R oberto Longhi è stato il più grande storico dell’arte italiano del secolo scorso”. L’incipit di Con gli occhi di Artemisia. Roberto Longhi e la cultura italiana (Il Mulino, 2021), ultima fatica dell’italianista Marco Antonio Bazzocchi, è impegnativo ma inappellabile: la storia dell’arte, in media poco incline alle glorificazioni postume dei propri interpreti, si è dovuta arrendere alla forza d’un profilo critico che in cinquant’anni di attività ne ha rivoluzionato metodi e confini, saldando filologia visiva e interpretazione in modo fino a quel momento impensabile. Basta questo stralcio da Proposte per una critica d’arte (apparso nel 1950 sul primo numero di Paragone, ripubblicato nel 2014 dal progetto no-profit Portatori d’acqua) per saggiare l’innovatività del metodo-Longhi:
Sta dunque il fatto che, chi si cimenti nella restituzione del ‘tempo’ di questa o di quella opera d’arte, vicina o remota che sia, trova alla fine che il metodo per ricomporre la indicibile molteplicità degli accenni più portanti non è né potrebbe essere in essenza diverso da quello, anch’esso ‘critico’, del romanzo storico: metodo evocativo, polisenso, ‘trame tenue des treblants préparatifs’.
L’opera “non sta mai da sola, è sempre un rapporto”. Come fosse un personaggio, ne andrà ricostruita la storia interna (provenienza, incontri fortuiti, passaggi di mano) ed esterna (gli incroci con il clima culturale, letterario e figurativo) nell’intento di leggerla, ovvero tradurla in parole che ne rendano percettibile ciò che rimane implicito: non per caso Cesare Garboli, che di Longhi si considerava allievo, farà oscillare il titolo d’un suo saggio a lui dedicato da ‘Longhi scrittore’ a ‘Longhi lettore’. Per ogni immagine il critico-lettore dovrà costruire un tessuto linguistico in grado di trasmetterne la specificità all’interno della storia delle forme immergendola in una temporalità fluida, più vicina alle stratigrafie degli archeologi che alle cronologie tracciate ex post dagli storici. Eppure in uno dei suoi primi scritti Longhi ricordava che il sistema delle equivalenze verbali “potrà avere valore letterario, ma sempre e solo in quanto mantenga — andrà detto per umiltà — un rapporto costante con l’opera che tende a rappresentare”.
In realtà la scrittura di Longhi non si limita a riprodurre le immagini, ma ne produce di nuove, folgoranti al punto da agire sullo sguardo di numerosi scrittori e registi italiani. Situandosi in una linea critica che unisce Contini — che per primo ne aveva messo in luce il valore letterario curando Da Cimabue a Morandi, antologia non corredata da apparato iconografico — a Ezio Raimondi, Bazzocchi si avventura in cinque appassionati affondi volti a mappare l’influenza della ‘funzione-Longhi’ aldilà della storia dell’arte, in altri territori. A partire dall’entrata in ruolo all’Università di Bologna, nel ’35, il carismatico professore formerà una generazione di allievi che alla critica tradizionalmente intesa preferirà l’arte, ma tenendo sempre a mente, oltre alle “scintille scoccate tra la pila fotografica e la pila documentaria” (ancora la voce di RL), la tonalità affettiva del suo sovrapporre parole alla materialità delle opere. Su quei banchi siedono, tra gli altri, Giorgio Bassani e Pasolini, affascinati ed impauriti dal misto di auctoritas e salace ironia del maestro al punto da decidere di non laurearsi con lui, ma con l’italianista Carlo Calcaterra. Eppure dall’ombra di Longhi nessuno dei due riuscirà a staccarsi. Bassani — lo ricorda la figlia Paola nel bel memoir Se avessi una piccola casa mia — considerava l’Officina ferrarese un punto di riferimento sul quale misurare le sue sperimentazioni romanzesche; Pasolini si farà attraversare dalla nuova storia e geografia dell’arte italiana tracciata dal maestro prima in poesia, poi trasferendola di peso nel cinema. Diverso il discorso per Testori, ultimo tassello dell’analisi di Bazzocchi: il suo incontro col magistero longhiano risale ai primi anni Cinquanta, quando esordisce su Paragone con un saggio su Francesco del Cairo, dopo aver conosciuto di persona lo storico dell’arte, ammirato da tempo, alla mostra su Caravaggio e i Caravaggeschi. (E forse proprio l’aver incontrato Longhi a formazione già avviata contribuirà a rendere il loro rapporto molto meno pacifico).
Nel capitolo introduttivo Bazzocchi inquadra il quid dell’occhio di Longhi soffermandosi su due nuclei centrali, il Piero dei Franceschi e gli scritti su Caravaggio. Chiunque ne abbia letto le pagine non può più avvicinarsi ai dipinti senza sovrapporre loro la lettura che ne ha dato il critico: immagini note vengono rovesciate come un guanto da uno sguardo spiazzante, aereo e pieno di vita. Si sofferma su dettagli al di là dell’umano (come quando indugia sulla neve del Sogno di Costantino, anziché sulla composizione), ma al contempo sbalza la realtà dell’esperienza sulla superficie della tela: attitudine propria soprattutto del Longhi maturo, le cui interpretazioni risentono — e questo è uno dei dati più innovativi del volume — delle sperimentazioni in parola e in figura condotte dai suoi allievi tra gli anni Cinquanta e Sessanta.
Come non pensare al Pasolini “romano” quando nel descrivere la Maddalena caravaggesca viene tratteggiata la scena d’una “povera ciociarella tradita” che piange in attesa del fidanzato “per lasciarsi asciugare i capelli dal sole che filtra nella stanzetta smobiliata (e l’ombra cresce in tralice sul muro)”? Se ci troviamo davanti a un processo biunivoco di dare e avere, non a un’influenza a senso unico, lo si deve anche al fatto che, come suggeriva Ezio Raimondi, in Longhi “il processo di visualizzazione viene a identificarsi indirettamente con la ricostruzione dinamica del fenomeno da parte del critico e del lettore”. Proprio le ‘sopravvivenze’ dell’immagine negli occhi di chi legge vengono messe in luce nel secondo e quinto capitolo, attraverso il close-reading di specifiche costellazioni figurative.
Spicca l’esempio del ‘logogrifo’ (così Longhi definiva le sue trame verbali) della Madonna del Parto, per più d’un verso sorprendente; lo storico dell’arte ne evidenzia la duplice natura di figura “solenne come figlia di re” e al contempo “rustica come una giovine montanina che venga sulla porta della carbonaia”. A questa radice aristocratico-popolare farà riferimento Pasolini, nella scena d’apertura del Vangelo secondo Matteo. L’immagine pierfrancescana rinasce nel volto muto d’una ragazzina calabrese circondata da un’arcata in muratura: rovesciando a livello iconografico l’economico gesto degli angeli evocato da Longhi, Pasolini esalta il côté popolare della ‘Madonna incinta’. Assistiamo al crearsi d’”un circolo continuo” ricorda Bazzocchi “tra immagine evocata dalla scrittura, immagine anticipata nella sceneggiatura e immagine reale, affresco di Piero da una parte e fotogramma di Pasolini dall’altra. Sono due immagini incommensurabili”. Eppure questo confronto impossibile non potrebbe esistere senza il tramite di Longhi, la cui eredità tornerà a vivere in un’altra visualizzazione della Madonna del Parto, nella La prima notte di quiete (1972) del bolognese Valerio Zurlini. Il discorso del professor Daniele Dominici, interpretato da un Alain Delon al suo meglio (e sceneggiato da Tonino Guerra, mediatore anche nel caso di Nostalghia di Tarkovskij, altro capolavoro girato sulle orme di Piero), echeggia in più punti il dettato di Longhi; nello spiegare l’opera all’allieva Vanina Dominici esalta proprio:
il miracolo di questa paesana adolescente altera come la figlia di un Re. Finora si è divertita a confidarsi con le sue bestie, le chiama per nome. Poi a un tratto tutto è finito, poiché attraverso i secoli il destino ha scelto proprio la sua purezza. Forse già sente oscuramente che la vita misteriosa che giorno per giorno cresce in lei finirà su una croce romana.
L’immagine reca in se stessa tracce del suo futuro, anticipando il finale tragico del film. Diverso il caso di Bassani, analizzato nel capitolo più all’avanguardia del libro, sul filo dell’analisi stilistica di cui Bazzocchi è maestro: lungi dall’essere abitati da un pittoricismo ingenuo, gli scenari dei romanzi del ciclo ferrarese si costituiscono di un complesso intreccio di punti di vista, attraverso transizioni e slittamenti della percezione che (si potrebbe aggiungere) li apparentano a certe avventure dello sguardo del Pasticciaccio, stilisticamente antipodico eppure egualmente intriso di umori longhiani. E all’eccessiva pervasività dell’occhio di Longhi serviva un contrappeso, echeggiato nel titolo: è in Artemisia (1947) di Anna Banti che Bazzocchi individua un modello alternativo.
Banti aveva esordito ventenne col suo nome di battesimo, Lucia Lopresti, pubblicando saggi che ne rivelano con anticipo l’esuberante talento narrativo. La scelta di abbandonare la storia dell’arte per la scrittura, spesso presentata come sconfitta, la porterà a crearsi una voce propria, diversa da quella di Longhi, suo compagno di vita: “…Divenni Anna Banti. Del resto il nome ce lo facciamo noi. Non è detto che siamo tutta la vita il nome della nostra nascita”. All’effetto-Caravaggio Banti contrappone il mito di Artemisia, che poggia su basi diverse dalla tradizione dell’ecfrasi cui Longhi stesso s’inscrive. Se quest’ultimo aveva dedicato alla pittrice Gentileschi padre e figlia (1916), saggio che ne riconduceva l’arte a quella del padre Orazio (“Non vi pare che l’unico moto di Giuditta sia quello di scostarsi al possibile perché il sangue non le brutti il completo novissimo di seta gialla?” si chiede davanti a Giuditta e Oloferne, con misoginia che non si premura di nascondere), Bazzocchi a ragione sottolinea gli scarti del romanzo rispetto alla fonte saggistica.
Quasi mai Banti descrive i dipinti, piuttosto ne traduce suoni colori atmosfere in “catene d’immagini che entrano in rapporto, formano un sistema e diventano narrazione, una narrazione che trascende il peso della realtà ma possiede l’energia interna per produrla”. Più che il fissare l’artista in un’immagine immutabile c’è in gioco il problema, più complesso, dell’identità duale dell’artista e della narratrice:
Noi giochiamo a rincorrerci, Artemisia e io. E a fermarci, senza trabocchetti, dai più materiali e scoperti ai più nascosti.
Ricerca funzionale alla creazione d’un nuovo modello euristico: alla forza dell’occhio che valuta viene contrapposto un continuo svicolarsi delle figure, sulla tela e in carne ed ossa. Come la posa dell’Autoritratto come allegoria della Pittura, le immagini tessute di scorcio dalla penna di Banti instaurano col lettore un rapporto di desiderio che le porta “oltre il linguaggio, nella molteplicità delle relazioni”: in questo senso, un dialogo serrato col campo dei Visual Studies — menzionato nel libro di sfuggita, per brevi accenni — avrebbe forse aperto ulteriori strade nell’interpretare uno sguardo che sembra posizionarsi dietro ai dipinti, rivelando un approccio alla temporalità assimilabile alla dimensione teatrale, più che a quella romanzesca. Compito dei futuri critici sarà mappare la ricorsività della ‘funzione-Artemisia’: risulterebbe senz’altro più diffusa, almeno per una certa generazione di scrittori (valgano i nomi di Mazzucco e Rasy, tra i molti), dell’ombra di Longhi.