“S e fossi scrittore, e morto, come mi piacerebbe che la mia vita si riducesse, a cura di un biografo amichevole e disinvolto, ad alcuni particolari, alcuni gesti, alcune inflessioni, diciamo: dei ‘biografemi’, la cui distinzione e mobilità potrebbero viaggiare fuori da ogni destino e andare a raggiungere, simili ad atomi epicurei, qualche corpo futuro, promesso alla stessa dispersione, una vita ‘bucata’, insomma”.
Basta sostituire la parola “scrittore” con “artista”, e nel leggere questo augurio disperso in Sade, Fourier, Loyola di Roland Barthes torna alla mente la massima raccolta di biografemi mai scritta nella nostra lingua, le Vite di Giorgio Vasari. Pur non sempre amichevole, dotato dell’arte nobilitante dell’idiosincrasia, Vasari ha dato vita a un libro destinato a plasmare non solo un’idea di canone a lungo indiscussa, ma pure a sfondare le spesse pareti dello specialismo. E forse proprio nel privilegiare la componente del bios su quella dell’ecfrasi, i fatti della vita prima delle opere, va rintracciata la straordinaria fortuna tra gli scrittori d’una galleria di destini eternati (nella seconda edizione) dai medaglioni figurati in apertura e, particolare spesso trascurato dagli stessi storici dell’arte, epitaffi in volgare apposti in chiusura: a rammentarci che scolpire in parole vite eccezionali richiede penne fuori dall’ordinario.
“Mi sono ingegnato per questo effetto, con ogni diligenzia possibile, verificare le cose dubbiose con più riscontri, e registrare a ciascuno artefice nella sua Vita quelle cose che elli hanno fatte”, ricordava nelle conclusioni della Torrentiniana: ma come ogni autore che si rispetti Vasari inventa continuamente dettagli, scorcia, sovrappone come velature episodi letti altrove, modificando per amor di finzione narrativa il dato biografico. Ad ogni maniera nel suo disegno dell’arte italiana corrisponde un carattere, l’intima verità di chi passa la vita dipingendo scolpendo o progettando: cogliere le manifestazioni del daimon nella loro singolarità era ciò che più gli stava a cuore. Parallele, immaginarie, tutt’altro che minuscole: di qui il fascino insepolto delle sue “vite d’artista”, soggette a un’infinita serie di rielaborazioni (basti pensare alle reazioni a catena degli scrittori d’arte, da Giulio Cesare Malvasia a Marco Boschini), riprese e variazioni che riscoprono un inaspettato boom tra il finire dell’Ottocento e gli anni Venti, in corrispondenza dell’elaborazione del cosiddetto “romanzo dell’artista”.
Vasari inventa continuamente dettagli, scorcia, sovrappone come velature episodi letti altrove, modificando per amor di finzione narrativa il dato biografico.
Ma l’ombra lunga di Vasari sopravanza perfino il modernismo, e in tempi di attuale proliferazione della biofiction (l’insieme delle “finzioni letterarie di forma biografica (vita di un personaggio immaginario o vita immaginaria di un personaggio)”, per usare la definizione di uno dei principali suoi teorici, Alexandre Gefen) il suo richiamo appare ancor più naturale. È nel solco di questo genere tipicamente novecentesco che s’inscrive Vite sognate del Vasari (Bompiani 2021) di Enzo Fileno Carabba, raccolta di racconti “liberamente tratti” dal Vasari, nati per le pagine del Corriere Fiorentino.
Stupisce non veder mai menzionato Marcel Schwob, l’iniziatore della finzione biografica, quando nel parlare di quest’operazione di archeologia narrativa viene fatto riferimento a un “matrimonio di storia e invenzione”, dove i racconti nascono da sviluppi di particolari sepolti o da episodi inventati ex novo, ma pur sempre germogliati “in modo plausibile (questa sarebbe l’idea) da quelli vecchi, come foglie d’un ramo”.
Delle Vies imaginaires (pubblicato nel 1896, ma oggetto d’enorme attenzione nel secolo successivo) Carabba emula innanzitutto il dato formale, la brevitas. Nell’intento di dare uniformità al libro, le Vite sognate si susseguono cronologicamente, arrivando a lambire i principali rappresentanti dell’arte italiana dal quindicesimo al diciassettesimo secolo. Nessun titolo, solo i loro nomi a designare i raccontini; ma si può a buon diritto parlare di flash fiction, se in molti casi i testi sono racchiusi in tre, massimo quattro paginette. Dal modello schwobiano deriva anche l’attenzione per il dato insignificante mirato a far luce sulle bizzarrie dell’uomo, anziché rivelare un destino non comune, come invece tipico della leggenda dell’artista codificata da Ernst Kris e Otto Kurz. Giotto e Cimabue sono amanti della pesca, Arnolfo di Cambio è ossessionato dai legnetti, mentre Antonio Pollaiolo appare — come nella riuscita rielaborazione del Ritratto di dama in copertina, firmata da Liza Schiavi — inconsapevole del proprio futuro, mentre assiste alle lotte dei polli col fratello Piero.
Ogni vita dirompe rovinosamente in una manciata di paragrafi, il che implica l’adozione d’una sintassi franta, densa d’ellissi e frasi nominali, fino all’estremo (“Sembra che sia passato chissà quanto tempo dall’inizio della storia, ma aveva solo diciannove anni […] in realtà si chiamava Jacopo, ma noi non abbiamo tempo da perdere”, si trova scritto nella vita Pontormo). Se l’intento di Carabba sembra essere dunque “conferire al particolare l’illusione del generale”, come ricordava Schwob nella sua Prefazione, va detto che stile e intento complessivi sono agli antipodi del suo antenato, come pure rispetto ai picchi novecenteschi della biofiction italiana, da La sinagoga degli iconoclasti di Wilcock a Sogni di Tabucchi alle splendide (e colpevolmente dimenticate) Vite congetturali di Fleur Jaeggy. Carabba è principalmente autore per ragazzi, e Vite sognate si inserisce appieno in questa produzione; il filone erudito delle “vite immaginarie” viene trasferito in un quadro divulgativo, che fa a meno di virtuosismi e delle tessere testuali sapientemente disseminate nei precedenti.
Ciò è evidente innanzitutto nel rapporto di sostanziale linearità — Vasari viene citato esplicitamente innumerevoli volte — instaurato con la fonte, lontano dagli echi, sovrapposizioni e citazioni criptiche frequenti nell’unica vita d’artista presente nelle Vies di Schwob:
E così un giorno, in un prato, vicino a un mucchio di vecchie pietre disposte in cerchio affondate nell’erba, vide una ragazza con la testa cinta da una ghirlanda, che rideva. Indossava una veste lunga e delicata, tenuta aderente al corpo da un nastro pallido, e c’era un che di languido nei suoi movimenti, come gli steli che piegava. Si chiamava Selvaggia e sorrise a Uccello, cui non sfuggì la piega delle sue labbra. E quando lei ricambiò il suo sguardo, lui vide tutte le lineette che orlavano le sue ciglia, e i cerchi delle pupille, e la curva delle palpebre, e gl’intercci sottili dei capelli, e nella sua testa fece assumere un gran numero di posizioni alla ghirlanda che le cingeva la fronte. Ma Selvaggia non sopettò nulla, aveva solo tredici anni. Prese Uccello per mano, e lo amò.
Se Schwob miniaturizzava la tensione vita-arte dell’artifex melancholicus in squarci di folgorante bellezza, Carabba disegna piuttosto un’agile figura d’almanacco:
Paolo Uccello a dieci anni era garzone nella bottega di Ghiberti, qui conobbe Donatello che una volta cresciuti gli diceva spesso: “La tua passione per la prospettiva ti fa lasciare il certo per l’incerto”. Paolo rispondeva “Grazie!” Lo riteneva un complimento: cosa ci poteva essere di meglio che lasciare il certo per l’incerto? Era l’avventura. […] Anche Brunelleschi, pur essendo quello che gli aveva spiegato la prospettiva, spalancava gli occhi. “Non sarà troppo?” chiedeva. “Troppo, si grazie!” Rispondeva Paolo entusiasta. Dietro la stessa parola possono stare tante cose diverse. Le opere dei suoi amici gli piacevano, ma sentiva un’intima insoddisfazione che era anche un piacere: voleva fare qualcos’altro per essere qualcos’ altro.
La scelta d’una sintassi piana, la lingua colloquiale e i dialoghi infantili accentuano — anziché cancellarla — la bidimensionalità eliogabalesca dei modelli. È stato scritto che queste Vite sono godibili soprattutto da chi la storia dell’arte la conosce già, o chi ha già letto Vasari: pare vero piuttosto il contrario. La teoria di biografie sarebbe invece una valida introduzione allo spirito degli artisti per quei ragazzi che vi si avvicinano per la prima volta. Per chi invece conosce già la fonte, i tentativi più fortunati sono rintracciabili nei racconti che più si distanziano dal testo di partenza. Carabba riesce nel tentativo di unire ciò che Vasari ha diviso, come negli episodi dedicati ai fratelli Lorenzetti o al tortuoso rapporto padre-figlio di Nicola e Giovanni Pisano, risolto attraverso lo scoccare del tempo autonomo dell’arte (“Ormai Nicola non c’era più. Un giorno Giovanni fece un viaggio in Puglia e vide una statua di Federico, che quasi gli sorrise, Guardò negli occhi di colui che non aveva mai conosciuto. Fu preso da una grande emozione. Quello era lo sguardo di suo padre. “Penso che andrò a visitare Castel del Monte”).
Le Vite sognate brillano nel dar corpo a figure d’artiste appena accennate o ignorate da Vasari, forse perché l’affermarsi del genio femminile è ancora in attesa d’una adeguata codificazione. Nei racconti dedicati a Antonia di Paolo di Dono e Plautilla Nelli viene ripercorsa con tocco scanzonato la strada aperta da Lavinia fuggita di Banti, poi proseguita da Mazzucco e Rasy, dove a dominare sono sequenze d’immagini volte a dar vita a quello che gli studiosi chiamano re-enactment, cioè la vivificazione di momenti culturali passati attraverso il coesistere di coinvolgimento e distacco, immersione e straniamento. Esiti disuguali a parte, i risultati più vivi nelle biografie finzionali en artiste vengono raggiunti sganciandosi dalla mimesi, nell’intento di far frizionare più livelli di realtà, restituendo all’immagine dell’artista (non solo all’opera) la sua natura tipicamente anacronica:
Morì povero, solo, trascinandosi su due bastoni attraverso il vento che lo allontanava dagli altri e lo avrebbe reso uno sconosciuto per secoli. Poi, come emergendo dal mare della storia rinacque e, bellissimo e irreale, galleggiando sui suoi quadri, approdò sulle coste di un’isola: il nostro tempo.