S e un tempo quel doppio movimento rappresentato da ansia e ostinazione prendeva forma pienamente durante l’ascesa borghese, ovvero all’interno di quella lotta necessaria per accedere alla qualifica morale ed economica di borghese, ora ansia e ostinazione illuminano inesorabilmente il momento della caduta. Il crollo è da sempre al centro dei romanzi di Alessandro Piperno e in modo particolare e ancor più affilato in Aria di famiglia (Mondadori, 2024). La caduta è l’incubo di ogni borghese, che sia una caduta economica come sociale non conta, perché certifica l’esclusione dal proprio gruppo di appartenenza. Il problema, come ben sa Alessandro Piperno, è che quel gruppo ora si è trasformato in un branco e i suoi accoliti si contano tra loro come parti di tribù ognuna apertamente contro l’altra. Una guerra per bande che qui vive all’interno di un’estetica tardo fatalista tipica della borghesia romana, dove ogni passione si trasforma in routine e ogni routine inevitabilmente tende a produrre noia e infastidita rassegnazione. Ogni forma di opposizione a questo stato dell’anima può portare a un costo altissimo per chi si voglia emancipare, ed è proprio quello che accade al protagonista di Aria di famiglia, seppure in maniera del tutto indotta e involontaria, come sempre succede nelle migliori famiglie borghesi.
Secondo volume dopo Di chi è la colpa (Mondadori, 2021) a raccogliere le vicende della famiglia Sacerdoti, e in particolare del qui cinquantenne professor Sacerdoti, docente universitario in letteratura francese e scrittore, Aria di famiglia vive come spesso accade nei romanzi di Piperno all’interno di una latente provvisorietà che sospende nel lettore ogni possibile dubbio alternativo. La condanna e la colpa diventano oggetti kafkiani, e in quanto tali totalmente evidenti seppure insensati, ma anche placidamente accolti dal protagonista che vive la loro inevitabilità con indolente certezza: così va il mondo, e in un certo senso solo così è possibile salvarsi.
Aria di famiglia si apre dunque con un’azione disciplinare nei confronti del Professor Sacerdoti che avrà come principale conseguenza la sua cacciata dall’Università. Si tratta in parte di un equivoco, ma anche di un gioco a cui Sacerdoti decide di rassegnarsi, evitando un’accondiscendenza che sarebbe anche peggiore della condanna stessa. Se all’apparenza sembrerebbe di stare dalle parti di La macchia umana o de L’animale morente di Philip Roth, in verità il romanzo di Piperno sembra più appartenere a una forma di commedia nera alla Luis Buñuel anche per l’adesione totalmente borghese di chi – in questo romanzo, certe professoresse che sono le antagoniste del libro – si ritiene (ovviamente) anti borghese e come tale accusatore e giudice legittimo di un comportamento, come di un atteggiamento più o meno ritenuto poco consono al nuovo decoro e alla decenza ora imperante.
Quello che sembra un romanzo che si apre all’interno di una dinamica d’attualità stretta, e come tale anche sufficientemente esausta, si trasforma brillantemente in un romanzo che di quel movimento tiene giusto il disgusto e la necessità di un abbandono obbligato.
Alessandro Piperno scardina così non solo la retorica che alligna attorno alla cancel culture, ma anche una certa idea di presente allagandolo con la forza.
Liberatosi – più che cacciato – dall’accademia, Sacerdoti si avvia ad una paciosa e quieta viva da tenutario di rendita grazie alla vendita di una vecchia magione di famiglia. Quello che si apre come un romanzo alla Philip Roth muta in un romanzo di Joseph Roth, grazie all’incontro fortuito e travolgente con il nipote Noah, ebreo osservante di cui senza presagio alcuno Sacerdoti diviene tutore.
Alessandro Piperno scardina così non solo la retorica che alligna attorno alla cancel culture, ma anche una certa idea di presente allagandolo con la forza – in questo caso premonitrice di Gustave Flaubert – della contemporaneità, che abbatte inesorabilmente ogni orpello kitsch di un mondo che si ritiene tale in quanto parte di una cronaca più o meno nera, più o meno rosa. È come una seconda partenza, per Sacerdoti. Dopo un inizio in cui il testo pone le basi per una sorta di depurazione in forma di fuga – mitigata da una noia angosciante e angosciata – ora Sacerdoti ha l’opportunità di tornare a sé, come un Giobbe in ciabatte con una sterminata libreria a disposizione.
La fuga dal mondo come appartenenza ostentata al mondo, non quello dato dalle sue più o meno futili rappresentazioni, ma da una sostanziale aderenza a un tempo contemporaneo che non offre requie alcuna, ma la possibilità spesso amara e solitaria di poter mettere a fuoco la cosiddetta confusione del mondo. E in questo movimento ondoso Alessandro Piperno s’immerge con una narrazione decisa e sempre abilmente seducente che però si pone come una svolta, non solo rispetto a Di chi è la colpa, ma anche rispetto alla produzione romanzesca precedente. Qui in qualche modo il romanzo abbandona se stesso e il proprio corpo per recuperare la propria essenza e con rivendicata energia le proprie irriducibili ragioni. Un abbandono di campo dentro al quale il protagonista diviene lui stesso romanzo nel romanzo in quanto eroe antiquato, e come tale messo da parte perché rappresentante ostile di un’epica considerata desueta e ridicolmente barocca.
Questo farsi corpo del romanzo permette ad Aria di famiglia di portarsi fuori, oltre il contesto e liberare una vicenda classica, ma in modo contemporaneo. L’aria di famiglia dunque non è una vaga comunanza, o un’origine comune per quanto rarefatta; è l’elemento gassoso che è interminabile, e che non si può più agguantare con forza e precisione. Non basta più la cultura e non basta più la pazienza, occorre una misura nuova, uno sguardo diverso e distinto che non vive più nell’osservazione, ma in quello stare ritto e puntuale nel mezzo del tragitto, là dove Sacerdoti incontra gli occhi di Noah, nipote piombatogli in casa da un fuori tempo massimo imprevedibile e al tempo stesso rivelatore.
La fuga dal mondo come appartenenza ostentata al mondo, la possibilità spesso amara e solitaria di poter mettere a fuoco la cosiddetta confusione del mondo.
Tra Sacerdoti e Noah si apre un campo aperto di confronto dentro al quale il necessario accudimento svela nel sarcasmo e nella misoginia (mai frenata) di Sacerdoti, un grado inedito d’ingenuità e di tenerezza. Aria di famiglia è il romanzo di formazione per cinquantenni di oggi: uomini in perenne crisi d’ansia e d’angoscia e come tali attraversati da un passato sempre più glorioso e da un futuro evidentemente sempre più inquietante.
Abituati al presente come sedazione continua utile a tenere a bada fantasmi passati e incubi futuri, i cinquantenni convivono consapevolmente fuori dalla loro stessa contemporaneità in modo da poter costruire prima che un futuro – sempre troppo pericoloso – un passato adatto a spiegare i capelli ormai bianchi o sempre più radi, la pinguedine evidente, e quell’incapacità perenne di capirci mai qualcosa da tutto quel che accade attorno a loro. Fortunatamente, Alessandro Piperno, quale cantore di questa disfunzionale generazione gode di una grazia ironica fondamentale a evitare sgraziati appesantimenti o desueti rimproveri. Mai padri, ma potenzialmente zii, esattamente come il professor Sacerdoti, i cinquantenni divengono così il terreno ideale di una narrazione che ha in Aria di famiglia il suo momento oggi migliore e più efficace.
Un romanzo che non concede nulla alla rassicurazione e ancor meno alla consolazione, anche se sa attraversare entrambe efficacemente per raccontare chi – come Sacerdoti – di questi sentimenti tende a farne uso tanto diffuso quanto occulto. Una rivelazione che sarà il segno di un ritorno per il nostro – in un certo senso perenne cinquantenne – alla memoria come forma di vergogna, come liberazione e mutazione di sé oltre la storia già data. Oltre quella soglia di presenza di sé così tanto condizionante e assurdamente incolpevole. Perché prima ancora della colpa e della condanna, sarà la vergogna a rivelare a Sacerdoti il senso di avvenimenti da sempre per lui incomprensibili e ora invece chiari ed evidenti. Aria di famiglia offre un risveglio imprevisto con il più pudico dei sentimenti, ma anche spesso il più indicibile, quella vergogna troppo spesso persa e perduta da un’intera generazione perché priva di scrupoli o perché, peggio ancora, priva di reali desideri.