Con l’avvicinarsi delle festività natalizie, iniziai a stilare un bilancio dei primi mesi in casa editrice.
Per i redattori ero una ragazza responsabile ma dalla lingua biforcuta, e a volte Renato mi chiedeva di essere più carina con gli scrittori che si affacciavano in redazione per avere notizie sullo stato di lavorazione dei loro romanzi.
Io non riuscivo ancora a isolare gli scocciatori dagli autori importanti; per non sbagliare trattavo tutti con un fermo riserbo che speravo potesse suscitare rispetto. Purtroppo – come scoprii quando Renato fece una battuta sul mio aspetto dimesso – quell’atteggiamento mi era valso la fama di ragazza fredda e complessata.
Renato era il più giovane dei miei capi, quello che si occupava soprattutto di pubbliche relazioni: se desideravi un certo tipo di carriera stargli dietro era l’ideale. Io non ero sicura di volerlo, ma poiché tutte le mie colleghe lo adulavano, mi sembrava necessario non alienarmi la sua approvazione.
Il suo commento sui miei vestiti mi offese e da quel momento feci uno sforzo per imitare le altre ragazze, anche se le loro osservazioni sui giorni di festa suonavano sciocche e forzate.
Capitolai in fretta, rassegnandomi a condividere il blando ostracismo che circondava l’uomo che mi aveva dato il lavoro, Carlo Rivella.
Era stato il mio professore di italiano l’ultimo anno di scuola, e ci piacevano le stesse poesie. Spesso, in quei primi anni di collaborazione, arrivai a pensare che mi avesse fatta assumere per sentirsi meno solo.
Per quanto mi dolesse ammetterlo, anche se provenivamo da contesti sociali molto diversi – io di famiglia cosmopolita, lui montanaro – avevamo una severità applicata al mestiere, all’amore e all’idea di noi stessi che poteva suscitare invidia in chi non era capace di disciplinarsi alla stessa maniera.
Poi andavamo alle serate mondane e mentre tutti si rotolavano negli strascichi, io e Carlo restavamo sulla soglia a osservare la scena con uno sguardo che trasudava condiscendenza ma invece era attraversato dal rimpianto, e ci accorgevamo che l’invidia poteva trasformarsi facilmente in pena.
Non frequentavo molti ragazzi: i miei primi baci risalivano alle scuole medie e a quelli non ne erano seguiti molti altri.
Una certa esuberanza che mi era appartenuta negli anni dell’adolescenza si era gradualmente stemperata nella solitudine e nei bei voti a scuola; ne avevo sofferto meno di quello che le mie amiche avevano pensato.
A volte pensavo di essere infatuata di Carlo. Le ragazze con cui ero stata in classe non ci avrebbero mai creduto; lo avevo sempre preso in giro per la montatura degli occhiali e le giacche informi.
Non era brutto ma non aveva stile: i suoi capelli erano troppo corti, sfoltiti da una rasatura quasi militare che lo rendeva provocatorio e aggressivo, e la cintura stretta vicino all’ombelico creava dei buffi rigonfiamenti nelle camicie.
Ma era la sua acidità nei confronti delle ideologie altrui a darmi davvero fastidio. Mi spiegava tutto ciò che non dovevo essere: più che una redattrice, sembrava volesse formare un soldato.
In realtà, a differenza dei tempi della scuola dove nonostante la differenza di ruolo eravamo complici, facevo sempre più fatica a capirlo: aveva preso a leggere libri di allievi junghiani che si occupavano di manifestazioni sciamaniche e crisi della presenza.
Spesso, quando passavo nel suo studio per controllare una revisione di bozze o compilare una scheda promozionale, mi chiedeva di fargli compagnia mentre ascoltava qualche registrazione sperimentale proveniente dagli Stati Uniti o dalla Germania.
Ero cresciuta in una casa devota alla musica classica e sapevo chi erano quei nuovi compositori pur non avendoli sentito nominare prima: dei barbari.
Carlo mi spiegò che alcuni brani erano stati composti in base all’oroscopo per rivelare l’incidenza del caso nell’attività artistica, ma io detestai subito quel suono che generava straniamento e alienazione.
Allo stesso tempo, ebbi la sensazione che a differenza di tanta musica amabile che mi divertivo ad ascoltare, quelle registrazioni avessero il potere di cambiarmi, di trasformarmi in una creatura più seducente e complessa.
Qualcosa dentro di me stava per franare.
«Cosa ne pensi?» mi domandò Carlo una volta con la testa posata sulle braccia, gli occhi chiusi per la concentrazione.
«Che da adesso in poi sarà sempre peggio».
«Quanto mi piaci Emma» aveva detto tirandosi su e riprendendo le carte in mano.
La sorella di Carlo si era sposata con un fisico devoto allo studio dei raggi cosmici. Era una donna che non parlava molto, ma la sua competenza scientifica mi metteva in imbarazzo; per me i pianeti erano sfere perfette di colori tristi, cerchi lilla e grigi incastonati in uno spazio che non mutava mai.
Era venuta a trovarlo per Natale insieme al marito e ad alcuni amici musicisti che volevano fare dei field recording sulle colline; a quanto pare eravamo circondati da basse frequenze dotate di proprietà magiche.
Carlo mi aveva invitata alla scampagnata e io avevo indossato dei maglioni goffi e pesanti sotto il cappotto di lana; durante la salita si era offerto di rallentare per evitare di lasciarmi indietro.
Pur apprezzando la vita all’aperto, non ero allenata e quel tragitto mi stava spossando; mi fermavo ogni trecento metri. Carlo mi aspettava offrendomi il braccio, ma c’erano tratti in cui il passaggio era troppo ripido, così dovevo camminare con la testa quasi tra le ginocchia, traendo lunghi respiri con le mani appoggiate sui fianchi.
L’aria era così tersa da farmi male al naso; mi piaceva avere l’inverno attorno.
«Tieni, bevi un po’ di vino» disse porgendomi una fiaschetta.
«Non credo sia una buona idea… dell’acqua sarebbe meglio»
«Credi davvero qualcuno l’abbia portata?»
«Contavo su di te» risposi con il respiro mozzato.
«No, non su di me» aveva replicato prendendo una sorsata e appoggiandosi a un albero «stasera non sono in servizio».
«Notizie dal tuo cinematografaro?» domandò prima di accendere una sigaretta riferendosi a un ragazzo che avevo frequentato brevemente; lo sforzo fisico lo aveva lasciato del tutto indenne.
«Non è il mio cinematografaro. Siamo solo buoni amici.»
«Ho saputo che è a Roma, che ha dei progetti» aggiunse poi con una sfumatura di scherno.
«Quel ragazzo ha sempre dei progetti.»
«Ti hanno mai detto che per certi uomini il cinismo è poco erotico?».
La sua affermazione mi fece trasalire e mi appoggiai a un tronco che si stava sbriciolando.
Carlo non si ubriacava mai ma beveva più di chiunque conoscessi.
Non mischiava bianchi coi rossi, non combinava superalcolici, poteva andare avanti una serata senza mostrare il minimo accenno di ebbrezza. Mentre gli altri facevano schiamazzi, lui restava con aria assorta, concentrata, da complottista.
Senza quelle buffe camicie e con i capelli un po’ più lunghi sulle orecchie, in quel momento somigliava a un uomo che avrei potuto baciare.
Presi la borraccia e bevetti per evitare gesti impulsivi, ma prima di raggiungere gli altri che erano ormai arrivati in cima e stavano sistemando le attrezzature, inspirai l’odore dei ginepri pulendomi le mani coperte di terriccio sui pantaloni, e con le spalle così vicine a quelle di Carlo capii quanto l’intimità fisica con un uomo che non ero sicura mi piacesse poi molto fosse distante dalla degradazione.
Una cugina sventurata di mia madre – «una poveretta che non si era mai adattata al Nord» – faceva la prostituta, e noi dedicavamo pomeriggi interi al mistero di questa parente con cui una volta mia madre era stata tanto in confidenza, scuotendo la testa all’idea che potesse fare certe cose con uomini vecchi, bolsi, dalle canotte poco lavate. Io non mi chiedevo mai come la cugina potesse essere arrivata a certi estremi, perché volevo immaginarla abbastanza libera da avere una forma di passione verso il suo mestiere.
Come potesse essere volubile e contraddittorio il desiderio, capace di farti provare un’antipatica felicità anche all’interno di un matrimonio forzato: quello era per me il vero mistero.
Carlo si riscosse prima di me e ricominciammo a salire.
Suo cognato e due persone che non conoscevo stavano arrotolando dei fili di alluminio attorno a un crocicchio di antenne sospeso in aria. Visti in controluce, quei catalizzatori dai bagliori metallici sembravano destinati a creature aliene.
«Metodo Marconi» disse qualcuno per aiutarci, e noi estranei facemmo finta di capire scambiandoci occhiate preoccupate.
«È in questo modo che facciamo saltare dei paesi a distanza?» scherzai, ma la battuta procurò un paio di sorrisi imbarazzati negli uomini con le apparecchiature.
Osservai Carlo a lungo, seduta a gambe incrociate su una coperta di lana che mi aveva prestato sua sorella. Non avevo mai incontrato qualcuno capace di emettere meno suoni al minuto, persino il suo respiro sembrava afono: forse suo marito la trattava alla stregua di un esperimento scientifico.
Dopo un po’ mi avvicinai per chiedergli di fare spazio sul telo su cui era sdraiato.
«Sai riconoscere le costellazioni?» domandò appoggiandosi sui gomiti.
«Prima ho chiesto se queste prove hanno a che fare con la bomba H» risposi accasciandomi.
«Quanta fantasia. Vedi lì, sotto l’Orsa Maggiore, quelle stelle che somigliano a un uomo in procinto di cadere? Quella è la costellazione del Cane».
«Fatico persino a distinguere l’Orsa Maggiore» dissi, ma tentai lo stesso di riconoscerne qualcuna per fargli compagnia.
A volte, quando mi stendevo sulla schiena per fissare quello che mi sovrastava dall’alto, il senso di smarrimento era tale che dovevo vomitare.
Restammo a contemplare il cielo grumoso di stelle, finché commentai: «Detesto l’idea che qualcosa sia bello quando ti fa stare male» stringendomi nel cappotto di mio padre. Sentivo il suo odore di resina e di vecchiaia.
«E fai bene» commentò Carlo tirandomi dei sassolini sullo stomaco.
Giocherellai con qualche pietra senza tirargliela indietro.
«Le bombe non mi spaventavano da piccola» gli confessai. «Più che altro non mi rendevo conto delle conseguenze. Durante la guerra mio padre ci spedì in campagna, e me la sono cavata con qualche notte di sonno interrotto e un’estate noiosa. Però l’atomica mi terrorizza. Ho paura di svegliarmi una mattina senza essermi resa conto che ci hanno attaccati e vedere la pelle del viso che si scioglie».
In quel momento la sorella di Carlo e il marito si abbracciarono sotto una coperta mentre venivano abbagliati dal flash di una macchina fotografica; si misero a ridere e a cantare qualche carola natalizia.
Carlo mi diede una mano ad alzarmi e ci avviammo piano verso gli altri.
Io ripresi il discorso: «Non mi sento a mio agio con le radiazioni. Manipolare gli elementi per scoprire una particella, mi sembra una violazione…»
«Di quale ordine?» domandò lui prendendomi in giro e stringendomi più forte alla mano.
«Non lo so, non ci penso troppo altrimenti perdo il sonno. Forse ho solo paura di morire senza sapere che lo sto facendo» risposi allontanandomi per farmi scattare una fotografia, con la bocca già spalancata in un sorriso luminoso e falso.
Appena potevo, cercavo di fare qualcosa di utile per i miei amici.
Frequentavo molto la casa di Anna, una mia vecchia compagna di classe.
Anche se facevamo vite diverse, i racconti sulla mia quotidianità la divertivano. Lei e suo marito vivevano in un bilocale nel quartiere operaio; un appartamento dalle mattonelle turchesi che Anna aveva reso più misterioso riempiendolo di piante sospese. Quando invece non riuscivo più ad attirare la sua attenzione mi preoccupavo, mi veniva il sospetto che tra una stiratura e l’altra – Anna era diventata modista – nulla di quanto le dicessi le sembrasse essenziale, mentre per me l’indifferenza di un capo o la rivalità di una collega aprivano crepacci che impiegavo giorni ad attraversare.
Suo marito Andrea faceva il falegname e con il tempo si era guadagnato la fama di artista, etichetta che trovava abbastanza ridicola.
Le sue dichiarazioni perentorie mi facevano sorridere, e mi riportavano ai tempi del suo corteggiamento goffo e coraggioso nei confronti di Anna, il cui picco era stato scalare un albero sul finire del terzo anno.
Eravamo sedute su un lenzuolo a guardare gli amici che stavano remando in mezzo ai canneti, quando Andrea si era arrampicato a dei rami per lanciarsi in una dichiarazione appassionata. Anna non si era neanche voltata, limitandosi a riconoscerlo dalla voce, e aveva continuato a mangiare una pesca spiando la sagoma del ragazzo proiettata sul lenzuolo. Sulla via del ritorno mi disse che il gesto l’aveva emozionata. Lo aveva trovato elegante – «Sembrava un’ombra cinese gigante» – ma l’unico segnale che diede fu quello di girarsi all’improvviso per tirargli un nocciolo di pesca sul petto.
Fu a causa di un temporaneo momento di inoccupazione che pensai di coinvolgere Andrea in un progetto di cui ero venuta a conoscenza tramite uno dei miei datori di lavoro.
La nuova fidanzata di Renato aveva frequentato brevemente un artista milanese che stava iniziando a riscuotere successo nelle gallerie straniere; i due erano rimasti amici nonostante un rapporto tempestato da incidenti stradali e divergenze di reddito che alla fine si erano rivelate più importanti del previsto.
Stando alla ragazza, una bionda esangue ed esanime con il dono eccentrico della gentilezza, l’artista milanese stava cercando una squadra di operai che potessero lavorare alla sua nuova installazione: gli servivano persone precise, capaci di creare un prodotto esteticamente pregiato anche senza capirlo.
Le feci subito il nome di Andrea e le cose fecero il loro corso senza che io ne sapessi più nulla. Anna mi aveva detto che suo marito era partito alla volta di uno stabilimento industriale dove lui e gli altri operai erano stati messi a lavorare in uno stanzone alto e luminoso; tutti i muri erano rivestiti di appunti.
L’oggetto in costruzione non era ben chiaro. A volte per telefono Andrea le parlava di un cubo, e Anna sperava solo che non si facesse venire idee strane e tornasse a costruire tavoli come sapeva fare.
Grazie alla partecipazione di Andrea alla creazione dell’oggetto ignoto che sarebbe stato esposto alla Biennale, ero riuscita a trascinare lui e Anna a una cena elegante per festeggiare l’anno nuovo.
A organizzare il veglione era stata una coppia composta da una professoressa di liceo e un dirigente industriale con aspirazioni da sindaco; ci accolsero con sorrisi affabili e una libreria di bambù che rivestiva quasi tutto il soggiorno, lamentandosi per il freddo patito nel fine settimana.
Durante il pasto, Andrea fu costretto a parlare dell’installazione a cui aveva preso parte. «No signora, non sono capace di spiegarglielo meglio» disse alla padrona di casa. «Studiare Belle Arti serve a poco se non si capisce il colore. Avevamo un imbianchino siciliano che gli ha dovuto insegnare tutto. L’artista ci ha dato delle istruzioni e qualche volta abbiamo fatto di testa nostra; soprattutto quando non capiva che un bullone non si poteva avvitare in questo o quel modo».
«Sì, ha fatto tanti disegni preparatori, ma non sa niente di meccanica ed è un problema.. Io quando devo scolpire un pezzo di legno ci parlo col legno» esclamò più tardi facendo ridere qualche commensale.
«Invece di convergere, arte e tecnica son capaci solo di litigare» fu la replica del proprietario di casa e io rabbrividii per quel luogo comune. Sarebbe stato un buon sindaco.
«E com’erano gli altri operai?» chiese una signora.
«In che senso?» rispose Andrea.
«Da dove venivano, come si sono trovati…»
«Un po’ da qui, un po’ da lì. Ci siamo divertiti. Non dovrei dirlo – rivolse uno sguardo di scuse alla ragazza di Renato – ma un artista così buffo e antipatico riesce a mettere d’accordo tutti».
Nel dopocena arrivò Carlo, anche se nessuno lo stava aspettando; Renato mi sussurrò che non ce la faceva più a trovarselo attorno, nonostante la sua ragazza e le sue amiche lo trovassero simpatico.
Dopo quella gita notturna in montagna ci eravamo visti solo in redazione, e i nostri scambi da armonici e strani erano diventati quasi scortesi.
Ero pronta a tornare a casa con Anna che aveva mal di testa, ma l’arrivo del mio capo mi spinse a temporeggiare, nonostante fossi già andata nella stanza dei cappotti per recuperare il mio.
«Te ne stai andando? Non hanno ancora finito lo spumante» domandò indicando il soprabito che avevo tra le braccia quando gli passai accanto per salutare.
«No, sto accompagnando i miei amici di sotto, poi ritorno» risposi in fretta lasciando perplessa la mia amica.
«È alto» fu l’unica cosa che disse lei in ascensore.
Io feci un cenno di assenso con il capo, osservando il mio riflesso nello specchio.
«Non ti preoccupare, la via del ritorno la troviamo da soli» dissero lei e Andrea pronunciando auguri di buona fortuna.
Rientrai nell’appartamento con una leggera vergogna e mi sbarazzai subito del cappotto.
Quando mi affacciai in salotto, Carlo stava leggendo una poesia; la ragazza di Renato fece segno che c’era posto sul divano e io sprofondai in un baratro di velluto.
Erano dei versi sulla sua infanzia, trascorsa tra lotti abbandonati e slitte che lasciavano striature di ruggine nella neve. Carlo non parlava molto dal posto da cui proveniva; immaginavo che fosse cresciuto in una casa dalle pietre ammuffite e irregolari.
«Hai l’abitudine di fantasticare molto sulla vita della gente che incontri?» mi chiedeva quando insistevo per avere dei dettagli sul suo passato.
«Anche se fingo il contrario, le persone mi incuriosiscono».
Che amavo osservarle era vero, ma non lo facevo con tutti, doveva importarmene qualcosa. Carlo per esempio, sapevo sempre dire dove si trovava: appoggiato al muro che rideva, con la schiena aderente a qualche porta di legno massiccio; potevo descrivere ogni suo passaggio in una stanza senza neanche doverne incrociare lo sguardo.
Però mi aveva raccontato che vicino alla sua vecchia abitazione c’era una rimessa di legno in cui lui e i suoi fratelli avevano rubato uno slittino con la base di ferro rovinata e che si erano scaraventati dalla cima di una collina per lasciare tracce nettarine nel bianco.
«Mi mancano i pranzi di Natale; quando i miei fratelli tornavano a casa con fidanzate querule come la stagione aviaria. Ma non potevo vivere da quelle parti, neanche per far compagnia a mia madre: mi ossidava».
Poi suo padre si era ammalato, e lui era tornato per un funerale primaverile di cui ricordava solo l’odore di zolfo emanato dal braciere con cui il prete aveva asperso la bara e i convenuti. Non era il figlio più amato– «Mio padre mi tollerava, e questo mi ha garantito una certa immunità; tra noi non c’erano aspettative represse che potevano rendere più drammatico il suo funerale. Conservo un coltello intagliato che gli aveva regalato un suo collega del militare, me lo porto dietro ovunque. Quando dico che è un ricordo di mio padre, le persone annuiscono senza parlare, ma una morte non deve generare per forza dei silenzi. La sera del suo funerale io e i miei fratelli siamo andati a bere facendo dei conti su dei pezzi di carta che dovevano indicare cosa spettava a chi e poi li abbiamo strappati ridendo. Era un contadino che non ha mai imparato bene l’italiano, doveva solo recapitare lettere. La realtà è che non aveva alcuna speranza – povero, docile – eppure è riuscito a comprare casa e ad andare a dormire nello stesso letto tutte le sere, e questo gli bastava».
Dopo l’applauso degli ospiti, Carlo rimise il foglietto con la poesia nella tasca interiore della giacca. Mi avvicinai in fretta, cercando di partecipare alla conversazione in cui era rimasto coinvolto.
«Vedremo come andrà a finire a Cuba, ma non sono sorpreso. L’America Latina è il supermercato della rivolta» disse qualcuno.
«America Centrale» rispose Carlo.
«Fa lo stesso» intervenne un altro.
«Vuoi qualcosa da bere?» chiesi a una ragazza vicino a me tanto per fare qualcosa.
«Non ho alcuna intenzione di tesserarmi» feci notare più tardi a un esponente del PC che mi corteggiava da tempo.
«Non sottovalutare quello che puoi imparare in sezione.»
«Sono laica fino al midollo.»
«Quale midollo?» domandò Carlo mettendomi una mano sulla schiena. Mi scostai con imbarazzo, malferma sulle gambe.
«Dio quanto mi irriti» fu l’unica reazione che riuscii a formulare mentre mi tirava verso il davanzale; non avevo paura della mia impertinenza.
Carlo aprì la finestra senza chiedere il permesso e fummo investiti dall’aria fredda e cinerea dell’ultima notte di dicembre.
«Per essere un’atea parli molto di Dio Emma.»
«I miei genitori mi hanno insegnato a non avere paura di chiamare le cose per nome.»
«E nomini anche me?»
«Qualche volta», risposi guardandolo.
«Fallo» disse sorridendo.
«Carlo Rivella» scandii a bassa voce.
Accese una sigaretta e scrollò la cenere di sotto.
«Mi fai venire le contrazioni.»
«E tu le convulsioni» risposi.
Quella risposta lo fece ridere di nuovo, e mi rilassai.
«Parlami di quando eri piccola» disse mentre prendevo una sigaretta dal pacchetto che aveva appoggiato sul davanzale e mi sporgevo dalla piccola balaustra alla sua maniera.
«Eri tutta gambe?»
«Carlo, sono alta un metro e sessantadue.»
«Non conta la lunghezza. Conta la fibra, il muscolo. Fammele vedere.»
Mi voltai per controllare che non ci guardasse nessuno e sollevai un po’ la gonna. Staccai una gamba dal pavimento e feci roteare leggermente la caviglia.
Lui si chinò senza smettere di fumare e si mise a tastare.
«Polpacci solidi, cammini molto.» Fece scivolare una mano più in alto, ma io richiusi le gambe di scatto e lui riassunse la sua posizione composta.
«Non sei molle tra le cosce, un buon segno. Vuol dire che hai una buona presa.»
«Per cosa?»
«Emma, Emma».
Qualcuno venne a posargli una mano sulla spalla e io non mi voltai neanche per controllare chi fosse. «Ci vediamo in ufficio» disse gettando il mozzicone di sotto e io risposi che era inevitabile.
Ritornai da Renato e dalla sua ragazza che non avevano intenzione di accompagnarmi a casa prima che fosse mattino.
Quando telefonai a mia madre per dirle che mi sarei fermata a dormire fuori, dovetti subire la sua prevedibile riprovazione.
«La prossima volta evita di chiamare a quest’ora se non sei morta» sbottò e io mi misi a ridacchiare riagganciando la cornetta.
Resi gli altri partecipi del suo senso dell’umorismo e raccontai del mio proposito di trovare un barista abbastanza spavaldo da inventare un cocktail dedicato al mio nome. Poi la padrona di casa mi spinse lungo un corridoio e mi fece accomodare in una stanza con un letto a due piazze che avrei dovuto dividere con un altro ospite perché non c’era abbastanza posto per tutti.
Quella sera persi la verginità con un poeta metà polacco e metà italiano probabilmente omosessuale che continuò ad accarezzarmi i capelli fino al mattino, mentre io nel dormiveglia continuavo a prendere in giro quella coppia che durante il veglione aveva manifestato l’intenzione di intestare la propria barca a un rivoluzionario o a un dittatore. Era appena iniziato l’anno nuovo, e io stavo per compiere vent’anni.