U n sabato sera nel primo mese di quarantena, io e il mio ragazzo abbiamo proposto per la prima volta a una coppia di amici di berci un bicchiere online. In quattro con due apparecchi, ciascuno appollaiato di fronte al proprio schermo, nessun intoppo tecnico rilevante ci ha impedito di passare la cosiddetta serata in compagnia, anche se ogni tanto gli amici al di là dello schermo “saltavano”. Chiamavano da smartphone, erano al piano terra: non le condizioni migliori per una buona connessione. Ogni tanto lui compariva pixelato in alto a sinistra, lei sfocata in basso a destra. Oppure rimanevano congelati per una frazione di secondo, seduti nel loro salotto inanimato. È sempre straniante osservare oggetti immobili in video live, a volte sono l’unico elemento che permette di distinguere un essere vivente dall’inorganico dello sfondo. La conversazione comunque procedeva più o meno regolarmente, salvo per dei percettibili ritardi, discrepanze tra audio e video, con il primo che accelerava sul secondo per recuperare lo svantaggio. Poi lui è rimasto bloccato in fermo immagine, immortalato con la mano sulla fronte, sfumata dalla bassa risoluzione. A vederlo così, manipolato dalla tecnologia a sua insaputa, mi ha sorpreso un moto di tenerezza. Più perplessa che commossa, mi sono chiesta: stavo empatizzando con lui, con l’umano intrappolato in questa assurda crisi, o con l’oggetto, l’immagine che me lo mostrava così?
Nel suo Superfici, un libro dedicato al concetto di superficie come luogo d’incontro tra cultura visiva e materialità, Giuliana Bruno riserva un excursus a quei pensatori tedeschi che, tra fine Ottocento e inizio Novecento, concepirono una serie di teorie per spiegare le reazioni emotive e psicologiche che abbiamo nei confronti di oggetti, immagini, spazi. L’idea dell’Einfühlung—che latamente significa “immedesimazione” e letteralmente può essere tradotta con un “sentire verso/insieme”—per come fu in principio sviluppata da Robert Vischer cercava di descrivere il coinvolgimento percettivo dell’individuo con l’opera d’arte come un’esperienza unilaterale e solitaria, che poneva lo spettatore al centro del discorso estetico. Teorici successivi come Theodor Lipps introdussero la condizione di piacere o empatia nella relazione tra soggetto e oggetto, interpretando il processo di fruizione artistica come un “incontro” o risonanza affettiva, frutto di proiezioni interne ed esterne instaurate tra osservatore e opera. Quest’ultima però veniva intesa in posizione subalterna in quanto la sua esistenza dipendeva da chi la “possedeva” investendola della propria ragione, gusto, comprensione e via dicendo.
Anche se non escludeva la soggettività dell’esperienza, questa era una visione elitaria e venne presto messa in crisi dalla crescita di una classe media che andava al cinema, nei musei, viaggiava per turismo ed era generalmente esposta a media di massa. Lo spettatore singolo si stava insomma trasformando in pubblico composito con presupposti ben diversi di quelli dell’intellettuale post-romantico colto in contemplazione dell’arte classica or rinascimentale. A svelare la natura essenzialmente ego-riferita dell’Einfühlung per come era stata intesa fino ad allora fu poi lo storico dell’arte Wilhelm Worringer, che dichiarò: “il godimento estetico è godimento oggettivato di noi stessi”. Questa svolta arrivò con una consapevolezza nuova benché già vista da Nietzsche, quando scriveva di alienazione: la nostra interazione con un oggetto, per essere totale e dunque empatica, porta con sé non solo soddisfazione estetica ma anche disagio, poiché nell’immersione perdiamo un po’ della nostra identità.
Dopo svariate riunioni di lavoro su Zoom, il mio ragazzo e i suoi colleghi avevano affinato l’arte degli sfondi digitali. Finché un giorno mi ha confessato che la scenografia fittizia fornita dall’applicazione continuava a invadere lo spazio occupato dal suo volto sullo schermo. “Forse sono troppo pallido”, mi ha detto, “l’app crede che la mia faccia sia la parete bianca dietro di me”. Esibitomi uno screenshot come prova, non ho potuto fare a meno di pensare a uno dei concetti per cui Hito Steyerl è più nota: la classificazione della poor image, a quanto pare attuale anche dopo undici anni dalla sua teorizzazione.
L’artista tedesca rileva il peso politico dell’immagine a bassa risoluzione, diventata o nata tale perché copiata, scaricata, piratata, ridotta o prodotta con dispositivi o scopi non all’altezza della modernità corrente. Il sottoproletariato della società classista delle apparenze, scrive Steyerl, incarnato da un personaggio di Harry a pezzi di Woody Allen: Robin Williams nel ruolo di un attore improvvisamente fuori fuoco e dunque impossibilitato a lavorare. Difesa attivamente da Steyerl, l’immagine in questione è povera anche perché relegata ai margini dei sistemi di produzione capitalista.
Riguardo la scena del film di Allen, e sospendo l’incredulità due volte. Prima a livello narrativo; poi anche a livello estetico-storico, consapevole che la risoluzione dello spezzone online non riflette la qualità di fruizione del prodotto come fu concepito nel 1997 e girato, come tutti i suoi titoli coevi, in 35 millimetri. Durante le prime settimane di clausura in casa, ci siamo sorpresi a consumare ripetutamente prodotti d’intrattenimento degli anni Novanta: non solo la revisione casuale ma ripetuta di Friends, Simpson e Dawson’s Creek vari, ma anche nostalgiche ballate di teen pop inascoltate da decenni.
L’apice della regressione è stato raggiunto quando una replica del joystick del Super Nintendo per computer è stata ordinata e recapitata alla nostra porta. Hadley Freeman del Guardian scrive prontamente di una simile esperienza innescata da un recente video-messaggio condiviso da Sam Neill. Con lo stesso rassicurante tono di voce con cui annunciava dinosauri in Jurassic Park, sentiamo l’attore commentare le scarpe da ginnastica lavate e profumate durante l’isolamento. Freeman individua il potere calmante di queste icone nella loro capacità di trasportarci in un’era pre-catastrofe. Non che il mondo fosse dominato dalla pace allora, ma dal punto di vista di bambini o adolescenti viventi allora in parti del mondo privilegiato, il nostro orizzonte mnemonico non era ancora stato segnato da cataclismi globali. Ma poi, al sollievo generato dal ricordo di noi stessi spensierati e storicamente vergini, si accompagna un senso di tenerezza, quasi pietà, per i noi stessi che eravamo allora, ignari, ingenui e anche un po’ stupidi nella nostra ignoranza.
Senza disturbare le nostalgie di Svetlana Boym o le retromanie di Simon Reynolds, ripensando ai film che mi hanno regalato i momenti di svago più profondo durante questa clausura, azzardo una personale teoria dell’escapismo cinematografico per cui la pellicola, rispetto al digitale, è ancora forma migliore perché, portandosi dietro quella brezza di passato, adempie al massimo al suo scopo originario – farci evadere dalla realtà, offrendo la possibilità di identificazione con l’altro o l’altrove. Che poi oggi, statisticamente la pellicola venga privilegiata dagli auteur con molte risorse o dall’art-house duro e puro, è un discorso troppo ancorato al (vecchio) presente per essere affrontato qui e ora.
Ma la nostalgia è una canaglia, soprattutto perché ci fa credere che il passato a cui teniamo appartenga a un tempo fuori, personale e amorale. Come ricorda di nuovo Hito Steyerl, “neppure l’immagine digitale è fuori dalla Storia. Reca i lividi degli scontri con la politica e la violenza”. Un paio di settimane fa il commissario europeo per il mercato interno, Thierry Breton, ha ottenuto da Netflix e YouTube la riduzione della definizione dello streaming in Europa. Per decongestionare la rete durante l’emergenza, motivazione chiara e necessaria. Ma anche, mi suggerisce il pensiero emotivo, perché una tragedia così non si vive in HD. Se si sopravvive, lo si fa attaccati al telefono. Esortata a limitare la proliferazione di bufale, Whatsapp ha ridotto la possibilità di inoltrare messaggi a gruppi estesi di persone. Una misura considerata blanda e che comunque non impedisce alle immagini—oh, povere immagini – di diventare virali. Se si sprecano cartelle sulle metafore linguistiche legate all’epidemia, nella capillarità espressiva di certi meme, di certi video trash e meno trash inoltrati senza contesto dai parenti anziani, dei filmati domestici che circolano da così tanto tempo da essere diventati nomadi – in questo sciame angosciato e vigile s’intravede quello che per il teorico Geert Lovink è il social(e): l’abilità collettiva d’immaginare i soggetti connessi come un’unità temporale.
L’ultimo film girato da Chantal Akerman prima di togliersi la vita, No Home Movie (2015), documenta gli ultimi mesi della madre, che morirà poco dopo le riprese. Conversazioni tra madre e figlia e gli interni familiari compongono quasi la totalità delle scene, ambientate nella casa della madre a Bruxelles. Spezzano queste sequenze casalinghe inquadrature di paesaggi desertici e alcune telefonate Skype tra la Akerman negli Stati Uniti e la madre in Belgio. Quest’ultima non ha consapevolezza corporea della propria presenza sullo schermo altrui e quindi il suo volto appare talvolta tagliato a metà o occupante spazi sproporzionati, lo sguardo rivolto vagamente a un al-di-là che non combacia quasi mai con l’obbiettivo. In una scena la Akerman riprende la conversazione includendo il piccolo riquadro dove ci si può specchiare in video conferenza, rivelandosi così anche allo spettatore. “Mamma, ti volevo fare vedere che non c’è distanza nel mondo”, le dice, in un tentativo di spiegarle perché la sta riprendendo. “Tu sei a Bruxelles, io ad Oklahoma, ma non c’è più distanza. Guarda quant’è piccolo il mondo” e prima di salutarla zooma sullo schermo, sugli occhi della madre coperti dagli occhiali, dove – tra l’immagine sgranata dell’anziana e i pixel ingranditi dello schermo LCD – scorgiamo il riflesso della regista intenta a filmare.
In questi attimi spuntano da una parte un omaggio (involontario?) alla se stessa intravista sui finestrini del metrò in News From Home, del 1977, dall’altra un momento di reciproca e sentita connessione attraverso il vetro digitale. Non che, improvvisamente grazie a Skype, le due donne imparino a comunicarsi “ti voglio bene”. Ma allo stesso tempo, Akerman e madre riescono in effetti a manifestarsi l’affetto reciproco attraverso l’immagine in movimento. Nell’avverarsi dell’atto empatico – nel vedersi volersi bene, insomma, si finisce per voler bene anche all’immagine, all’oggetto che ha veicolato lo scambio. Un po’ come pensavano i tedeschi dell’Einfühlung, ma al rovescio. La conferma o simulacro di questo scambio sembra comparire proprio nell’intoppo tecnico, nella discrepanza tra suono e immagine, nel difetto temporaneo di questi .mp4 in cui esistiamo socialmente in questi giorni. Come se, in tempi di anomalia, si finisse per voler bene all’anomalia stessa. Affetti, chi più chi meno, da una collettiva sindrome di Stoccolma.