a espressioni dubitative intorno ai fatti appena riportati. Il racconto diventa fragile palinsesto di una vicenda dove l’amore giovanile sembra poco più di un segno misterioso, la manifestazione di un male che si rivela nelle omissioni, nelle mancanze del ricordo, nei vuoti (compreso quello tra un livello e l’altro della narrazione):
È possibile che via via che rievoco i tempi passati, i miei sentimenti svaniscano? Penso a un magnetofono in cui le parole registrate si cancellano automaticamente una volta che si utilizza di nuovo il nastro. Oppure a un orizzonte. Ogni ricordo diventa irraggiungibile nel momento stesso in cui credo di avvicinarlo.
Questo rapporto obliquo e conflittuale con la memoria storica e personale, questo motivo in seguito così profondamente elaborato in quasi ogni sua opera, appare già pienamente e consapevolmente assunto dallo scrittore ventenne. Il noir sentimentale (poiché il romanzo d’amore tende verso un finale macabro) si trasforma in un dramma psicologico dell’identità (il discorso de Un uomo che dorme, il romanzo più psicotico di Perec, è prefigurato nei ragionamenti e nelle dissociazioni di questo narratore) e tutto ciò attraverso una coincidenza dal sapore psicogeografico tra i fatti vissuti in Jugoslavia dal protagonista e quelli consumati sul fare della Grande Guerra mezzo secolo prima, secondo un modello che potrebbe ricordare a tratti la scrittura di Sebald (il quale effettivamente gli deve molto, soprattutto in Austerlitz).
Il modo in cui sul triangolo amoroso si riverbera l’attentato del 1914 ha a che fare, a una prima lettura, con le mistificazioni o le misinterpretazioni che ne sono state date nei processi che seguirono e in molta storiografia ufficiale, ma più in generale, e in profondità, è la dimensione nascostamente autobiografica quella che il montaggio sottende anche in questo romanzo di finzione e che il lettore è portato (ex post, ovviamente, conoscendo le opere a venire) a indagare. Quasi sempre, in Perec, i livelli della scrittura si moltiplicano vertiginosamente fino a concludersi nei segni depositati nel testo dagli eventi catastrofici vissuti in giovinezza dall’autore (la morte dei genitori: il padre in battaglia durante la seconda guerra mondiale, la madre scomparsa nei campi di concentramento); conclusione che tuttavia nulla conclude, essendo la traccia autobiografica quella in cui il senso appare più opaco e indecifrabile, o insostenibile. È proprio lì, tuttavia, dove l’inconscio si fa scrittura, che i libri di questo autore pulsano di una vita sconosciuta: è soprattutto per la sostanziale irriducibilità di quei traumi al linguaggio e al racconto che le sue opere brillano ancora oggi di una bellezza così imprevista.