Lucia Tozzi è una studiosa di politiche urbane e giornalista. Ha fatto parte delle redazioni di Abitare e Alfabeta2. Scrive su Il manifesto, Gli Stati Generali, NapoliMonitor, Snaporaz e altri giornali. Ha pubblicato tra le altre cose City Killers. Per una critica del turismo (Libria 2020), Dopo il turismo (Nottetempo 2020), Napoli. Contro il panorama (Nottetempo 2022) e L'invenzione di Milano (Cronopio 2023).
P
ochi scrittori sulla faccia della terra hanno avuto licenza di fare del proprio editore quello che Giorgio Vasta ha fatto di Giovanna Silva, fondatrice di Humboldt Books: dopo averla trasformata in personaggio del suo libro, le ha tolto il nome e l’ha stilizzata in grillo parlante. Giovanna, diventata Silva, priva di ogni morbidezza e sfumatura, è la compagna di viaggio di Vasta per due settimane nei territori più fatiscenti dei deserti americani, da Los Angeles a New Orleans. L’altro sodale è il fotografo Ramak Fazel, che significativamente nel libro si chiama Ramak, e non Fazel. Lei incarna l’organizzazione e nutre un’insana passione per i saperi da Wikipedia, e si esprime esclusivamente in tono secco e sicuro. Peggio di tutto, l’autore le mette in mano un iPad, stigma della pedanteria. A Ramak tocca il ruolo simpatico del deviante, un po’ sbracato ma necessario per il senso di un viaggio che, come suggerisce il titolo, deve per forza girare al largo dall’universo dell’efficienza.
Silva e Ramak – angioletto e diavoletto – guidano lo scrittore in un pellegrinaggio tra luoghi abbandonati, dismessi, distrutti o semplicemente rimasti esclusi dal sistema produttivo. Le ghost town scalcinate dal calo dei prezzi dell’argento, il disseccato Salton Sea – versione yankee del lago di Aral –, l’utopia fallita di Paolo Soleri, Arcosanti, musei decrepiti degli UFO, parchi giochi chiusi da decenni, cimiteri di aerei, persino il Baghdad Cafè del film con la cicciona. E anche quando il tour tocca città ancora vive è perché portano i segni della catastrofe, come New Orleans, oppure la visita è rigorosamente ristretta alle macerie del passato, come il Neon Museum di Las Vegas: pura archeologia degli anni d’oro, monumento alla visione di Denise Scott Brown, Robert Venturi e del rimosso Steven Izenour, che nel libro Imparare da Las Vegas avevano descritto l’architettura delle insegne. (L’ultima scena di Casinò di Martin Scorsese, una sequenza con le esplosioni dei vecchi casinò, rievoca dolorosamente il passaggio storico dall’uso iperbolico dei neon all’architettura iconica contemporanea).
Tutta roba sexy, molto sexy nei mondi dell’arte e dell’architettura: sono stati prodotti infiniti reportage, libri, saggi, ricerche, film, opere d’arte su questi luoghi e in questi luoghi. La stessa Silva (persona) si era trovata una decina di anni fa a trasportare Enzo Mari alla ricerca di oggetti residuali, scorie dell’attività umana nei deserti americani. Anzi, al di fuori della fascinazione intellettuale, questi sono luoghi che hanno fatto in tempo a diventare location. Di video musicali, di feste, di eventi. Si è già consolidato un turismo tematico, come trapela anche dal libro a più riprese. E persino un grande successo della Pixar del lontano 2006, Cars, è la storia di come la nuova autostrada abbia distrutto le città e le comunità sorte lungo la Route 66.
Persone irrigidite in un ruolo, possedute dal desiderio di raccontare sempre gli stessi aneddoti con le stesse battute sulla siccità, sugli extraterrestri, sulle morti.
Non è impresa facile immergersi in questo magma, apparentemente marginale ma in realtà ipercodificato, e trarne un’opera letteraria. Vasta ha assunto la postura del rifiuto: non so e non voglio sapere. Il personaggio Silva serve a questo, assume su di sé il ruolo dell’informatore, quello che dà forma al viaggio, che fornisce al lettore con il suo iPad un ripasso di base sui contenuti e l’orientamento, lasciando libero Vasta di occuparsi del resto.
«Scesi dalla jeep vedo subito sul grigio chiaro del marciapiede una fragola rossissima. Così, sola, lampante. Un attimo dopo passo accanto a un distributore automatico di giornali – gambo e telaio neri, la teca trasparente con la scritta LOS ANGELES TIMES, più giù l’annuncio dell’Elephant Parade, HERD EVERYWHERE IN DANA POINT! – e ancora un po’ più in là mi abbasso su un altro tombino L.A. Water, la superficie cosparsa di piccoli nodi in rilievo simili ad aculei, e mi ritrovo a pensare che da un viaggio desidero soprattutto questo, percezione e inventario, vita sensoriale che diventa linguaggio, censimento dei materiali, un’ininterrotta descrizione di cose senza mai una consapevolezza precisa, senza la minaccia di un significato, senza neppure l’ombra di una metafora: un viaggio di soli fenomeni e stupore».
E in effetti il libro prosegue così, a forza di percezione e inventario, appena interrotti dagli excursus wikipediani e da improbabili dialoghi con i due compagni o con personaggi grotteschi che appartengono ai luoghi del deserto. Persone irrigidite in un ruolo, possedute dal desiderio di raccontare sempre gli stessi aneddoti con le stesse battute sulla siccità, sugli extraterrestri, sulle morti.
La lingua straordinaria di Giorgio Vasta, invece, si anima descrivendo il fango e la sabbia, la mota, la morchia, l’aspetto vegetale di una coppia di anziani, la sabbiosità dei cani del deserto, il latex che incappuccia gli aerei militari in disuso. Apparentemente remissivo, il Vasta viaggiatore si fa portare, fotografare anche travestito da cow-boy, ma poi decostruisce con metodica furia, ammazza ogni possibilità di trama e umilia le schiere di aspiranti Hunter Thompson spingendo le regole del gonzo fino al punto di non ritorno, fino al suo tracollo.