Q uattro definizioni della scrittura naturalistica: la letteratura della perdita, un’elegia, un lamento funebre. Un «antidoto alla disperazione»” scrive Ellen Meloy in una pagina di diario. Più avanti aggiungerà “un incrocio tra il delirio di una mente a mollo nella formaldeide e una messa solenne, in latino, in un giorno di caldo insopportabile”, per via della rassegnazione che questo genere emana, della nostalgia provocata dalla perdita irrimediabile della natura selvaggia. Ma in Antropologia del turchese, raccolta di saggi dedicata ai deserti dell’ovest americano – uscita nel 2003 e ora pubblicata in Italia da edizioni Black Coffee nella traduzione di Sara Reggiani – la scrittura naturalistica di Ellen Meloy prende una forma diversa: un’autobiografia paesaggistica, una ricerca poetica dell’esperienza sensoriale data dalla natura.
I saggi di Meloy si configurano come “riflessioni su deserto, mare, pietra e cielo” attraversate e informate dalla presenza del colore turchese. Un po’ come i Bluets di Maggie Nelson – che intrecciavano autobiografia, lirica e trattato filosofico attorno al colore blu –, Meloy mescola elementi di botanica, di geografia, di storia, di critica culturale, al suo vissuto. In “Attraversare il Mojave a nuoto” l’autrice, ormai adulta, ripercorre le tracce di un viaggio on the road fatto con la sua famiglia negli anni Sessanta. Attraverserà le centinaia di chilometri che separano Santa Monica dalla Monument Valley come il nuotatore del racconto di Cheever – che, dopo una festa, decide di rincasare percorrendo la via acquatica delle piscine del vicinato; seguendo cioè l’azzurro artificiale delle piscine californiane fino all’acqua limacciosa dei canyon in Arizona e Utah:
In America si utilizza una particolare vernice azzurra per le piscine. Per i modelli base, quelli da cortile, si è sempre adottato lo standard di un bianco freddo e abbagliante per le parenti e il fondale, accostato a una striscia di piastrelle turchese o di lattice spesso lungo il bordo, appena sopra il pelo dell’acqua. L’azzurro in questione evoca serenità ed evasione. Se fosse di una tonalità più scura sarebbe inquietante come un lago senza fondo.
L’acqua s’infiltra in tutto il racconto di viaggio. È evocata nella marea di traffico che invade le strade di Los Angeles, dove l’odore del gelsomino si mescola a quello del gasolio – “essenza aromatica della California del Sud”–, è deviata e incanalata nelle grandi opere idrogeologiche che ammansiscono il fiume Colorado, per irrorare le città del boom economico. “Di piscina in piscina nuotai in una porzione di deserto del Mojave camuffata da villa mediterranea”, scrive Meloy, che attraverso la riflessione sul rapporto tra artificio e natura ritorna alla pura esperienza sensoriale – “sotto il cielo accecante dell’Arizona scivolo sott’acqua, mossa dal desiderio di trasferire sulla mia pelle l’immobilità liquida e lo sfavillio turchese della luce” – e raggiunge una sensazione provata durante l’infanzia, quando “questo mondo di sole e turchese [era] mio soltanto”.
Il paesaggio aiuta a recuperare la memoria del corpo; viceversa, i ricordi, personali e famigliari, plasmano il paesaggio. In “Attendere l’occasione”, Meloy rievoca la storia delle popolazioni native della Sierra Nevada, attraverso un manufatto che si tramanda nel ramo femminile della sua famiglia:
Possiedo un cestino confezionato oltre centocinquant’anni fa da un’indiana Yokut, un intreccio di felce aquilina, falasco, Cercis ed erba dei cervi a formare diamanti del dorso del serpente a sonagli e ali d’anatre in volo.
“Negli anni Cinquanta del 1800 una Yokut” continua, “fece dono del cestino alla mia trisnonna materna Sarah, proprietaria di un ranch a cavallo del fiume che s’insinuava come oro liquido tra le pendici meridionali della Sierra”. Quel territorio conserva le tracce della corsa all’oro, dell’usurpazione della terra ai nativi, delle torri pericolanti dove, negli anni Trenta, la prozia dell’autrice si arrampicava per avvistare i fulmini e prevenire gli incendi nelle foreste; dove lei stessa, da bambina, aveva affrontato le prime escursioni in solitaria e scoperto la passione per la botanica. È un paesaggio ancestrale, dove il tempo si è impresso in un luogo cancellato dalla costruzione di un bacino artificiale, “una delle tante dighe che drenano la Sierra lungo tutte le quattrocento miglia che ricopre”.
Le tracce del turchese portano Meloy in altri luoghi di bellezza e violenza, lontano dai suoi deserti. In “Heron Bay”, risale la propria genealogia famigliare fino ad arrivare a un’isola delle Bahamas, dove un suo antenato, nel 1788, possedeva ventisette schiavi e 470 acri di piantagione. Qui il racconto naturalistico raggiunge una delle espressioni più alte della raccolta. La foresta tropicale è aliena e angosciante, la descrizione di Meloy ricorda l’allucinazione del Grande mare dei Sargassi di Jean Rhys:
La vegetazione cresceva fitta come i peli sul dorso di un cane, una rocca di umidità imprigionata sotto una calotta di piante ipertrofiche. Alzavo di frequente lo sguardo verso le cime degli alberi per scorgere un uccello nel sole alto del mattino. Rami e spine mi laceravano la carne anche attraverso i vestiti, e temevo di precipitare in una dolina calcarea, o di inciampare ed essere sommersa da un’orda di formiche assassine o tremiti furenti. Durante il mio girovagare continuavo a pensare alla baia e a quanto avrei voluto immergermi nelle sue acque, liberarmi di quei cappi che mi avvincevano alle caviglie.
Dei suoi antenati rimangono soltanto pietre in rovina, una tomba nascosta nella giungla, la sensazione che il tempo sull’isola “doveva essere una cosa diversa”, quasi solida, materiale. Si può dire suo, quel posto? I suoi antenati hanno cambiato il corso della storia su quell’isola, ma questo non le dà alcun senso di appartenenza; a differenza della Sierra Nevada della sua infanzia, dei deserti occidentali della sua maturità. “Mi domando se la percezione sensoriale non sia dunque l’unico mezzo di cui disponiamo per tracciare una mappa interiore del mondo. Che cosa ci dicono i sensi in certi paesaggi tanto da indurci a evitarli o a reclamarli come nostri?”
Con questa rivendicazione, Meloy raggiunge il centro filosofico e poetico di Antropologia del turchese: la sua scrittura naturalistica è un’esperienza sensoriale, per questo priva di rassegnazione e nostalgia. Semmai, c’è rabbia. O intimità. La lingua precisa di Meloy, che in certi punti diventa quasi anatomica, in altri ha una forte carica immaginativa, è resa con grande cura nella traduzione italiana di Sara Reggiani. La lingua è uno strumento per approssimarsi il più possibile alla realtà di un riflesso di luce o di una sfumatura di colore – “color uovo di pettirosso, ovvero il colore dello spazio fra foglie e sole in un giorno di primavera, del velo di luce al di sotto della verzura che avvolge e mimetizza il nido” –, per nominare ogni specie animale, vegetale, ogni roccia, residuo minerale; e disegnare così la mappa interiore del mondo, l’unico modo di decifrare l’esperienza. Una necessità che emerge in “Azul Maya”:
Malgrado i presunti sei milioni di discendenti degli antichi Maya parlino venticinque lingue diverse, un gran numero di esse è destinato ad estinguersi con la morte dei suoi ultimi parlanti. In maya esistono almeno nove parole per dire «blu», tutte provviste di specifici attributi e in gran parte intraducibili
– una volta estinte, spariranno anche quelle gradazioni di blu?