S ono grigi, sono simili tra loro e sono lenti nel camminare. Il 6 luglio, un giorno prima dell’avvio del G20, Amburgo è stata invasa da un esercito di zombi, che ha assediato i potenti della terra riuniti nella città-stato tedesca. O forse dovremmo dire una “mandria”, mutuando il termine dalla più popolare serie tv sul tema non morti, The walking dead. Non c’è voluto molto per decifrare il flash mob di protesta: la massa degli esclusi, poveri e indistinti al pari degli zombi, sono fuori da ogni decisione politica; ma, d’altro canto, i potenti sono sempre più isolati e asserragliati nel loro potere. Una metafora in puro stile survival horror, insomma. In realtà l’iniziativa – che era stata battezzata “1000 gestalten” – non faceva esplicito riferimento agli zombi, ma l’associazione di idee è stata immediata. L’hanno fatta i giornalisti, l’hanno fatta i manifestanti. E se ciò è potuto accadere non è solo perché i morti viventi sono ormai parte dell’immaginario pop, ma anche e soprattutto grazie all’immaginazione di un signore scomparso dieci giorni dopo, il 16 luglio 2017: George Andrew Romero. È stato proprio il regista nato a New York e cresciuto a Pittsburgh, l’indiscusso padre dello zombi moderno, a caratterizzare questa creatura dell’immaginario horror in chiave sociale, rendendolo in modo più o meno consapevole una delle più riuscite metafore delle sfide e delle paure che agitano le acque delle società di massa.
Pur essendo entrato a pieno diritto nel pantheon dei mostri classici, lo zombi è assai diverso dalle altre figure che animano stabilmente l’immaginario horror. Agli antipodi del vampiro, mostro sensuale e aristocratico per definizione; lontano dalle superstizioni che scatenano la furia del licantropo, che appartiene a un mondo rurale che deve fare i conti con la ferinità umana; diverso anche dal suo più diretto parente, il Mostro di Frankestein, che invece incarna i sortilegi di un altro tipo di magia in ascesa, quella rappresentata dalla scienza. Dal positivismo scientista al feudalesimo, tutte queste figure fanno riferimento a mondi retti da logiche distanti dal presente. Lo zombi, invece, è a pieno titolo un prodotto della società di massa. A partire dal fatto, piuttosto rilevante, che non si tratta di un singolo individuo – come il Conte Dracula o Ardath Bey (la mummia) – ma di una moltitudine. L’aspetto più inquietante dello zombi non è la sua totale alterità soprannaturale, quanto piuttosto il fatto che la sua condizione è quella di una degradazione senza appello, l’ultimo gradino dell’esistenza (anzi della non esistenza), perché lo zombi non è altro che un cadavere che cammina, spinto da una fame cieca che lo corrode e lo comanda. In altre parole, zombi potremmo diventarci anche noi.
Il mito dello zombi è un mito popolare che nasce praticamente insieme al cinema sonoro. Il primo film che lo rappresenta è White Zombie del 1932, dove un Bela Lugosi piuttosto inquietante governa una massa di zombi ancora debitori delle leggende del folklore haitiano da cui il mito proviene: sguardo fisso, incedere lento, non sono formalmente morti ma è come se lo fossero. Solo nel 1968 gli zombi diventano cadaveri ambulanti affamati di carne umana, e ciò avviene grazie alla fantasia di un regista ventottenne al suo primo film. Con La notte dei morti viventi Romero sforna un cult cinematografico realizzato con un budget ridottissimo e girato con un gruppo di amici. Tra questi c’è Duane Jones, che presta il suo volto al protagonista Ben. Romero dichiarerà in seguito che la scelta ricadde su di lui perché era “il miglior amico attore disponibile per quella parte”, ma il fatto che un film avesse un protagonista di colore senza che questo aspetto venisse sottolineato nel film o avesse un motivo preciso nella sceneggiatura era un fatto piuttosto insolito per l’epoca. Ci pensò però la storia stessa a rendere questo particolare ancora più marcato. “Stavo portando la prima copia stampata de La notte dei morti viventi a New York – ha raccontato Romero l’anno scorso al Lucca Film Festival – Ero in macchina e alla radio annunciarono l’omicidio di Martin Luther King. Immediatamente pensai che il mio primo film sarebbe diventato un film totalmente politico”.
Con il secondo film, The dawn of the dead, in Italia conosciuto semplicemente come Zombi, l’accento politico è ancora più marcato. Siamo nel 1978, il film è girato a colori ed è una critica evidentissima alla società, dalla passione smodata per le armi al consumo compulsivo. La scena dei cadaveri ambulanti che grattano con bramosia le porte di vetro di un grande centro commerciale entrerà a pieno diritto nella storia del cinema (e se consideriamo quando è stata girata possiamo a buon diritto definirla profetica). In una società dove la partecipazione è sempre più un ricordo e l’unica passione che anima l’uomo è il consumo di merci, siamo tutti quanti un po’ zombi. Ma Romero non si ferma qui e nel quarto capitolo della saga, The land of the dead del 2005 (La terra dei morti viventi), tratteggia un’umanità sopravvissuta che, una volta trovato rifugio in una città fortificata, si riorganizza rigidamente in classi: il capitalismo sfrenato, l’amore per il lusso, il lavoro sporco affidato agli ultimi di una società radicalmente diseguale, dove pochi governano e godono mentre molti lavorano e patiscono.
Insomma, una replica esatta del mondo pre-zombie apocalypse, giusto un pelo più esplicita nei rapporti di forza perché in fondo siamo in guerra. In questo film low budget il regista arriva a far intravedere una sorta di pietà possibile per quelle creature fameliche e orribili che sono i morti viventi. Parliamoci chiaro: lo zombi puzza, è in via di decomposizione e non è assolutamente ragionevole né rieducabile (eccetto che nei film parodici come Fido di Andrew Currie, del 2006). È il male assoluto perché non può essere ricondotto a nessun ordine e quindi l’unico modo di gestirlo è annientarlo. Eppure sul finale di The land of the dead, quando la città fortificata è stata distrutta prima ancora dalla bramosia umana che dalla devastazione zombi, un soldato esita a premere il grilletto del cannone per spazzare un gruppo di morti viventi perché “anche loro stanno solo cercando un posto dove andare”.
Il mito dello zombi è un mito popolare che nasce praticamente insieme al cinema sonoro: il primo film a rappresentarlo è White Zombie del 1932, con Bela Lugosi.
I flesh eaters del primo film di Romero – questo originariamente doveva essere il titolo di The night of the Living Dead – dovevano sottolineare una precisa caratteristica dell’umanità: mentre il mondo collassa, invece di cooperare, gli uomini continuano a perseverare nelle loro piccole meschinità, cercando di sopraffarsi l’un l’altro e contribuendo ad accelerare lo sfacelo. Questo aspetto diventerà una costante decisiva dell’universo zombi, che contribuisce a legare l’idea del decadimento di ogni ordine sociale all’immagine allucinata ma perfettamente coerente dell’apocalisse – o, almeno, di una possibile apocalisse. Una costante che ritroviamo tanto nelle decine e decine di pellicole epigonali quanto nelle variazioni sul tema del genere zombi, e persino nella sua più grande nobilitazione letteraria, il romanzo La strada di Cormac McCarthy, dove non c’è traccia di morti viventi ma le dinamiche tra i sopravvissuti – cannibalismo incluso – sono in sostanza le stesse.
Con la serie tv The Walking dead, basata sull’omonimo fumetto di Robert Kirkman, gli zombi sono definitivamente sdoganati per il grande pubblico. Oggi la serie, una delle più viste della storia, si appresta a cominciare la sua ottava stagione. Al suo esordio, tuttavia, la serie della Fox innescò un dibattito online tra gli appassionati del genere. Ci fu chi l’accolse con entusiasmo, essendo un prodotto di caratura cinematografica e di resa visiva indubbiamente ottima; e chi invece ne criticava il taglio “buonista”, facendo il paragone con la serie tv inglese Dead set, dove gli unici sopravvissuti sono barricati nella casa del Grande Fratello britannico, un prodotto assai più povero ma molto più cattivo e senza speranza. A livello di sceneggiatura il discorso aveva senso: la serie inglese non fa sconti a nessuno e non patisce i continui richiami all’eroismo del prodotto prime time americano. Dead set assomiglia molto di più a un altro horror di stampo zombi, 28 giorni dopo di Danny Boyle, anche se lì le orde sono in realtà composte da “infetti”. Nel film come nella serie gli zombi sono velocissimi e fortissimi, col vantaggio non da poco di non avere alcuna coscienza e di non provare dolore. Insomma, un mostro quasi imbattibile, che si moltiplica a dismisura, praticamente impossibile da sconfiggere.
La progressiva trasformazione degli zombi lenti in zombi veloci apriva una questione “politica”. Il cadavere ambulante lento e disarticolato, spesso con problemi di equilibrio dei film di Romero si era andato trasformando in un super mostro rabbioso e immortale, sostanzialmente per esigente di mercato. Spostando pian piano le pellicole horror verso l’action movie, caratterizzati da montaggi velocissimi e cambi di prospettiva repentini al pari di una clip musicale, o di un videogioco, l’universo zombi veniva progressivamente assimilato dal mondo dell’entertainment, dove tutto si gioca sullo shock visivo (Resident Evil, ad esempio, nasce prima come videogioco e solo successivamente si trasforma in una saga cinematografica). L’apice di questa metamorfosi è World War Z, una – pessima, secondo chi scrive – pellicola del 2013 con protagonista Brad Pitt, dove non c’è traccia di sangue, budella e ogni altro aspetto che possa inquietare un pubblico generalista ma si assiste a incredibili piramidi “umane” (si fa per dire) di zombi che si affastellano l’uno sull’altro come insetti. The walkind dead, perlomeno ai suoi esordi, aveva avuto il merito di riportare l’universo zombi a un piano dove il vero mostro, il più delle volte, è proprio l’uomo. Anche se, secondo lo stesso Romero, la serie della Fox è finita per degenerare in un polpettone sentimentale, quasi una telenovela, tanto che il regista di Pittsburgh l’ha ribattezzata scherzosamente “talking dead”.
Romero è un regista che per tutta la sua carriera si è tenuto alla larga dalle major, così da mantenere il pieno controllo sui propri film, che ha sempre prodotto in modo indipendente. Lo scarto tra il suo immaginario inquietante e il mondo dell’entertainment (o del prime time televisivo) è notevole, anche se questo dilagare degli zombi nell’immaginario mainstream testimonia quanto l’intuizione di Romero si sia radicata in profondità nel nostro immaginario. Basta pensare che nel 2011 il Pentagono ha allestito un piano per fronteggiare una zombie apocalypse, non perché qualche generale credesse davvero in una simile eventualità, ma perché lo scenario zombi è stato ritenuto un valido strumento formativo per addestrare i militari a fronteggiare un possibile collasso dell’ordine sociale. Nel 2015 Rocco Ronchi ha affrontato la metafora zombi da una prospettiva filosofica, in un piccolo e bellissimo saggio intitolato Zombie outbreak (Textus edizioni): ho avuto modo di conversare con lui a Radio 3 in occasione dell’uscita del suo libro. Secondo Ronchi lo zombi è intimamente connesso con la società di massa perché ne incarna facilmente le paure più profonde. A partire dallo zombi haitiano, che rappresentava la forza lavoro abbrutita, fino allo zombi consumatore compulsivo di Romero, il morto vivente rappresenta sia l’alterità assoluta che ci spaventa sia la massa indistinta nella quale, per un rovescio della fortuna, tutti noi potremmo finire per essere inglobati. Lo zombi è il povero, il pezzente, in un momento in cui la guerra dei ricchi contro i poveri da anni non era così violenta. E oggi, sottolinea Ronchi, l’immaginario zombi finisce per sovrapporsi fin troppo facilmente alla nuova grande paura delle nostre società: quella dell’invasione dei migranti. Questa similitudine ci racconta, in modo potente, come l’Occidente oggi rischia di immaginare l’alterità.
Secondo Ronchi l’immaginario zombi finisce per sovrapporsi fin troppo facilmente alla nuova grande paura delle nostre società: quella dell’invasione dei migranti.
“Lo zombie – spiega Ronchi – è una creatura sulla quale ogni violenza è autorizzata. Non rappresenta una minaccia che può essere governata e ricondotta all’ordine, rappresenta invece contagio che non può essere curato. È una minaccia assoluta che va eradicata, perché va contro l’ordine stesso del nostro mondo, il quale di fronte all’apocalisse zombi non può che collassare”. È vero, sullo zombi tutto è concesso, perché è un essere già degradato a oggetto, cosa morta, priva di qualunque umanità (e dunque di qualunque diritto). Un esempio? In un videogioco degli anni Novanta intitolato Carmageddon, dove tutto era visto attraverso la soggettiva di un pilota di macchina spericolato, uno degli obiettivi era quello di investire più pedoni possibili ottenendo altrettanti punti. Quando il cinismo del gioco fu contestato pesantemente, per ottenere il permesso di commercializzazione nei paesi che lo avevano vietato, gli sviluppatori trasformarono i pedoni in zombi: il sangue era verde, la faccia grigia e, di conseguenza, ogni violenza era permessa.
Se l’alterità non ha nulla a che vedere con me, con l’ordine del mio mondo, con la mia natura umana, allora non importa cosa essa subisca: l’importante è che l’ordine del mondo sia preservato o ristabilito. È questo lo scarto immaginativo che fa l’opinione pubblica occidentale di fronte alle migliaia di persone che ogni anno trovano la morte in mare per cercare di arrivare in Europa? Sembrerebbe di sì. Ronchi nel suo saggio fa derivare il concetto di massa informe, artefice di un collasso strutturale, addirittura a Platone:
La parola ‘massa’ entra nella letteratura scientifica mondiale in un testo singolare, che è il Parmenide di Platone. Platone si domanda che cosa accadrebbe ai ‘molti’ nel caso che essi non possano essere ricondotti a un principio unitario, un principio ordinatore che può essere la legge, l’ordine, ma anche la bellezza. La risposta che dà è che i molti si replicherebbero indefinitamente, divorando tutto il resto. La parola che dà a questa ipotesi è ‘onkos’, che vuol dire proprio ‘massa’, una massa che si riproduce in maniera automatica e illimitata. In qualche modo questo passaggio di Platone è una prima ‘teoria dello zombi’, che è una minaccia assoluta ad ogni ordine, una molteplicità che non si lascia contenere in una misura.
“La parola ‘onkos’ – prosegue Ronchi – finirà per designare la più triste delle malattie, il cancro, dove le cellule si riproducono in maniera disordinata e indefinita finendo per uccidere l’organismo. Quando noi pensiamo allo zombi come moltitudine senza ordine, e usiamo questa metafora per definire l’alterità che preme alle porte dell’Occidente, stiamo sostanzialmente pensando a una minaccia assoluta che, una volta che avrà avuto la possibilità di accesso, dilagherà fino a distruggere ogni ordine possibile”.
Negli ultimi anni lo zombi ha assunto diverse sfumature. Ha incarnato la paura verso un continente in fiamme devastato dall’appetito occidentale e dalla cecità dei signori della guerra, come in The Dead dei Fratelli Ford (2010), dove gli zombi sono infetti africani. Oppure ha incarnato la diversità anche sessuale, come nell’intelligente serie tv targata BBC In the flesh, in cui zombi fa rima con LGBT e dove si immagina una post apocalisse in cui i morti viventi, restituiti a una vita cosciente grazie a un farmaco miracoloso, devono essere reinseriti nella società, in un contesto intriso di buonismo (è vietata la parola offensiva “marci”, che va sostituita con “affetti da sindrome da morte parziale”).
Tutte produzioni targate UK, un paese che evidentemente è particolarmente affezionato a questa metafora; forse la migliore commedia zombi di tutti i tempi è proprio Shawn of the dead, del 2004, ambientata in una Londra dove distinguere tra uno zombi claudicante e un ubriaco in hangover dopo il fine settimana è davvero molto difficile (a cui farà eco nel 2011 la pellicola cubana Juan of the Dead, dove nei bollettini ufficiali i morti viventi vengono scambiati per ‘dissidenti’ dall’autorità castrista). E a proposito di Inghilterra e di “zombi politico”, se ci si fa un giro nel People’s History Museum di Manchester, tra le tante scritte utilizzate sugli striscioni e sulle spillette delle manifestazioni della working class britannica contro la proliferazione delle armi atomiche, in piena guerra fredda, ne troverete una che recita “Zombies against bomb”.
Insomma, lo spauracchio della massa indistinta continuerà ad agitare gli incubi delle nostre società in trasformazione e in crisi di identità. E dunque, anche se George Romero è passato a miglior vita, si può ben dire, con un curioso ossimoro, che le sue creative, gli zombi, sono vive e lottano assieme a noi.