N ei suoi scritti sul montaggio nel cinema sonoro Sergej Ėjzenštejn afferma che il carattere dominante di un pezzo di montaggio è legato a un elemento indicatore che battezza la serie e la significa, per cui è opportuno collocarlo “il più vicino possibile all’inizio”:
Se noi abbiamo questa sequenza di pezzi di montaggio: un vecchio canuto, una vecchia canuta, un cavallo bianco, un tetto coperto di neve, ancora non sappiamo neanche lontanamente se questa serie è imperniata sulla “vecchiaia” o sulla “bianchezza”.
Per il regista, scenografo, sceneggiatore e teorico sovietico questa dominante che caratterizza il film è profondamente relativa, e può avere un grado di maggiore o minore approssimazione: “Un circolo vizioso? Un’equazione a due incognite? Un cane che si morde la coda?”, si chiede. What Has Left Since We Left (2020) dell’artista e filmmaker Giulio Squillacciotti è esattamente questo, un’equazione a due incognite: la sequenza qui comincia con una donna e un edificio monumentale sullo sfondo, ma sebbene l’elemento indicatore compaia quasi subito, sino alla fine alimenta l’incertezza sulla natura di quello che stiamo guardando. Gli intertitoli infatti ci informano che non si tratta di un luogo qualunque, ma del palazzo del governo della provincia di Limbourg, dove nel febbraio del 1992 è stato firmato il Trattato di Maastricht.
Passo dopo passo, scopriamo un edificio semivuoto abitato dai fantasmi di coloro che hanno abbandonato il sogno europeo, perché a distanza di trent’anni, “giorno dopo giorno, anno dopo anno” l’Unione si è trasformata in una famiglia infelice, conflittuale e smemorata. Le/i rappresentanti degli ultimi tre paesi rimasti, Olanda, Belgio e Germania si ritrovano nella sala dove ha avuto luogo la firma del trattato per decidere se interrompere o meno la loro “unione”, decretando così la fine dell’avventura europea. Squillacciotti costruisce una macchina narrativa complessa, basata su continui rimbalzi (emotivi, visivi, sonori) e loop decisionali, tipici di quelle relazioni logore e stanche di cui si è ormai perso lo slancio e la motivazione iniziale, e che non si è più in grado di alimentare – ma da cui è anche difficile uscire, se non affrontando la vertigine della perdita e del fallimento. Le/i tre rappresentanti, Raymond, Amalia e Lucas, sono interpretate/i dalla stessa attrice, Janneke Remmers: corpo e voce sono gli stessi, ma l’abbigliamento, la postura e soprattutto la lingua marcano una chiara differenza. “Gesti, espressioni e un diverso senso dell’umorismo”, afferma la voce fuori campo dell’interprete britannica (Anna Brooks-Beckman) consapevole che i suoi sforzi di traduzione non saranno mai abbastanza efficaci per limitare “le incomprensioni e gli abbandoni”. L’interprete allora dichiara il suo intento maieutico: “Prima di aiutarli a capirsi fra di loro, li aiuterò a capire se stessi”.
È così che l’incontro si trasforma in una tanto improvvisata quanto necessaria seduta di psicoterapia di gruppo, e i discorsi politici si trasformano in un confronto serrato – non privo di accenti comici – sui rispettivi vissuti, sul senso di comunità e della parentela. Il profilo pubblico si riversa in quello privato e viceversa: Raymond è in apprensione per il suo divorzio imminente; Amalia è tenace ma ha fatto investimenti sbagliati ed è coinvolta in un processo per bancarotta fraudolenta; Lucas, il più insicuro, ha uno strano rapporto con i figli della moglie che considera pigri e irresoluti. Dietro problemi come il divorzio, la cura e il sostegno economico del nucleo familiare, leggiamo in controluce tutte le questioni chiave su cui i paesi europei si sono divisi: la Brexit, l’insolvenza sovrana dei paesi dell’area Schengen, la questione migratoria e l’applicazione del Trattato di Dublino. Nel libro omonimo – edito da Onomatopee (2020) con contributi di Ayşe Zarakol, Marwan Moujaes, Federico Lodoli, Marina Lalovic ed Erica Petrillo – che ha accompagnato l’uscita del film, Squillacciotti scrive:
I grandi problemi europei sono evocati attraverso allegorie: orgoglio e desiderio sono usati per parlare di debito e fallimento, eredità e solitudine per parlare di identità e migrazione, l’amore incondizionato per parlare invece di visione politica. […] L’idea deriva da alcuni graffiti che ricordo di aver visto sulle mura della città di Roma negli anni ’80 quando ero un bambino, reliquie dei tumulti politici che hanno scosso l’Italia negli anni ’70:
Né USA, né URSS: EUROPA! Anche se l’idea che noi europei avremmo potuto rappresentare un’alternativa ai due poli di influenza mondiale era affascinante, mi sono chiesto: è davvero possibile definire l’identità solo attraverso ciò che non lo è? Sulla base di quali criteri ci definiamo europei? Cos’era e cos’è l’identità europea?
What Has Left Since We Left è una riflessione sul cortocircuito fra il passato, il presente e un possibile futuro dell’Europa, ma anche sui limiti della comunicazione. Con un gesto liberatorio, l’interprete sfonda la quarta parete e guarda in macchina per interrogarsi sulle condizioni di possibilità della traduzione, nonché sulla presunta neutralità della sua lingua madre, l’inglese – perché “farsi domande è il primo passo per accedere alle meraviglie della traduzione”, afferma. Per la scrittrice e teorica Susan Sontag, se in alcuni contesti culturali l’interpretazione è “un atto liberatorio”, un mezzo di revisione e di fuga da un passato morto, in altri può essere “reazionario, codardo e soffocante”, tanto da trasformarsi in uno sterile esercizio di stile. Nella scrittura affannosa delle proprie radici culturali, l’Europa sembra essersi attardata proprio sull’esegesi di un testo ormai vetusto e non si è resa conto che “il suo albero genealogico è stato tagliato alla radice, per cui è necessario piantare un nuovo seme che faccia frutti diversi, meno amari”.
Il film di Squillacciotti denuncia così la problematicità di una concezione essenzialista dell’identità – che crea più problemi di quanti ne risolva – e di un progetto politico troppo logoro per rispondere alle richieste del tempo presente. La gestazione di What Has Left Since We Left è coincisa infatti con l’esplosione della pandemia di COVID-19 che ha portato in superficie il grande rimosso dell’UE mostrandone tutta la fragilità: in una corsa contro il tempo dell’emergenza, questa ha dovuto affrontare il compito ben più arduo di fare i conti con i propri fantasmi. L’idea di identità che il film sembra suggerire è infatti quella che gli studi culturali e le teorie queer riconoscono come “formazione discorsiva”. Per il sociologo giamaicano naturalizzato britannico Stuart Hall ad esempio, l’identità non si scopre ma si produce, non è un’essenza ma un divenire, una questione tanto di posizionamento quanto di orientamento. Anche la poetessa americana, critica letteraria e teorica queer Eve Kosofsky Sedgwick sostiene che l’identità è una “rete aperta di possibilità, lacune, sovrapposizioni, dissonanze e risonanze, vuoti ed eccessi di significato”, che destabilizzano tutte le idee essenzialiste di razza, etnia o nazionalità, così come quelle di genere e sessualità.
In questo senso What Has Left Since We Left porta in scena l’esperienza problematica di una profonda discontinuità, mette in tensione il senso servendosi di un montaggio serrato che disorienta, in un continuo gioco di rimandi e contrappunti audiovisivi. Fra le superfici dell’edificio e i corpi di Raymond, Lucas e Amalia quasi non v’è soluzione di continuità. Le loro parole sembrano confluire in un solo flusso di coscienza grazie alla recitazione di Janneke Remmers che sfuma il confine fra i corpi: la voce è saldamente ancorata al corpo come questo allo spazio, tanto da suggerire un senso di confinamento e circolo vizioso. La traccia sonora è più che sottofondo o accompagnamento, perché disegna lo spazio tratteggiando un’ampia serie di dettagli architettonici: la muratura, le finestre, le scale, i corridoi e gli arredi. Il tutto è chiosato dal pallido found footage della conferenza intergovernativa che nel 1992 portò alla firma del trattato. Mentre scorrono i titoli di coda riconosciamo, fra gli altri, Giulio Andreotti, nome che riecheggia nelle cronache del cinema italiano per la sua aspra critica al Neorealismo – in particolare a Umberto D. (1951) di Vittorio de Sica – che per l’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri avrebbe reso un “pessimo servizio” all’immagine dell’Italia all’estero, perché “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Ma a cosa corrisponde questa immagine? Qual era l’identità italiana del dopoguerra e quale quella dell’Europa di oggi? Quale sarà quella post-pandemica? What Has Left Since We Left pone questo tipo di domande.
Squillacciotti arriva a questo film dopo una lunga serie di lavori che incrociano le pratiche del documentario sperimentale – Shore Leaves (2018), They Thought They Saw a Ghost (2021) – con quelle dell’antropologia visiva – RMHC – 1989/1999 Hardcore a Roma (2012), Archipelago (2019), The Face That I Loved Let Me Down (2021) – e dell’archivio – Far, From Where We Came (2008), Friday, Antwerp (2019). A uno sguardo attento è possibile rintracciarvi alcune note dominanti, come l’attenzione a una concezione drammatica dello spazio – spesso definito anche per via prossemica – e il frequente ricorso a una mise-en-tableaux post-cinematica dell’immagine. Ma più di ogni altra cosa, la vera costante è la presenza del gesto vocale come estensione indisciplinata del corpo, che forza il contratto audiovisivo e le forme della mise-en-scène: in particolare la voce acusmatica e mediatizzata, e il complesso degli atti comunicativi che l’accompagnano. Per il teorico e media-archeologo Friedrich Kittler:
Niente eccita la memoria più fortemente della voce umana, forse perché nulla viene dimenticato tanto velocemente quanto una voce. La nostra memoria di essa, tuttavia, non muore – il suo timbro e il suo carattere affondano nel nostro subconscio dove aspettano la loro rinascita.
In Scala C, Interno 8 la voce disincarnata del signor Fulvio Pesarini è registrata su una segreteria telefonica: le sue “parole a senso unico” abitano inascoltate un appartamento vuoto che diventa il set di una “storia d’amore mai consumata”. In La dernière image (2015) e Visto due volte (2017) un’audioguida accompagna i visitatori rispettivamente in un museo (forse) abbandonato e nel chiostro dell’ex ospedale psichiatrico di Collegno, ma le parole si rivelano desunte da insoliti brani di scrittura diaristica ed epistolare. In The Pit Call (2018) ed Euramis – Friends, Indeed (2019) la voce si fa vero e proprio palinsesto babelico. Mentre nel più recente The Dispute (2020) la voce diventa fonazione asemantica, deformata e inafferrabile, vettore, con Michel Chion, di una “possibile deriva per il cinema”. È questo un cinema che migra nell’arte contemporanea e ritorna a una sempre più originaria forma breve, concentrata in questo caso sulla grammatica del corpo, come per le/i pioniere/i dell’immagine in movimento che nella scoperta del mezzo andavano riflessivamente scoprendo se stesse/i.
Tutte le foto sono tratte dal film. What Has Left Since We Left (Olanda 2020. Single Channel – 4K Video 1.33:1 – Dutch/English/French/German – Audio Stereo – 20’) è stato presentato in anteprima mondiale a Les Rencontres Internationales Paris/Berlin – 2021 e nel programma Whitechapel Gallery – Artists’ Film International 2021 (selezionato dalla GAMeC di Bergamo).
Sarà in mostra presso Careof, a Milano, dal 20 aprile al 23 maggio 2021.