È il 1973, periodo particolarmente delicato nella già travagliata – seppur breve – storia del neo-stato d’Israele. Si riaccende la miccia del conflitto arabo-israeliano durante lo Yom-Kippur, è l’ultimo sussulto di un panarabismo agonizzante già annichilito dalla guerra dei Sei Giorni. Lo scontro del ‘67, un blitzkrieg a tutti gli effetti, aveva condotto tutte le pedine dello scacchiere mediorientale a un punto di non ritorno: oltre ad aver messo fine ai grandi progetti del nazionalismo arabo laico, aveva spalancato a casa dei vincitori le porte al fanatismo politico-religioso più conservatore, segnando di fatto il tramonto del sionismo socialista dei pionieri. Una situazione che l’attentato ai danni della delegazione israeliana alle olimpiadi di Monaco non aveva di certo contribuito a rasserenare.
L’allora trentaquattrenne scrittore israeliano Amos Oz vive ancora il suo sogno comunitario nel kibbutz di Hulda – di cui parlerà lungamente nel suo memoir Una storia di amore e di tenebra (2002) – e tra il lavoro dei campi e le assemblee riesce a ritagliarsi uno spazio considerevole per la scrittura, soprattutto dopo il successo editoriale di Michael mio (1968), le cui royalties permettono a Oz di contribuire in maniera significativa all’economia della comunità. In questo contesto nasce anche Tocca l’acqua, tocca il vento, romanzo breve ma fitto di contenuti, che qui in Italia riusciamo a leggere solamente oggi, a inizio 2017, grazie a Feltrinelli, l’editore che finora si è occupato di tutte le pubblicazioni di Oz nel nostro paese.
Le tensioni, la guerra, la sfiducia crescente nelle capacità risolutive della classe dirigente israeliana (che porterà lo scrittore poi a lasciare i laburisti per Meretz, il più a sinistra di tutti i partiti sionisti), inducono Oz a sfuggire almeno letterariamente dalla realtà alienante che lo circonda. Abbandona così il realismo introspettivo di matrice ottocentesca che aveva caratterizzato la sua prosa fino a quel momento, e si avvicina a uno stile di racconto totalmente anti-mimetico e surreale, debitore, più che del grande romanzo russo, della tradizione favolistica slava tramandata da Afanas’ev, e che, considerate le sue origini polacche, lo scrittore israeliano doveva conoscere molto bene.
Proprio con una fuga vorticosa dalla Polonia occupata dai nazisti comincia Tocca l’acqua, tocca il vento. Pomerantz, insegnante ebreo di matematica e fisica, braccato dai tedeschi, abbandona la moglie Stefa per rifugiarsi in una catapecchia nei boschi appartenuta a un taglialegna mago (dalle chiare assonanze cristologiche) a cui ruba inspiegabilmente i poteri.
Era capace, fra le altre cose, di guarire un dente malato bisbigliando, di sedurre una contadinella a suon di canti liturgici, di far abbaiare i cani pastore e di calmarli con un gesto della mano, così come di levitare un poco nell’aria, al buio, col favore del vento giusto. E poi ruttava sempre, e rubava polli a destra e a manca. Finché una sera di Pasqua il taglialegna si vantò con i contadini dicendo che, se l’avessero colpito forte in testa con un’ascia, questa si sarebbe spezzata. Ci provarono, e l’ascia rimase intatta. Quel ruttone di Dziobak Szczybulski, figlio di una vergine, li aveva avvertiti che sarebbe tornato presto in un’altra incarnazione.
Ci troviamo in una dimensione onirica, che pervade ogni pagina del romanzo e accompagna passo passo il viaggio di Pomerantz verso la Palestina. “Tutto in punta di dita. Tutto come dentro un sogno”. I personaggi cambiano spesso nome e fattezze, e lo scorrere del tempo si manifesta in tutta la sua componente interiore e irrazionale, tanto da comprimere in poche righe eventi dalla portata macroscopica come la Seconda Guerra Mondiale e l’Olocausto, e seguire invece nell’ordine dei secondi il lungo flusso di coscienza dei protagonisti: “Tiberiade, estate, terra d’Israele, anno Cinquantuno, di fronte una carrozzeria, le due e venti del pomeriggio, due e ventuno, ventidue, una sigaretta e una bottiglia di gazzosa”. Queste riflessioni traggono la loro linfa in maniera abbastanza evidente dal pensiero di Martin Heidegger – il filosofo compare infatti nel libro come nume tutelare di Stefa, studiosa di filosofia, con cui intrattiene anche un fitto carteggio – e sembrano spesso una rilettura scanzonata di Essere e tempo:
Un giorno aveva sentito, chissà se da sua moglie Stefa, che il tempo è un elemento soggettivo – una sorta di impulso mentale. E così aveva maturato una bassa opinione del tempo. Anche gli oggetti materiali, a sondarli nel profondo, non sono che vaga sembianza. In breve: le idee non si potranno mai cogliere con i sensi né i corpi concreti afferrare con il pensiero. Ne consegue che nulla esiste. I tedeschi, i boschi, le catapecchie, gli spiriti dei defunti, i lupi, il fetore dei villaggi all’alba, i granai, i vampiri, i torrenti grigi, la neve a perdita d’occhio.
Similmente alla struttura narrativa di molte opere di Oz, i racconti di Terre dello sciacallo (1965) in particolar modo, quella di Tocca l’acqua, tocca il vento è una storia di vite spezzate e poi ricomposte: il ritrovato amore della coppia Pomerantz-Stefa non è altro che il recupero di uno spazio perduto, l’esorcizzazione della dimensione diasporica che sembra connaturata alla condizione ebraica e che per l’autore può realizzarsi solamente con il ritorno nella “terra dell’eterna primavera”, Israele. In una prospettiva laica, fondata sulla rispettosa convivenza con la controparte araba, posizione che da sempre accomuna Oz agli altri due più importanti autori del paese, Grossman e Yehoshua.
Il personaggio di Pomerantz giunge in una manciata di pagine e qualche volo a planare in riva al lago di Tiberiade. Anche lui come il suo creatore sente fortemente il richiamo della vita del kibbutz, sempre più ideale tappa definitiva nel viaggio dell’ebreo errante. Qui l’ex professore riesce a risolvere un paradosso riguardo l’infinito matematico legandolo a strane teorie musicali e gravitazionali, in un connubio di rivelazione scientifica e metafisica che ricorda a tratti la scoperta di Max Cohen, il matematico ebreo protagonista del film π (1998), l’esordio cinematografico di Darren Aronofsky. Più tortuoso è invece il percorso di Stefa che dalla Polonia viene condotta da un misterioso personaggio mefistofelico in Russia, dove diventa alto funzionario del KGB per poter scovare il marito fuggiasco. È lei, unico personaggio attivo del romanzo, a muovere i fili del loro ricongiungimento, possibile solo in un kibbutz dell’Alta Galilea. “Scorrevano all’infinito in due direzioni contrastanti. Quelle due correnti incrociate sono l’amore”.
Il legame ontologico con la terra – anche questo sembra mutuato dal rapporto di “esistenza autentica” tra Heidegger e la Foresta Nera – prende vita in una descrizione vivissima degli elementi naturali e del paesaggio, che risaltano sulla pagina soprattutto per contrapposizione: all’esterno con le figure volutamente bidimensionali di tutti i personaggi (un po’ come gli eroi veterotestamentari della Torah), all’interno nel contrasto tra il freddo glaciale dei boschi europei e il sole idilliaco della Palestina.
Questa manifestazione panica però nasconde in nuce un turbinio di forze inquiete: l’acqua, il vento, sono elementi essenziali alla sopravvivenza ma difficilmente tangibili. Il grande sogno di una Terra Promessa è forse illusorio, “Ma è davvero possibile questo posto?” si chiede Pomerantz ammaliato dai corpi abbronzati degli ebrei che vede in giro. La guerra dei Sei Giorni intanto è alle porte, lo scoppio delle granate risuona nel kibbutz mentre “l’odore delle tenebre” lo avvolge: le possibilità di condurre un’esistenza pacifica, in Israele e in tutto il Medio Oriente, si assottiglieranno sempre di più.
L’aria era piena di una calda tensione. Come ansimi. Uno strano silenzio. I tetti di lamiera avvampati dal sole emanavano un odio incandescente. Sulle pianure e i monti i furore di una tarda primavera. Non un uccello in cielo. Il grano ancora da mietere crepitava seccamente, come se fiutasse del fumo. Altro che boschi, Stefa, nella cui oscurità trovare rifugio. Una terra di luce bianca. Niente casupole abbandonate dove nascondersi o possibilità di fondare qui all’ultimo minuto un’associazione goethiana. Tutto chiuso. Tutto accecante ed esposto. Ecco una nuova guerra, e qui non c’è acqua, non c’è buio.