L’
omino di niente” fa parte delle Favole al telefono che Gianni Rodari pubblicò per Einaudi nel 1962. Inizia così: “C’era una volta un omino di niente. Aveva il naso di niente, la bocca di niente, era vestito di niente e calzava scarpe di niente. Si mise in viaggio su una strada di niente che non andava in nessun posto”. È una filastrocca in cui Rodari gioca col nulla, l’assenza e in un certo senso con la noia, definendo in poche righe un mondo e un’esistenza in cui noia e dolore si accompagnano ma spesso si separano, sorprendendo e a tratti anche divertendo. L’omino di niente libera in sostanza una forma inedita di gioco o anche solo di allegro cinismo. Lascia per strada i rancori e tiene per sé la semplicità di una vita sì da niente, ma tranquilla nel suo grigiore. Giocare con il grigio è però anche giocare con i colori, così come parlare del niente e del nulla è come parlare un po’ di tutto.
Olimpia Zagnoli prende l’omino di Rodari e mostra come abbia celato con cura possibili e infiniti colori, possibili ed infinite forme. Nell’Omino di niente illustrato da Zagnoli (Edizioni EL) l’omino diventa il bianco, la sottotraccia di un mondo colorato e inclassificabile in cui ogni cosa è possibile proprio perché indefinita e ancora innominata. Le strade diventano serpenti e le righe vestono teste e profili, sagome umane in cerca di definizione. Olimpia Zagnoli è una delle illustratrici italiane più riconosciute al mondo, collabora con riviste internazionali, case di moda e recentemente ha collaborato con la Barcolana, la storica regata nel golfo di Trieste di cui ha firmato il manifesto: Zagnoli è capace di riportare il suo sguardo, le sue righe e i suoi colori ormai iconici ben oltre il foglio bianco, su qualsiasi oggetto o prodotto, è un’artista capace di restare indipendente e rilanciare la propria creatività sfruttando le committenze a proprio favore e restituendo la propria arte nelle forme più impreviste e anche giocose. “Mi hanno letto e ho letto Gianni Rodari fin da quando ero bambina”, racconta. “Quando mi hanno proposto di illustrare una delle sue storie mi sono sentita un po’ imbarazzata al pensiero di dover sostenere visivamente una storia che non ha in realtà bisogno di nessun supporto”.
Come ti definiresti? Illustratrice? Artista?
Non sono particolarmente interessata a cercare un termine che possa definirmi. Uso “illustratrice” per comodità, perché è quello che c’è scritto sulla mia carta d’identità.
Hai spesso raccontato che hai iniziato da bambina. Quando hai sentito la necessità di esprimerti attraverso il disegno?
Ho sempre sentito la necessità di esprimermi attraverso il disegno, per me non è soltanto un piacere ma un vero e proprio alleato. Il disegno è il mio modo di parlare, di scrivere, di ricordare, di ritagliarmi una mia felicità. A volte mi trovo a fare dei segni con le dita per aria come per appuntarmi una frase, un pensiero, la curva di una lettera che ho visto o un’idea passeggera.
E come si è sviluppato il tuo percorso di apprendimento?
Nel mio lavoro ho sempre cercato la sintesi perché era l’elemento che più apprezzavo nelle opere delle artiste e degli artisti che mi hanno preceduto. Con “sintesi” non intendo necessariamente il tanto abusato concetto less is more, ma la capacità di sintetizzare su un supporto un immaginario ampio fatto di colori, odori, ricordi e sensazioni. Quando Matisse riempie una stanza di pennellate, tende di broccato, tappezzerie e gabbiette di uccellini, non si può certo dire che abbia descritto un ambiente minimale, ma riesce perfettamente a sintetizzare il concetto di un pomeriggio tranquillo di inizio estate, con la finestra aperta sul lungomare, il profumo dei limoni e forse anche un filo di musica in diffusione.
Quando lavori su commissione, ti senti limitata nel rapporto con chi ti commissiona i lavori?
Adoro avere dei limiti perché sono una persona che non ne ha, quindi è un ottimo esercizio di disciplina e contenimento senza il quale sarei forse troppo dispersiva, approssimativa o ribelle. Mi piace avere totale libertà all’interno di un seminato. Come giocare da soli nella propria stanza mentre i genitori guardano la televisione in salotto.
Ci sono differenze per te tra illustrare o dare forma ad un oggetto o a un luogo rispetto ad un manifesto o a un libro, e ci sono modi in cui vorresti sperimentare ancora il tuo linguaggio?
Mi piace cambiare il più spesso possibile. Mi annoio facilmente. Ultimamente sento il bisogno di allargarmi un po’, di allungare le braccia e toccare una materia più ampia del foglio di carta, di respirare un’aria diversa e imparare nuove cose e nuovi punti di vista.
E c’è una tecnica che preferisci, invece?
Uso prevalentemente il digitale perché mi consente di essere veloce, di fare molti errori e ripararli in fretta, di provare decine di combinazioni di colore al secondo. Non amo tenere un progetto nel cassetto per troppo tempo, se sento una particolare predisposizione per quell’idea mi piace tirarla fuori al più presto. La parte di preparazione consiste nell’appuntarsi le idee che svolazzano su quaderni con matite, penne o oggetti di fortuna. Lavoro dappertutto in qualsiasi condizione. Mi adatto facilmente, mi piace arrangiarmi e trovare una soluzione con quello che ho.
Riguardi mai i tuoi vecchi lavori?
Sì certo, guardare i vecchi lavori è sempre un esercizio interessante, per quanto difficile a volte. Talvolta riconosco delle ingenuità dal punto di vista tecnico, un uso troppo approssimativo dei programmi che stavo iniziando a conoscere, oppure un linguaggio troppo didascalico. Altre volte invece sono sorpresa dalla disinvoltura con cui imbastivo nuovi progetti senza preoccuparmi di dove sarebbero andati o cosa sarebbero diventati.
Quali sono secondo te le illustratrici e gli illustratori giovani da tenere d’occhio oggi?
Mi piacciono molto gli illustratori non-illustratori come Tamara Shopsin, Braulio Amado, Jordy van den Nieuwendijk e gli illustratori super-illustratori come Yann Kebbi, Joana Avillez, Thibaud Herem.
E le storie che ti attirano di più?
In generale nella letteratura, nel cinema e nella musica mi accorgo che le storie ambientate nella quotidianità e in contesti quasi banali sono le mie preferite. Apprezzo chi sa raccontare le stranezze, le tensioni e i romanticismi dei momenti normali. Non amo generalmente il surrealismo, il simbolismo, la fantascienza o i racconti definiti distopici. Ma poi dipende sempre da chi li scrive.
Ti piace insegnare?
Capita a volte che abbia l’occasione di tenere lezioni o workshop e mi diverte, nonostante mi riduca spesso a parlare per ore senza smettere mai perché mi rendo conto che le considerazioni che riguardano l’illustrazione riguardano spesso anche la vita intera. Il nostro rapporto con noi stessi per esempio, la comunicazione dei nostri pensieri, la propria cultura di appartenenza, i libri che leggiamo, la musica che ascoltiamo, le cause nelle quali crediamo, sono tutte goccioline della propria linfa che confluiscono in un imbuto che passa attraverso il foglio per poi finire nel mare di tutte le immagini, i suoni e profumi del mondo.
Chi è per te “L’omino di niente”?
“L’omino di niente” è una possibilità, un buco nella pagina che invita i lettori a leggere tra le righe (letteralmente) e usare l’immaginazione per navigare in questo mondo fatto di aria fritta. Tutti noi siamo omini e donnine di niente quando siamo sotto la doccia, fermi al semaforo o quando stiamo per addormentarci; siamo tutto l’universo e il nulla totale contemporaneamente.
Le illustrazioni sono tratte da L’omino di niente illustrato da Olimpia Zagnoli (Edizioni EL).