L’ amore minuscolo raccontato da Anja Trevisan nel suo romanzo d’esordio Ada brucia (Effequ 2020) è un esperimento di empatia oltre che un esercizio di elasticità morale. Rino è un venticinquenne che ha ereditato dal nonno il mestiere artigiano di orologiaio e una casa isolata in un bosco umbro. Solitario e riservato, Rino si sposta in furgone tra i paesi della zona per consegnare i suoi lavori e partecipare a qualche festività locale. È in queste occasioni che conosce Beatrice, e se ne innamora, crede, ricambiato. Rino sa di voler passare il resto della sua vita insieme a lei. La sera dei festeggiamenti per San Pancrazio, solleva Beatrice dal passeggino mentre sua madre, Cecilia, è distratta. Beatrice ha nove mesi quando Rino la rapisce e la porta a vivere con sé nel bosco, dandole un nuovo nome, Ada. Pronunciando le sue prime sillabe, Ada gli dà a sua volta il nome Bapu, e quando impara a camminare Rino le vieta di uscire dalla porta di casa: fuori l’erba brucia i piedi di chi non indossa scarpe, e scarpe per bambine non esistono.
Il mondo è dentro una bolla. Come se le luci fossero spente, i rumori abbassati a bisbigli, la felicità un divieto. Chi
potrebbe essere felice in questi giorni, in cui la presenza di Cecilia e della sua tristezza sembrano entrare nelle case, nelle chiese, nei cimiteri, nei negozi, nelle taverne. Ovunque, ma non qui: non nel piccolo angolo che Rino e Ada si stanno ritagliando, lui stando con lei per tutta la durata del giorno e della notte e lei non ribellandosi alle sue attenzioni, raddrizzando la testa quando sente la sua voce o i suoi passi muoversi sul pavimento. Per lui questo significa che Ada non ricorderà mai il viso di Cecilia, di Franco o dei suoi fratelli. L’ha pensato da quando i loro occhi si sono incontrati, dal momento in cui lei li ha aperti e li ha fatti finire dentro i suoi come arpioni.
Bapu però non è un Barbablù, così come Ada non è una Raperonzolo, e al di là del bosco non ci sono streghe o principi, ma cronaca nera, la nozione di reato sessuale nel codice penale, polizia e carceri. Trevisan recupera il tabù sociale della pedofilia decontestualizzandolo dalla sua iterazione più frequente, il nucleo familiare (dove, almeno in Italia e senza contare il sommerso, avviene la stragrande maggioranza degli abusi sessuali su minori), ed elimina la componente lucrosa della pedopornografia e dell’adescamento online ambientando la sua storia nel mondo ancora analogico degli anni ’80. Il risultato è una parabola paradossale che segue fedelmente lo sviluppo di una situazione già pregiudicata da un vizio di forma: che cosa succede durante una relazione inficiata dalla clandestinità e dalla segregazione, oltre che minacciata dalla condanna sociale più severa?
Senza di lei che vita è? Il cervello di Rino non lo sa. Il suo cervello ora funziona a intermittenza, pensa una cosa, poi
un’altra, poi torna a quella di prima. E la cosa giusta non si sa qual è. Forse è starle distante, non frapporsi tra lei e la vita. Però l’amore è giusto, il nonno gliel’ha sempre detto: l’amore sì, per questo non ha mai preso nessuna bambina, per questo non si è mai fatto una sega davanti a una scuola elementare anche se voleva, con tutti quei grembiuli che si aprono e gonnelline che corrono. Perché lui le cose giuste le sa distinguere da quelle sbagliate. Fanculo, sono buono, si dice.
Decisa a non voler tratteggiare Rino come un mostro, e a non voler incapsulare Ada nel ruolo della vittima impotente, Trevisan amplia la sagoma narrativa convenzionale incentrata sulla passione illegittima e sull’amore impossibile per accertarsi di quello che succederà alla parte più debole della coppia una volta superati i termini della cronofilia di Rino, ma anche raggiunto il momento della maturità di Ada stessa. L’isolamento sociale cui Rino costringe Ada non ne pregiudica la sopravvivenza – Ada cresce ben nutrita e pulita, parla italiano, può guardare la televisione, sfogliare libri e colorare – e sebbene Trevisan stia attenta a non far trasparire giudizi, la sua descrizione evidenzia con nitore lo scarto di potere che Rino è ben attento a mantenere. Ada non sa scrivere, non sa leggere l’ora, veste abiti smessi di Rino e usa i suoi vecchi giocattoli. Rino non può certo destare sospetti in paese facendo spesa di nuovi colori o abiti da bambina, e nemmeno quando arriveranno le mestruazioni a minare la sua attrazione per Ada si adatterà a comprarle degli assorbenti.
«Oggi perdo sangue». I muscoli di Rino si tendono tutti insieme. Alza gli occhi al cielo, li chiude, respira a fondo;
vorrebbe dare un pugno al muro, ma la spaventerebbe. La piccola donna che Ada sta diventando ruba tutto quello che avevano costruito, che lui aveva immaginato e voluto. Apre le mani e le mette ai lati della porta, scaricando il peso su una gamba sola. «Non mi interessa. Amore, esci». Sente da sé che la sua voce è finta. Fa una smorfia di disgusto, scuote la testa. Non riesce a rimanere immobile: il pensiero di lei, del suo corpo grande con le mestruazioni, lo esaspera, e non vorrebbe che Ada se ne accorgesse ma cazzo, è così.
Insieme vivono una vita semplice, fatta di pastasciutte, programmi TV, prove generali di fuga in cantina nel caso arrivino ospiti indesiderati, e scandita dal rito serale del bagno insieme. Privata di qualsiasi ricordo di un mondo alternativo, Ada è la vittima perfetta perché non può sapere di esserlo, e tutto quello che impara è in funzione dell’appagamento del suo Bapu. I discorsi amorosi di Rino e Ada non suonano romantici per chi legge, ma incapsulano tutto il candore di persone innamorate e codipendenti che non hanno parole migliori per dirselo, o, per Ada, nessun termine di paragone, nessuna nozione di cosa è opportuno e cosa è prepotente, nessun modello di affetto che non sia un indiscutibile monopolio.
«Nella tele parlano sempre di
l’amore. Non ho capito perché». Rino non sa bene cosa dirle. Durante gli anni ha sempre dato per scontato che lei sapesse cos’è: ne è circondata. Non ha mai pensato a quali parole usare per spiegarle un concetto che finora ha ritenuto semplice, ma mentre gli occhi di Ada si arrossano per il sapone che li ha appena toccati capisce che qui, tra loro, con loro, nulla è già detto o già deciso: al contrario, tutto è da spiegare per riuscire a mantenere questo equilibrio. «L’amore è quando due persone vogliono stare sempre insieme e non si stancano mai di abbracciarsi. Allora si dicono ti amo e se è vero durerà per sempre». «Abbracciarsi?» «Sì». «Come noi». La guarda.
Trevisan sceglie una lingua concisa e scarna per raccontare la logica e il piacere di una mente affetta da una parafilia, e la stessa semplicità le permette di descrivere scene erotiche che, se da una parte non nascondono precisione e gravità dei gesti in atto, nemmeno fanno concessioni all’immaginario pornografico, o a una sorta di romantizzazione morbosa. L’evoluzione del piacere che Rino ricerca per sé stesso è limpida – da voyeurismo e onanismo arriverà a pretendere rapporti sessuali completi con Ada – ma contemporaneamente è evidente anche la totale impossibilità di concepire il consenso o esprimere il rifiuto – impensabile che possa chiedere aiuto – da parte di Ada.
«Prometto che passerà. Va bene? Facciamo trascorrere un po’ di giorni e poi riproviamo». «Dobbiamo?» Rino
prende di nuovo gli strumenti, ma non ricomincia a lavorare. «Sì». «Perché?» Sospira. Perché? Perché lui vuole. E le prime volte è normale che non vada bene, prima o poi le piacerà, ormai è grande. «Perché io sono felice quando succede… e quando non ti farà più male vedrai che sarai felice anche tu». Si avvicina e le dà un bacio. «Mi credi, Ada?» Lei annuisce: «Sei felice?» «Con te sempre».
La questione della pedofilia, tuttavia, non è così centrale in Ada brucia come potrebbe apparire: costruito quasi come un esperimento mentale, il romanzo sembra declinare la situazione irripetibile alla base di quello che in linguistica è noto come l’“esperimento proibito” – la deprivazione della compagnia umana a un neonato per verificare se l’origine del linguaggio sia biologica o sociale – alla domanda “esiste l’abuso in un sistema dove non ci sono divieti, esiste il trauma dove la perversione è costume?”. Il trauma più doloroso per Ada, infatti, è quello per cui inizia a soffrire dopo la separazione da Rino, quando incontra un mondo completamente diverso da quello che lui aveva inventato per lei, di cui deve imparare le regole più basilari, ma anche dove quello che lei credeva fosse amore suscita ribrezzo e ha nomi diversi, “stupro”, “pedofilia”, “rapimento”, “prigionia”, “violenza sessuale”.
Ada ha cercato ovunque, in tutte queste migliaia di pagine, una storia come la sua, ma non l’ha trovata. Voleva
sentirsi meno sola; in realtà ci si è sentita molto di più quando si è accorta che una cosa come questa nessuno l’aveva presa in considerazione. Certo, qualche storia si era avvicinata ma nessuno, nessuno, ha pensato di raccontare questa.
Ada brucia rifiuta la vicinanza con le narrazioni auto/biografiche in prima persona che, #metoo incluso, auspicano una presa di responsabilità e di coscienza insistendo sulla gravità delle violenze subite e conferendo loro, come prima strategia, una nomenclatura precisa. Trevisan, invece, crea per Ada una storia imparentata più strettamente con i resoconti narrativi che hanno come protagonisti i “bambini selvaggi” (storie autentiche che ben si prestano come soggetto di opere di finzione come, per esempio, i film L’enigma di Kaspar Hauser (1974) di Werner Herzog o L’enfant sauvage (1970) di François Truffaut). Storie, cioè, che hanno a che fare con la fascinazione per un cervello scevro di schemi arbitrari naturalizzati piuttosto che una mente piegata da vari tipi di violenza, anzi, che fatica a computare la durezza arbitraria del vivere civile. Ada brucia resta comunque nell’orbita della letteratura che trova il suo motore nelle differenze d’età notevoli e problematiche, anche se ha poco a che fare con il picarismo colto e divertito del professor Humbert in Lolita (1955) di Vladimir Nabokov – Rino, d’altronde, è un umile artigiano, non certo un esteta della pederastia, o un apologo del matrimonio in età minorile. Lo stesso desiderio di Ada è descritto con una delicatezza tale da rendere impossibile ogni malizia o allineamento all’archetipo di “ninfetta” inventato da Nabokov, le creature tra i nove e i dieci anni – l’“isola incantata” contornata dai termini temporali, “spiagge di specchio, scogli rosati”, dell’età pubescente – la cui natura “non è umana, ma di ninfa (e cioè demoniaca)”, e la cui unica funzione, ne consegue, è affascinare e sedurre gli uomini adulti. Ada non è costruita per dare sfogo a una fantasia, non è viva solo quando si vede riflessa nel desiderio altrui, anzi, lo è soprattutto quando partecipa di un piacere fisico. Non c’è provocazione fine a se stessa in Ada, semmai, un desiderio più esigente, un bisogno più acuto di armonia rispetto alla voracità di Rino.
Si asciuga col dorso di una mano il muco che le scende dal naso, poi si siede di nuovo con la schiena contro il muro.
Decide di rimanere così e aspettare, decide che tutto sommato non è successo nulla, decide che non ha voglia di sentirsi ignorata, che vuole che Bapu la cerchi, la desideri, la trovi e la porti in braccio su per le scale. Decide che se non succede, la prossima volta che qualcuno si avvicinerà lei si farà vedere. Così poi forse a Bapu mancherà.
Trevisan sfuma la focalizzazione dalla prospettiva di Rino all’inizio del romanzo a quella esclusiva di Ada nella conclusione, non per fornire una doppia versione della storia, ma per seguire le metamorfosi del desiderio. C’è un punto di giuntura tra l’interesse in declino di Rino e la nascita della sessualità di Ada: così come lui ha soddisfatto la sua voglia, anche la ricerca – sentimentale ed esistenziale insieme – di Ada si scontra con le regole che le sono state imposte, fino a infrangerle. Il potere distruttivo delle pulsioni di Ada e Rino, però, non è comparabile: la forza del sentimento ispirato da un corpo con precise fattezze sparisce rispetto alla devozione di affetto, timore, riverenza, ossessione che Ada prova per Rino durante la sua prima adolescenza, e che conserva dopo la separazione.
È scegliendo di approfondire il trauma e l’evoluzione della vita interiore di Ada oltre il rapporto con il suo Bapu che Trevisan si smarca dall’eredità pesante di Nabokov, anzi, si inserisce in una tradizione anteriore di romanzo sentimentale interessato più al gioco tra le parti che alla materia sensazionalistica. Prima della Dolores Haze, “Lolita” di Nabokov, l’americana Edith Wharton aveva creato, in uno dei suoi romanzi minori, The Children (1928), la quindicenne Judith Wheater e lo scapolo di mezza età Martin Boyne per trattare la vicinanza ambigua tra ragazzini e adulti lasciati senza supervisione. Qualche anno prima, nel 1924, l’inglese Margaret Kennedy aveva raccontato la risolutezza del desiderio adolescenziale femminile con Tessa Sanger, protagonista quattordicenne fedele a un musicista con il doppio dei suoi anni nel romanzo The Constant Nymph (un best-seller assoluto dell’epoca, che Antonio Gramsci lesse in carcere trovandolo “certamente notevole, sia perché scritto da una donna, sia per l’atmosfera psicologica in cui è concepito e sia ancora per il mondo che descrive”, e da cui la Rai trasse un adattamento in quattro puntate, Tessa la ninfa costante, nel 1957).
Trevisan, tuttavia, è una scrittrice molto giovane, nata e cresciuta in una nazione che resiste cocciuta ai rovesciamenti di prospettiva, che fatica a controllare la malizia nei confronti di certi temi, o meglio, di una specifica fascia demografica. Con Ada brucia Trevisan neutralizza il feticismo operando una semplificazione del tema centrale – la relazione tra adulto e bambino che sfocia nell’abuso – senza trivializzarlo o, peggio, romantizzarlo: “[…] vorrebbe chiederle scusa, dirle che lo ha fatto per loro che solo in quel modo potevano stare insieme. Che se il loro non è amore, allora l’amore non esiste” fa dire a Rino quando capisce che sarà arrestato: non c’è spazio per giustificazioni o elaborate elucubrazione sulla natura dell’amore, resta solo la quotidianità dei gesti compiuti, il peso delle parole scambiate per darvi un senso.