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artiamo dall’oggi, cioè da quello che è successo in Italia con il respingimento dell’Aquarius: un evento che rappresenta probabilmente il culmine di politiche decennali di criminalizzazione dell’immigrazione. È alla luce di questo evento che è possibile scorgere i contorni di una nuova fase, caratterizzata non soltanto dal prevalere delle parole d’ordine care alla Lega nei primi provvedimenti del nuovo governo italiano, ma anche dall’affacciarsi di un nuovo modello di governance europea in controtendenza rispetto all’impianto a trazione franco-tedesca e più vicino ai populismi nazionalisti dei paesi est-europei del gruppo di Visegrád. È il tempo del ripiegamento identitario, in cui la rivendicazione dei confini dello stato-nazione e un nuovo patto corporativo e nazionalistico tra capitale e lavoro vengono agitati come unica via possibile per «salvare l’economia nazionale».
La risposta identitaria si presenta quindi come sbocco a prima vista “naturale” a dieci anni dall’inizio di una delle più feroci crisi economiche nella storia del capitalismo. E naturalmente ad avvantaggiarsene sono le ipotesi, specialmente a destra ma talvolta anche in quello che rimane della sinistra, che partendo da una scarsa comprensione dei processi economici globali (dove ormai i settori trainanti in termini di innovazione e profittabilità sono compiutamente transnazionalizzati) solleticano istinti che riaffiorano nei momenti di crisi: paura, difesa della propria piccola realtà e affermazione di una supposta identità contro tutti i soggetti percepiti come estranei. Così abbiamo sui due versanti dell’Atlantico esempi diversi, dall’Italia agli Stati Uniti (ma la lista sarebbe lunga), in cui si annuncia in un caso che le navi di profughi e migranti debbono essere respinte in mare, oppure che occorre negare l’ingresso negli Stati Uniti ai migranti economici, che storicamente sono uno dei fattori di dinamismo del capitalismo americano.
Questa torsione reazionaria e sovranista – che in realtà rifiuta il neoliberalismo solo a parole, dato che non mostra di avere alcun problema ad allearsi alle politiche neoliberali più spinte à la Macron, come per la proposta di Flat Tax in Italia o le riforme fiscali in America – non riguarda solo un processo psicologico collettivo di «difesa» dei confini e dell’identità, ma trova anche le sue ragioni economiche nell’idea che a fronte di un capitalismo in crisi, risorse e lavoro siano beni scarsi e che occorra tenerseli ben stretti, così che a beneficiarne sia solo un fantomatico «popolo» definito su base etnica e nazionale (e dove al suo interno sparisce ogni differenza sociale). Per gli altri non ce n’è abbastanza.
È questo uno degli aspetti discussi in Assemblea (che uscirà in italiano in autunno per i tipi di Ponte alle Grazie), l’ultimo lavoro di Michael Hardt e Antonio Negri che, dopo Impero (Rizzoli 2000), Moltitudine (2004) e Comune (2010), rinnovano la loro critica a ogni illusione «di sinistra» di ritorno all’economia chiusa dello stato-nazione: in primo luogo perché un’analisi dei flussi economici globali e finanziari la renderebbe impraticabile, e poi perché la governance globale è ormai un intreccio inestricabile di poteri nazionali e sopranazionali ed è solo a questa altezza che è possibile comprenderli e combatterli. L’obiettivo del libro non è infatti quello di descrivere l’organizzazione del capitalismo di oggi guardandolo solo dall’alto, ma anche dal basso, cioè considerando le forme di resistenza che concretamente già si stanno organizzando.
Il titolo originale in inglese del libro di Michael Hardt e Antonio Negri gioca sul doppio senso della parola Assembly, che indica sia l’assemblea che la composizione di elementi fuori e dentro le nuove catene di montaggio del lavoro globale.
I movimenti delle primavere arabe, degli Indignados, delle varie acampadas e Occupy fino a Gezi Park – con tutti i limiti, i fallimenti, i riflussi – hanno esorbitato da un quadro nazionale, non si sono chiusi, ma si sono rilanciati a vicenda, costituendo un vero e proprio «ciclo di lotte», a cui ora segue (non senza opposizioni) un vero e proprio «ciclo reazionario», in cui alcune delle istanze di quei movimenti sono state raccolte e alterate nel riflesso deformante di un vero e proprio «specchio nero», come lo definiscono Hardt e Negri, delle tendenze reazionarie e destrorse. I vari movimenti che dal 2011 in poi hanno invaso le piazze globali sono stati soffocati, uno per uno, e la situazione che ne è conseguita si è solo parzialmente stabilizzata, tra scenari di vera e propria guerra (Siria, Libia), strette autoritarie (Egitto), parziale raffreddamento nella forma di opposizione parlamentare (Spagna, Grecia), e dirottamento della protesta verso il fondamentalismo islamico o verso populismi di varia natura. Tuttavia, il fuoco continua a covare sotto le ceneri e a volte si accendono sia fugaci vampate sia movimenti tenaci e radicali come Black Lives Matter o i giovani contro le armi negli Stati Uniti, oppure le maree femministe che con Ni Una Menos, il #metoo e il #weetoogether hanno invaso diverse aree del mondo come l’America Latina, l’Italia e la Polonia (solo per citarne alcune).
Il titolo originale in inglese del libro di Michael Hardt e Antonio Negri gioca sul doppio senso della parola Assembly, che indica sia l’assemblea che la composizione di elementi – il «concatenamento macchinico» – fuori e dentro le nuove catene di montaggio del lavoro globale. La sfida cruciale del libro è comprendere come sia possibile che quelle pratiche assembleari che si sono espresse in modo carsico e talvolta disseminato nei movimenti degli ultimi anni possano costituire un’organizzazione duratura: sia un’istituzione politica che si auto-organizza dal basso senza aver bisogno di leader, ma anche una vera e propria «impresa» sociale in grado di produrre in modo cooperativo al di fuori dei linguaggi e dello sfruttamento capitalistico. Il libro, allora, non tenta solo di analizzare in modo puntuale lo stato di crisi dei processi attraverso cui il capitalismo estrae valore dalla cooperazione sociale, ma propone anche, a partire dall’analisi dei movimenti degli ultimi anni, un portolano con cui orientarsi per trovare punti di attacco e linee di fuga.
L’idea che i corpi e le menti riunite in assemblea o nell’esposizione «performativa» in una piazza potessero produrre una politica di natura radicalmente diversa è stata proposta in questi ultimi anni anche da Judith Butler ne L’alleanza dei corpi. Note per una teoria performativa dell’azione collettiva (Nottetempo, 2017), un libro che entra in positiva risonanza con il lavoro di Hardt e Negri. In entrambi emerge un’idea di lotta che compone «coalizioni» di elementi e soggettività differenti e in cui l’assemblea si dà come spazio organizzato e pazientemente costruito, anche se forse, nel caso di Hardt e Negri, si svolge un’analisi più precisa, con Marx ma anche oltre Marx, del contesto economico e produttivo di partenza. Gli autori, infatti, analizzano in che modo il capitale sia divenuto progressivamente sempre più astratto nell’economia finanziaria, ma come al contempo quest’«astrazione» abbia anche impiegato le forme più brutali di «estrazione» del valore dalla terra, dalle risorse della collettività e dalla potenza della cooperazione sociale. Il capitale divora in diversi modi, dà forma a energie (o «potenzialità») che sono già esistenti, e forza legami e connessioni che sono già in atto. Questa mossa, integralmente operaista e foucaultiana, che mostra come il rinnovamento capitalistico e il cambiamento dei modi di produzione siano completamente parassitari rispetto alla cooperazione sociale e alla produzione del comune, indica quei punti di rottura nel cui solco è possibile ripensare anche la contestazione e la fuoriuscita dal modo di produzione attuale.
Come realizzarla? Il libro offre diverse linee e punti di orientamento, senza avere la pretesa di costituire una guida, quanto piuttosto una cartografia di opposizioni, insorgenze, contestazioni che già sono avvenute o stanno avvenendo, presentandosi insomma come una chiamata alla lotta. In questi movimenti, infatti, emergono rivendicazioni che non sono riducibili alle parole d’ordine della sinistra afflitta da minoritarismo o succube del riformismo neoliberale. E in parallelo prendono forma anche delle sperimentazioni dal punto di vista organizzativo: ormai sempre meno legate a strutture di tipo partitico, ovunque entrate in crisi, ma anche a modelli di leadership, che con maggiore o minore protagonismo individuale e di genere (maschile) avevano finito per frenare le stesse esperienze più avanzate delle contestazioni dei decenni precedenti. Una continuità si è rotta e anche i linguaggi si sono trasformati sia sul terreno del potere che delle lotte moltitudinarie. Secondo Hardt e Negri è ripartendo dall’assemblea organizzata e dagli assemblaggi produttivi della cooperazione sociale che è possibile ripensare le forme e i modi di una lotta dentro al capitalismo che abbia in una pratica immanente e antagonistica del comune il suo orizzonte di possibilità.