Erano i cornicioni alti fino al terzo o persino al quarto piano dei tetri caseggiati umbertini con cui gli speculatori hanno ricoperto pascoli e edificato parchi di ville patrizie romane all’indomani della breccia di Porta Pia, che Jon era particolarmente abile a raggiungere, in qualche decina di secondi, arrampicandosi con la scioltezza del famoso ragazzo mutante perché morso da un ragno radioattivo. Anni di pratica come acrobata al seguito del Timisoara Wandering Cirkus, le traballanti piramidi umane, il trapezio che deve essere afferrato in un punto e in una frazione di secondo irripetibili, la corda da attraversare con o senza bilanciere, lo avevano reso flessibile e ardito e sprezzante. A qualsiasi altezza di finestra riuscisse a portarsi, ne riscendeva carico di refurtiva con la medesima leggerezza, il sacco in spalla, Babbo Natale al contrario. E senza produrre il minimo rumore.
“Sei così… sei così… aggraziato,” gli aveva detto il domatore dei due poveri leoni rifiniti dalla fame ai quali lo stanco direttore del Timisoara Wandering Cirkus aveva ordinato, a un certo punto, di aprire la gabbia, lasciandoli fuggire nel buio pesto dei Carpazi affinché si trovassero il cibo da soli, cosa che non avevano fatto mai dal giorno della loro nascita allo zoo di Bucarest. Non avevano mai fatto nulla in vita loro, quelle due smagrite bestie malate di scabbia, eccetto posare quando erano ancora cuccioli sani tra le braccia dei figli di qualche dirigente del partito, per una foto da incorniciare in ufficio sotto quella ufficiale di Ceasescu. Lo stesso domatore, vedendoli tanto deboli, aveva rinunciato alla pretesa che saltassero da uno sgabello e l’altro scambiandosi di posto, perdendo nuvole di pelo a ogni balzo, “fallo tu, piuttosto…” aveva pregato Jon, il quale per gioco era diventato ancora più leggero e aveva spiccato un salto degno di Nadia Comaneci atterrando su un piede solo, anzi sulla punta di quel piede, in perfetto equilibrio. Il domatore aveva battuto le mani con un gridolino di entusiasmo che si sarebbe potuto credere affettato, ma Adrian era così, era fatto così, insomma, probabilmente l’unico domatore gay centroeuropeo o quantomeno l’unico a non nasconderlo anzi a esibire la sua natura persino durante gli spettacoli, dove i muscoli e i baffi e il torace irsuto e la mascolinità e gli schiocchi di frusta assumevano di colpo un significato diverso e facevano ridere il pubblico non meno dei ruzzoloni dei pagliacci. Ma non era stata certo questa singolarità a causare lo scioglimento del Timisoara Cirkus o per meglio dire il suo sfascio. Un leone era stato preso a fucilate da alcuni contadini mentre gli mancava solo l’ultima zampata per sfondare lo stabbio delle oche, ed era morto prima di poter addentare la prima vera e propria preda della sua vita. La due sorelle di Adrian, bellissime contorsioniste dagli occhi malinconici, erano finite a Monza a solleticare con le loro code di cavallo bionde l’inguine e il volto di agenti di borsa alla ricerca di diversivi, mentre Adrian a lungo aveva cercato di convincere Jon a fare coppia fissa, “insieme, noi due, sì… pensaci, Jon: io con la mia forza, tu con la tua agilità, potremmo…”, potremmo…, sì, va bene, potremmo cosa? Adrian non era mai stato capace di completare la frase. La sua voce nasale e sognante e il fisico statuario lo avevano aiutato a trovare posto come portiere gallonato, di quelli che con cilindro grigio e guanti bianchi stazionano fuori dagli alberghi di lusso o anche un po’ cafoni, ma che lasciano credere ai turisti che si tratti di vero prestigio, quei guanti, quel cilindro. Inutile precisare che Adrian arrotondava volentieri le sue entrate come portiere d’albergo vendendo i suoi favori a uomini d’affari sposati e prelati americani giovani ma già quasi calvi, e occasionalmente anche a delle signore incapricciate dei suoi mustacchi a manubrio, indicatori ingannevoli di virilità, senza che questo gli costasse alcun sacrificio o sforzo. Malgrado Adrian implorasse il giovane acrobata di fermarsi con lui a Firenze, in pianta stabile, Jon aveva proseguito il suo vagabondaggio senza abbassarsi a ricorrere ai ferri del mestiere, cioè, clave e torce infocate, come fanno i circensi che si esibiscono ai semafori nel breve volgere di un rosso. Ed era infine giunto a Roma dove, all’improvviso, i grevi palazzi squadrati del quartiere Prati e Flaminio con le loro innumerevoli sopraelevazioni speculative si erano come abbassati, rimpiccioliti, si erano, per così dire, sdraiati e spianati davanti al suo sguardo, le loro facciate severe sembravano fatte per camminarci tranquillamente sopra invece che per dovercisi arrampicare in verticale, come in quei film sulla realtà virtuale dove città intere si ripiegano su se stesse alla maniera di origami. Bastava una finestra lasciata socchiusa, una serranda mezzo abbassata per attirare l’attenzione di Jon e subito le sue gambe e le sue braccia formicolavano. Sì, proprio come accade all’eroe di fumetti e film, quel miserabile nerd: formicolavano. Più spesso durante le ore notturne dove persino Roma diventa davvero tetra e silenziosa, e il suo buio un pozzo senza fondo, le tre o le quattro, ma qualche volta anche di giorno, in piena luce, Jon era pronto a entrare in azione.
Perché Roma, all’esatto opposto di quello che si dice di New York, è la città che dorme sempre, che dorme anche quando è sveglia, dorme come un sasso anche nel caos, in mezzo allo stridulo concerto dei clacson, dormono i suoi abitanti mentre attraversano la strada a casaccio con gli occhi fissi sul cellulare, dormono i turisti incantati attorno alla guida che punta l’ombrellino al cielo e i guidatori di autobus e i motociclisti con la sciarpa sulla bocca ingarellati sul Muro Torto, tutti belli addormentati, punti dal fuso di chissà quale fata, immobili nelle loro pose o, come dicono i montatori nel gergo dell’audiovisivo, “frizzati”…
Di giorno c’è in circolo una persino minore consapevolezza e cautela che di notte. “Sonnambulismo” sarebbe la parola giusta da far cadere a questo punto, con un tonfo attutito. Era infatti un pomeriggio di fine estate quando l’imberbe equilibrista rumeno, dopo aver perlustrato il quadrangolo di strade diritte e deserte che portano nomi di illuministi italiani più o meno noti tra piazzale Flaminio e il Ministero della Marina, svoltando per via Francesco Carrara si accorse che al secondo piano, lungo una fila di finestre tutte chiuse, segnale di un appartamento i cui abitanti sono via, in vacanza, spiccava come unico aggetto un terrazzino bordato da un vezzoso parapetto in ferro, con qualche vaso da cui spuntavano gli stecchi di pianticelle lasciate morire per incuria chissà quanto tempo prima, e gli scorrevoli scrostati della porta finestra che insisteva su quel terrazzino erano sì accostati, ma non del tutto… c’era insomma in mezzo uno spiraglio, anzi qualcosa di più, come se l’imbarcatura del legno di cui erano fatti i vecchi infissi non permettesse più di allinearli e chiuderli come si deve.
Chiuso. Aperto. Chiuso. Semichiuso. Semiaperto. Per Jon fu poco più di un piacere infantile issarsi lungo la grondaia, scavalcare il cancelletto di un giardino pensile al primo piano e da lì, appigliandosi a non si sa cosa sulla parete che chiunque avrebbe detto liscia anche perché rintonacata di fresco coi fondi del Giubileo Millenario, arrampicarsi fino a quel terrazzino. Se qualcuno lo vide, e cioè il solito sonnambulo romano che o non reagisce, oppure lo fa anni luce dopo i fatti, non collegò comunque i fotogrammi della scalata l’uno appresso all’altro conferendo l’unico senso possibile alla scena, cioè quella di un ladro che si appresta a svaligiare un appartamento: se mai vide qualcosa, vide delle istantanee, non la sequenza, vide un esile ragazzo in maglietta con le spalle poggiate al muro, poi qualcuno sul giardino pensile che armeggiava con la pompa per dare acqua ai gerani, quindi un giovane manovale, straniero evidentemente, come qualsiasi manovale a Roma da decenni a questa parte, intento a lavorare sui vecchi infissi per riportarli a nuovo. Ma Jon non la stava restaurando, quella porta finestra. Gli bastò inserire uno spadino nell’interstizio tra gli scorrevoli per sollevare la serratura a gancio che li teneva precariamente insieme. Le ante della finestra erano spalancate, non vi fu bisogno di rompere nulla…
Nel mentre che si scappellava a destra e manca sul Lungarno, aprendo le porte dei taxi, Adrian si accorgeva di pensare molto più spesso e con maggior cuore all’acrobata col ciuffo, a che fine avesse fatto il pièleggero Jon, di quanto si preoccupasse del destino toccato alle sue due sorelle di sangue, Melina&Romina, le quali peraltro avevano trovato di meglio che volteggiare nude intorno a un palo: la prima incinta e appesantita di quindici chili stava per sposarsi con un ragioniere di Abbiategrasso, felicissimi e fiduciosi entrambi; la seconda continuava a prendersi cura del corpo degli uomini, nel dettaglio, ma stavolta in un modo considerato da tutti onesto. Non vi era bisogno di allacciarsi i piedi dietro la nuca per fare da badante a un vecchio, e lo si poteva fare restando tranquillamente vestite, col grembiule o una tuta paillettata. Probabilmente le silhouettes sia di Romina sia di Melina nel giro di un paio d’anni avrebbero perduto la snodabilità al limite del mostruoso che ne avevano fatto una delle principali attrazioni del Timisoara Wandering Cirkus al suo apice: e i loro corpi finalmente lasciati in pace sarebbero stati in grado di assumere solo le posture più banali. In piedi, seduta, sdraiata, inginocchiata. Ma più ancora che Adrian, sul destino di Jon si stavano interrogando i carabinieri del Comando Stazione Flaminia di Roma. L’attività del ladro equilibrista era diventata leggendaria per il numero di furti commessi, la selezione bizzarra della refurtiva sottratta ai legittimi proprietari, che infatti al momento della denuncia ne fornivano con un certo stupore la lista, e soprattutto l’insistenza su quel quartiere che in fondo è solo una angusta striscia incassata tra i rilievi di villa Borghese, villa Strohl-Fern, villa Balestra e il Tevere. Che fosse un unico attore a commettere tutti quei reati, così simili tra loro peraltro, era diventato chiaro il giorno in cui un’intera folla di testimoni si era raccolta sotto un palazzo di via Beccaria, gridando al ladro con la testa rivolta all’insù, e le braccia che tentavano di indicare il punto giusto, lì, era proprio lì, un momento fa! perché stavolta si erano risvegliati tutti insieme dall’incantesimo, stavolta l’avevano visto tutti Jon, diafano, esile, biondiccio, maglietta bianca e calzoni bucherellati bianchi, l’avevano visto saltare come uno scoiattolo da un balconcino all’altro del quarto piano. La confortante e sconfortata sirena bitonale delle forze dell’ordine aveva riempito per almeno mezzora il canyon di via Beccaria. Eppure nemmeno quella volta erano riusciti a prenderlo: violando l’assedio, o evaporando da qualche lavatoio condominiale sopravvissuto agli abusi edilizi, Jon era riuscito a sottrarsi alla cattura. Forse era asceso al cielo. Fu solo grazie a una soffiata che gli inquirenti vennero a sapere dove Jon faceva base, dove portava gli oggetti rubati o almeno quelli che non venivano immediatamente ricettati. Il mondo della piccola malavita è mille volte più pettegolo di quello della tv o della musica leggera; e se, come nel gossip professionale, nove indiscrezioni sono dicerie prive di fondamento, inventate per il puro gusto di calunniare o depistare, la decima basta e avanza per portare a segno qualche arresto mirato. I Carabinieri vennero dunque a sapere dove si trovava il campo base di Jon l’equilibrista: non lontano da Roma, o forse oramai all’interno dei suoi sfrangiati confini, cioè a Corcolle.
Corcolle. Il nome di questo sito era pressoché, e giustamente, ignoto ai più, fino a che una delle ultime amministrazioni politiche, sorta sulle macerie degli scandali che avevano travolto quella immediatamente prima e quasi subito inabissatasi sotto l’onda di nuovi scandali, aveva deciso di costruirvi la nuova grande discarica di rifiuti della Capitale. Ma all’epoca in cui dicono che Jon vi abitasse e che da lì partisse per le sue spedizioni, era ancora una modesta borgata tutta abusiva, estrema propaggine orientale del ben più ampio e diramato insediamento di Lunghezza, vale a dire la prima uscita dell’autostrada che da Roma porta all’Adriatico, trapassando gli Appennini. Zona di pastori, formaggiari, coltivatori di carciofi e zucche, depositi di legna e pietre, fabbrichette di tende e parasole, pendolari, disoccupati, fabbri, carrozzieri, donne che prestano servizio in città, più tutti quei neri altissimi e dinoccolati che, proprio come in Africa, camminano lungo le strade di campagna notte e giorno e non si capisce dove stiano andando.
I carabinieri, in quattro, due venuti da Roma Flaminio e due dal Comando di Lunghezza, tutti abbastanza scocciati per il fatto di dover eseguire un arresto durante quei giorni di festa, e di gentilezza reciproca, e di buoni sentimenti, si appostarono circondando un hangar di lamiera che doveva essere servito, un tempo, come deposito per il fieno. Quel genere di costruzione gelido d’inverno e rovente il resto dell’anno torna buono per tutti gli usi: come magazzino per ricettatori, stalla, ricovero di attrezzi o di immigrati, arsenale o officina. Ci si può persino abitare al rischio di asfissiarsi con il gas della stufa o dei falò improvvisati. Faceva un bel freddo quel giorno, i militi indossavano i guanti anche se questo avrebbe potuto costituire un impaccio nell’impugnare la pistola, e infilare l’indice nel ponticello del grilletto, ma non era sinceramente previsto da nessuno l’impiego di armi per un affare di quella portata. La cattura di un artista di circo non è faccenda che risolva col sangue, o almeno… Col fiato rappreso in nuvolette davanti al viso, i carabinieri chiamarono più volte, ad alta voce, Jon, Jon Barbu, perché questo risultava loro essere il nome del ladro, in seguito alle soffiate e ai riscontri anagrafici, e siccome non rispondeva nessuno, con molta cautela procedettero con le tronchesi a spezzare la catena tesa tra i maniglioni dell’ingresso. Beh, se quello era il nascondiglio di Jon, l’uccello doveva essere volato via. Chissà che la soffiata non fosse arrivata anche a lui. Forse Jon si era deciso a raccogliere il lamentoso appello di Adrian, forse domatore di leoni e giocoliere-acrobata si erano finalmente ricongiunti dopo la diaspora del Timisoara Wandering Cirkus. E magari, con loro, il leone superstite… L’hangar sembrava completamente sgombro, vuoto, ma, a guardar meglio, in un angolo in fondo, uno dei militi si accorse che qualcosa c’era. Nella penombra scintillava. “Venite un po’ a vedere…” disse ai colleghi. E si avvicinarono.
Sul cemento striato da tracce di vernice e sterco, erano posate, in semicerchio, le figure note del Natale. Statuine mirabili alte ciascuna una trentina di centimetri, quindi grandissime per essere così piccole, tanto grandi da parere persone vere. La Vergine dal volto malinconico soffuso di rosa. Il vecchio padre putativo, vecchio sì, ma bello e schietto e nobile. Quindi i pastori, l’acquaiolo coi secchi in equilibrio sulla schiena. Gli agnelli e le pecore, e un agnellino intorno al collo del più giovane tra i pastori, come in quadro del Seicento. “Questa è roba autentica e di un certo valore” disse il maresciallo. “Roba antica, eh, marescia’?” disse il sottoposto, che vuole mostrarsi al tempo stesso esperto eppure sorpreso dalla perspicacia del suo capo, affrettandosi a confermarne le ipotesi. “Antica forse no, ma fatta a regola d’arte”, e prese in mano il bue e l’asinello. Animali perfetti. Pesanti, e quasi caldi, al tatto.
“E questi qui?”. L’appuntato di Lunghezza aveva aperto una delle tre scatole per lo champagne che avevano custodito chissà quanti anni le figure sacre. Era, come gli altri, pieno di paglia secca, gialla, di quella che serve a proteggere gli oggetti fragili, e in quel fioco splendore frusciante Jon qualche mese prima aveva ficcato le dita nell’appartamento di via Carrara.
“Non toccare,” mormorò il maresciallo. “I magi…” fece eco il sottoposto. Dalla sepoltura nella paglia emersero i volti dei tre re. Uno nero, luccicante, bellissimo, un altro dagli occhi stretti, asiatici, occhi veggenti, l’ultimo un nobile saggio d’Europa. Ma per aggiungere anche loro alla scena di giubilo, occorreva aspettare l’Epifania.