L a Primavera e la Nascita di Venere di Botticelli sono senza dubbio tra i maggiori capolavori della storia dell’arte occidentale. Dipinti dall’artista fiorentino nella prima metà degli anni Ottanta del Quattrocento, sono entrati a far parte dell’immaginario collettivo contemporaneo, divenendo dei veri e propri feticci in grado di trascendere il ruolo e il significato che questi ebbero al momento della loro creazione. Per fare solo alcuni esempi recenti, lo scorso luglio la Primavera è stata oggetto di un blitz ambientalista, per poi fare la sua comparsa in Don’t Worry Darling di Olivia Wilde e infine è stata al centro di una disputa legale tra le Gallerie degli Uffizi – sede di entrambe le opere – e il designer Jean Paul Gautier, reo di aver utilizzato, senza autorizzazione, l’immagine della Venere botticelliana su alcuni capi della sua nuova collezione. Circa un secolo e mezzo prima che i due dipinti di Botticelli divenissero le opere più ricercate dai milioni di visitatori che ogni anno varcano la soglia degli Uffizi, questi sono stati oggetto degli studi di uno dei più influenti storici e teorici dell’arte europei: Aby Warburg.
Warburg nasce nel 1866 ad Amburgo da una benestante famiglia di banchieri di origine ebraica. Dopo una prima formazione umanistica, lo studioso rinuncia a ereditare il patrimonio e l’attività familiare per perseguire la carriera intellettuale, dedicandosi allo studio della storia dell’arte. All’università di Bonn intraprende un percorso multidisciplinare, seguendo corsi non solo di storia dell’arte ma anche di filologia, filosofia e storia delle religioni. Questi interessi lo portano ad avvicinarsi agli insegnamenti di Jacob Burckhardt, incentrati sul concetto di Kulturgeschichte (storia della cultura), arrivando così a concepire l’arte figurativa come una delle molteplici espressioni di una civiltà, prendendo le distanze dalla concezione feticistica dell’opera d’arte come capolavoro. Partendo da queste premesse, Warburg focalizzerà i suoi studi non solo sulle varie manifestazioni artistiche di una data cultura – dal dipinto alla medaglia, passando per l’illustrazione a stampa e la ceramica istoriata –, bensì sulla ricerca di costanti trasversali a diversi luoghi e epoche, muovendosi quindi a livello spaziale e temporale, cercando collegamenti tra oriente e occidente, tra antichità e Rinascimento. Ne deriverà un ampliamento metodologico della storia dell’arte e dei suoi confini tematici e geografici: un superamento sia della concezione formalista dell’arte sia della semplice decifrazione iconografica delle immagini, in favore di una scienza della cultura che interpreta l’espressione artistica innanzitutto come esigenza biologica.
Warburg sfida la diffusa concezione puramente estetizzante delle opere da parte del pubblico a lui coevo.
Warburg dedica ai due dipinti mitologici di Botticelli la sua tesi di dottorato (discussa nel 1891 presso l’Università di Strasburgo), in cui si trovano già, in nuce, alcune delle questioni fondamentali che verranno approfondite dallo storico dell’arte lungo tutto il corso della sua carriera. A quel tempo le opere di Botticelli erano già considerate due capolavori emblematici del Rinascimento, ed è possibile scorgere tra gli intenti di Warburg una sfida alla diffusa concezione puramente estetizzante delle opere da parte del pubblico a lui coevo, figlia, tra le altre cose, della poetica Preraffaellita e Art Nouveau, che ne apprezzava in particolare lo stile calligrafico e la tendenza al decorativismo. Nell’Osservazione preliminare allo scritto Warburg chiarisce subito l’obiettivo del suo studio: porre in relazione i due dipinti con le “corrispondenti idee della letteratura poetica e della letteratura estetica dell’epoca”, in un’ottica quindi di ricostruzione della storia della cultura di un dato luogo e periodo, al fine di chiarire in che modo e a quale scopo l’eredità dell’antichità classica sia stata fatta propria e utilizzata dagli artisti e dagli intellettuali italiani del Quattrocento. Pur incentrandosi sul rapporto tra linguaggio poetico e linguaggio visivo, il confronto tra parola e testo non ricopre quindi solo un obiettivo filologico, volto a rintracciare le fonti scritte della raffigurazione, bensì quello di mettere in luce il valore espressivo che il modello antico assume per gli artisti rinascimentali.
Analizzando la Nascita di Venere, Warburg individua come fonte scritta la descrizione dell’episodio contenuta nella Giostra di Angelo Poliziano – umanista legato, come Botticelli, alla corte di Lorenzo il Magnifico –, a sua volta basata su quella del secondo Inno omerico ad Afrodite. Warburg però non si limita a individuare il poema di Poliziano come una sorta di ekphrasis del dipinto botticelliano, ma si concentra sull’insistenza dei testi – sia quello antico, sia quello quattrocentesco – e dell’immagine sul movimento prodotto dal vento sulle chiome e le vesti dei personaggi. Secondo l’autore non si tratta di una semplice coincidenza: non solo, infatti, questa convenzione rappresentativa trova un riscontro in uno dei testi sacri per gli artisti del Quattrocento, il De Pictura di Leon Battista Alberti (1435), in cui vengono fissate una serie di norme che saranno alla base del nuovo linguaggio pittorico rinascimentale, fondato sulla riscoperta dell’antico; ma compare in una numerosa serie di opere realizzate nel corso del XV secolo, caratterizzate appunto da questo “movimento intensificato”. Warburg cita alcuni esempi: i bassorilievi di Agostino di Duccio in cui si ritrovano citazioni da rilievi antichi, raffiguranti in particolare la figura della menade; alcune xilografie che illustrano l’Hypnerotomachia Poliphili, una delle più affascinanti pubblicazioni a stampa del rinascimento veneziano; un disegno a penna della cerchia di Botticelli, copia dal bassorilievo di un sarcofago antico, in cui l’artista si concentra, addirittura accentuandoli, sulla veste e la capigliatura svolazzanti, in quanto espressione massima dello stile antichizzante. Warburg individua quindi nel principio del movimento l’origine della rinascita quattrocentesca dell’antichità classica: secondo l’autore l’antico è, per gli artisti e gli intellettuali del Rinascimento, innanzitutto uno strumento espressivo, che mira ad infondere, attraverso la rappresentazione del movimento, vitalità e realismo alle sue raffigurazioni, andando quindi a improntarne lo stile tanto quanto il contenuto.
Warburg ipotizza per la prima volta un legame tematico tra i due dipinti mitologici di Botticelli, attribuendo a Poliziano l’invenzione del programma iconografico di entrambi.
Nella seconda parte del testo, dedicata alla Primavera, e in quella conclusiva, incentrata sulle “origini esterne della composizione dei dipinti”, Warburg concentra la sua lettura più sulla dimensione storica e iconografica delle opere. Esaminando la Primavera, l’autore si focalizza in primis sull’identificazione dei personaggi e delle rispettive fonti di riferimento, per poi provare a fornire una lettura complessiva dell’episodio raffigurato. A partire da destra, troviamo l’“inseguimento erotico” di Zefiro e Flora, che da ninfa si trasforma in dea della primavera, così come narrato da Ovidio; Venere e Cupido, fulcro della composizione; le tre Grazie, caratterizzate da vesti discinte e trasparenti, soggetto raccomandato da Alberti; e infine Mercurio in qualità di condottiero delle Grazie. Citando alcuni passi di Orazio e Lucrezio dove viene descritto un simile corteo divino presieduto da Venere, in cui la dea è concepita come simbolo della natura che ogni anno si rinnova – un topos poi ripreso da Poliziano nel Rusticus –, Warburg giunge quindi a proporre come titolo più appropriato per il dipinto Il regno di Venere. Secondo l’autore i due dipinti raffigurerebbero due episodi collegati: il primo mostrerebbe appunto la nascita di Venere, sospinta dagli zefiri sulla riva di Cipro, mentre la cosiddetta Primavera presenterebbe la dea nel suo regno, circondata dai suoi fidi aiutanti. Warburg ipotizza così per la prima volta un legame tematico tra i due dipinti mitologici di Botticelli, attribuendo a Poliziano, in qualità di “dotto consigliere” dell’artista, l’invenzione del programma iconografico di entrambi. Non solo, secondo l’autore la committenza delle opere andrebbe senza dubbio ricondotta alla cerchia medicea, come dimostrerebbe, in entrambi i dipinti, la raffigurazione di Simonetta Vespucci, amante di Giuliano de’ Medici, nei panni della Primavera. Proprio su queste considerazioni si svilupperanno tutti gli studi successivi sull’argomento, precisandone diversi aspetti senza però arrivare a metterne in dubbio l’assetto generale.
Se l’attitudine filologica della ricerca warburghiana lo porterà a essere considerato, in maniera forse riduttiva, soprattutto come il padre della moderna iconologia, val la pena notare come già nella tesi di dottorato – un testo per certi versi ancora acerbo e contraddittorio nelle sue conclusioni – faccia la sua comparsa la ninfa (insieme alla sua controparte dionisiaca: la menade), intesa come figura femminile caratterizzata dal movimento del panneggio all’antica, la quale si rivelerà fondamentale per l’elaborazione della sua riflessione teorica.
Il pensiero di Warburg prende infatti forma attorno ai concetti di “simbolo” e di “sopravvivenza”, tramite la rielaborazione delle teorie del filosofo Friedrich Theodor Vischer sulla natura dei simboli e di quelle del biologo Richard Semon sulla memoria. Se dal primo deriva la definizione di simbolo come connessione tra immagine e significato (Sinnbild) tramite un punto di comparazione, in cui la creazione e la fruizione artistiche si collocano in una posizione intermedia, in un precario equilibrio tra l’atto rituale e il concetto puro, dal secondo assimila la concezione secondo cui ciascun evento esperienziale agisce sulla materia cerebrale lasciando su di essa una traccia, definita engramma: in questo modo lo studioso arriverà a ipotizzare una trasmissione delle immagini, e in particolare di alcune immagini simboliche, basata sulla nozione di memoria culturale collettiva. Secondo Warburg questa trasmissione ha un fondamento antropologico-espressivo, per questo motivo conierà il termine pathosformel (formula di pathos) per indicare questa particolare tipologia di immagini, in grado di travalicare i confini geografici e cronologici della storia dell’arte proprio in virtù del loro contenuto patetico. La ninfa, formula di pathos per eccellenza, compare ad esempio nell’affresco con la Nascita di San Giovanni dipinto da Domenico Ghirlandaio in Santa Maria Novella a Firenze: qui la figura anticheggiante irrompe nella scena, caratterizzata da personaggi statici e abbigliati con vesti moderne, sotto forma di canefora, divenendo al tempo stesso simbolo e testimonianza non solo della progressiva emancipazione degli artisti nei confronti della tradizione tardomedievale, bensì della sopravvivenza dell’antico, che trova il suo fondamento proprio nella carica vitale ed energetica che questa custodisce.
Non è un caso quindi che le allegorie di Botticelli e le diverse incarnazioni della ninfa siano protagoniste di alcune tavole dell’atlante illustrato Mnemosyne (1928-1929), l’ultimo progetto di Warburg in cui lo storico dell’arte volle sintetizzare il suo percorso intellettuale attraverso un sistema di comunicazione per immagini. Qui infatti le allegorie mitologiche di Botticelli ricompaiono come emblema dell’ingresso dello “stile ideale anticheggiante” nell’arte del primo Rinascimento, in cui i temi dell’amore neoplatonico e della metamorfosi vengono raffigurati tramite espressioni intensificate della vita all’antica (tavola 39), mentre l’immagine della ninfa, archetipo della figura femminile in movimento, riemerge negli affreschi di Ghirlandaio come figura domestica, per poi sopravvivere in figure della tradizione biblica o mitologica fino a incarnarsi anche nella realtà contemporanea, come nella contadina toscana fotografata dallo stesso Warburg mentre scende da una corriera a Settignano (tavola 46), oppure nell’immagine della campionessa di golf Erika Sellschopp (tavola 77), prendendo così infine parte al movimento di emancipazione femminile caratteristico degli anni Venti del secolo scorso.
La lettura warburghiana dei dipinti di Botticelli ci restituisce quindi un quadro incredibilmente complesso e sfaccettato, capace non solo di arricchire la nostra percezione delle opere, spesso quasi interamente assorbita da sterili nozioni di bellezza e di capolavoro, ma anche di spiegare perché, a distanza di più di cinque secoli, queste continuino a fare stabilmente parte del nostro immaginario condiviso.