L
a metafora non è mai innocente. Essa orienta la ricerca e fissa i risultati”, scriveva Jacques Derrida. Apparentemente, non vi è nulla di più banale di una metafora: l’atto di trasferire a un oggetto il nome che è proprio di un altro, per ricorrere alla definizione aristotelica. Un gesto che ognuno di noi compie innumerevoli volte nel corso di una giornata – il mare ci sembra una tavola, il tempo viene convertito senza battere ciglio in denaro…
La leva che Derrida utilizzava per scardinare in un sol colpo il linguaggio e l’uso completamente trasparente che la filosofia voleva farne era, nella formulazione di Aristotele, la parola proprio, che rimanda alla necessità di una metafora di essere appropriata: se diciamo “il mare è una tavola” intuiamo facilmente che il richiamo è alla piattezza della sua superficie, ma cosa significherebbe una frase come “il mare è un anatomopatologo”? Il suo senso non è chiaro, ma al tempo stesso è impossibile stabilire se esso sia completamente assente – e se il mare, alla stregua dell’anatomopatologo, facesse riemergere sulla battigia i corpi dei naufraghi, riconsegnandoli alla storia proprio come fa il medico legale nell’atto di identificare un cadavere sfigurato? La metafora, ci suggerisce questo esempio, deve fare i conti con il rischio ineliminabile dell’incompletezza, della mancanza di un punto di approdo pienamente soddisfacente.
Nella vita quotidiana, com’è ovvio, la maggior parte di noi non si lascia impressionare da certe acrobazie filosofiche. Sarebbe impossibile non ricorrere con regolarità a delle metafore per comunicare fra noi, e ugualmente inevitabile è che in una conversazione spontanea esse si adoperino senza pensarci troppo, magari per abitudine: una metafora è appropriata quando l’interlocutore la comprende immediatamente. Fintanto che ciò avviene il linguaggio metaforico sembra quanto di più normale e innocuo possa esistere. Eppure, il nostro anatomopatologo ce lo confermerebbe, le metafore e i miti a esse collegati sono in grado di uccidere.
Lo dimostrava quarant’anni fa Susan Sontag nel saggio Malattia come metafora. Dopo essersi ammalata di cancro, l’autrice si era resa conto che le persone nella sua condizione venivano costantemente colpevolizzate e demoralizzate: il cancro era una condanna a morte e chi la riceveva in età non avanzata doveva aver commesso un errore, che si trattasse di uno stile di vita malsano o di un qualche attentato alla giustizia divina. Il frequente ricorso a metafore di questo tipo spesso dissuadeva “dal cercare tempestivamente una cura, o dall’impegnarsi più a fondo per ottenere cure competenti”. Di qui l’intenzione, esplicitata nel successivo L’Aids e le sue metafore, di “alleviare le sofferenze inutili”, di “persuadere le persone malate a considerare il cancro una semplice malattia. […] Non una maledizione, né una punizione, né una mortificazione”. Sontag non si faceva illusioni: sapeva bene che non si può rinunciare del tutto alle metafore, e che quelle riferite alla malattia non sono per forza dannose. Al tempo stesso, ribadiva senza esitazioni la necessità di sorvegliare il legame tra malattia e metafora, per decostruirne e disattivarne le manifestazioni più insidiose: “non è possibile prendere le distanze dalle metafore semplicemente astenendosi dall’usarle. Bisogna denunciarle, criticarle, attaccarle, usurarle”.
Susan Sontag non si faceva illusioni: sapeva bene che non si può rinunciare del tutto alle metafore, e che quelle riferite alla malattia non sono per forza dannose.
I due scritti di Sontag, per lungo tempo non disponibili in italiano, sono stati ripubblicati qualche mese fa dalla casa editrice nottetempo, proprio in un momento in cui abbiamo un grande bisogno di comprendere il portato metaforico della pandemia. Il volume che li raccoglie fornisce infatti alcune indicazioni di metodo importanti su come raccontare la congiuntura attuale. Per questa autrice, la tentazione sempre in agguato è quella di ricercare nelle metafore a effetto un “modo per esprimere severità morale”: in un contesto orfano di concezioni religiose e filosofiche largamente accettate, gridare che qualcosa sia, per esempio, “il cancro della società” accende le emozioni di chi ascolta – ma condanna anche il discorso politico a formulazioni rozze, generalizzazione improprie, iperboli gratuite.
Della immutata rilevanza di questa preoccupazione abbiamo avuto una prova, tra l’altro, nel caso dei commenti alla pandemia di un intellettuale del prestigio di Giorgio Agamben, nei quali la sincera tensione critica è andata in cortocircuito in una girandola di espressioni metaforiche quali “cancellazione del prossimo” o “guerra civile” (riguardo alle misure introdotte per limitare la diffusione del Covid) e si definivano gli e le insegnanti “colpevoli” di prestarsi alla didattica a distanza come “il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista”. A queste considerazioni che procedevano a suon di metafore magniloquenti, Sontag avrebbe probabilmente opposto una concezione diversa della critica: “fermare l’immaginazione” anziché fomentarla, privare qualcosa del suo significato prima ancora di conferirgliene uno nuovo. Tale era stata, del resto, la sua “strategia donchisciottesca” sin dai tempi di Contro l’interpretazione. Il linguaggio scarnificato e lo stile asciutto di Malattia come metafora minacciano ancora lo status quo ben più delle parole immaginifiche dell’ultimo Agamben: tramite la sua prosa sorvegliata e povera di figure retoriche, Sontag dosava con sapienza le metafore, rendendole dirompenti senza scavalcare i confini dell’appropriatezza che le fa comprensibili a tutti o quasi. Così, quando la scrittrice metteva in guardia dal rischio che il filosofo oggi identifica con lo stato di eccezione, lo faceva con una mancanza di ambiguità impareggiabile:
Si dice che è in gioco la sopravvivenza della nazione, della società civilizzata, del mondo stesso – affermazioni che costituiscono uno degli strumenti più tipici per giustificare la repressione. […] La retorica della fine del mondo che [l’epidemia di Aids] ha suscitato va inevitabilmente in questa direzione. Ma fa anche qualcosa di diverso. Offre una contemplazione stoica, e alla fine anestetizzante, della catastrofe.
Per districarsi tra le metafore innumerevoli e talvolta mortifere con cui riceviamo e riproduciamo il racconto dell’attuale pandemia, l’approccio di Sontag deve, però, essere ampliato e messo alla prova. Tenere gli occhi aperti sulle derive metaforiche che attribuiscono significati impropri a una patologia non può coincidere con una dicotomia tra malattia e metafora, ma richiede anche l’analisi delle zone di intersezione tra le due. Come ha osservato David Joselit a proposito della diffusione record del coronavirus negli Stati Uniti (un paese il cui precedente presidente si è profuso a lungo in dichiarazioni false sulla gravità della pandemia), la disinformazione che passa tramite contenuti metaforicamente definiti virali finisce oggi per agevolare la diffusione di un virus che di metaforico non ha nulla, portando alla malattia e in alcuni casi alla morte un numero di persone che non potremo mai stimare con certezza. In tal modo, una patologia è resa effettivamente più pervasiva da quella che sarebbe dovuta risultare una sua mera rappresentazione.
Del resto, la storia ha registrato spesso distinzioni sfumate tra l’ambito di competenza della medicina e quello della retorica. Bill Wasik e Monica Murphy ci ricordano che la rabbia, la più letale delle patologie virali, viene indicata con un termine che si riferisce tanto a un sentimento quanto a una malattia – e che questa sovrapposizione si registra da così lungo tempo e in così tante lingue che non c’è modo di stabilire una chiara prevalenza dell’una o dell’altra accezione quanto all’origine del vocabolo. Essa, in altre parole, è stata sin dalla sua prima scoperta, migliaia di anni fa, sia malattia sia metafora. La lista degli esempi potrebbe continuare – basti pensare all’isteria, considerata a lungo una condizione patologica e rimasta oggi poco più che una metafora dal sapore sessista.
Il fatto che il Covid-19 si presenti, per via della sua trasmissibilità aerea e dell’elevata contagiosità, come una malattia della comunità piuttosto che dell’individuo ha certamente attenuato le dinamiche colpevolizzanti evidenziate da Sontag nei casi di malati di cancro e Aids. È il racconto mediatico stesso a segnalare questo elemento, come emerge dalle due prime pagine dedicate dal New York Times alle vittime del coronavirus e dell’Aids, rispettivamente il 24 maggio 2020 e il 25 gennaio 1991. Trent’anni fa, il quotidiano parlava in maniera impersonale della perdita di “centomila vite statunitensi” – e lo faceva per giunta dopo decenni di volontaria invisibilizzazione degli uomini gay, il gruppo maggiormente colpito dalla patologia nel paese. Per la pandemia in corso, si è scelto non solo di stampare in carattere ridotto tutti i centomila nominativi, ma di specificare che “Non erano semplicemente nomi su una lista. Erano parte di noi”. Si tratta chiaramente di una retorica assai più inclusiva e questo è un bene, ma anche nella metafora che equipara l’individuo malato di coronavirus alla società tutta ci sono delle insidie. David Craig sottolinea, a questo proposito, che negli Stati Uniti la classe sociale, la razzializzazione e il luogo in cui si vive sono stati fattori cruciali nella diffusione del virus, con i soggetti più svantaggiati alle prese con un rischio assai maggiore di contrarre la malattia. Non prenderne atto costituisce una diversa, più sottile forma di invisibilizzazione – anche metafore apparentemente bonarie vengono a volte usate per finalità escludenti.
Facendo tesoro di questi spunti, possiamo allora provare a smontare – con Sontag e oltre Sontag – alcune delle retoriche pandemiche più frequenti. La prima, già presente in Malattia come metafora e analizzata su queste pagine da Giancarlo Sturloni, è di stampo bellico. Rappresentare le misure di contrasto a una patologia come una guerra ingenera un numero di semplificazioni quanto meno rischiose – si pensi soltanto alla propaganda martellante che spesso caratterizza le imprese militari, grazie alla quale un errore strategico del proprio comando può trasformarsi in un attimo in un’impresa del nemico (operazione ancora più semplice quando il “nemico” è un agente patogeno per definizione muto). Nell’ultimo anno abbiamo familiarizzato ampiamente con uno storytelling del genere: il personale sanitario rappresenta la prima linea di un’immaginaria armata, gli stati europei sono chiamati a fare fronte comune nel campo della salute pubblica, i vaccini passano da strumento di prevenzione o protezione a vera e propria arma contro il terribile nemico – nemico che accresce fatalmente il numero dei caduti.
Per quanto la criticasse aspramente, Sontag ammetteva che il ricorso a una retorica bellica fosse in parte inevitabile in una “società capitalistica” tradizionalmente poco reattiva ai richiami etici: “la guerra è una delle poche attività che non devono essere considerate ‘realisticamente’, vale a dire, tenendo d’occhio i costi e i risultati concreti”. C’è sicuramente del vero in questa intuizione: l’urgenza della pandemia ha travolto gli abituali confini dell’“economicamente possibile”, riportando in auge politiche di spesa pubblica e di controllo statale delle attività economiche che fino al giorno prima sarebbero state bollate come scellerate – e contro le quali i principali interessi economici avrebbero innalzato barricate. Nondimeno, questa è solo una parte di una dinamica più ampia: l’emergenza sanitaria ha di fatto acuito le disuguaglianze invece che livellarle, accrescendo di molto la ricchezza di coloro che già registravano i redditi più alti e moltiplicando il numero di persone al di sotto della soglia di povertà. Come accade spesso durante un conflitto, i costi non si distribuiscono spontaneamente in modo equo tra la popolazione chiamata a resistere.
L’urgenza della pandemia ha travolto gli abituali confini del possibile, riportando in auge politiche di spesa pubblica e di controllo statale delle attività economiche che fino al giorno prima sarebbero state bollate come scellerate.
I toni con i quali molti leader politici – da Macron a Johnson, dall’amministrazione Trump a quella Biden, da Conte a Draghi – hanno alimentato il ricorso metaforico alla guerra rischiano di appiattire la percezione collettiva sull’immediatezza del momento, senza interrogarsi riguardo le cause dello scenario che ci si trova a fronteggiare. In una delle migliori analisi della pandemia finora realizzate, il geografo Andreas Malm ha posto efficacemente a confronto il palese sgomento di tanti capi di stato e di governo con l’irrisione che essi stessi avevano riservato nel 2019 alle parole profetiche della giovane Greta Thunberg: “I want you to panic”. Il panico è alla fine arrivato ma, se proprio vogliamo restare nella metafora, per effetto di quello che – chiosa Malm – non è che un proiettile (il Covid-19) nell’ambito di una guerra che già uccide centinaia di migliaia di persone l’anno (il cambiamento climatico). L’evidenza scientifica sulla connessione tra deforestazione e rapido incremento delle zoonosi (i “salti” di specie con cui patogeni sviluppatisi nella fauna infettano poi degli esseri umani), anche con particolare riferimento ai pipistrelli e alla Cina, era nota da anni agli addetti ai lavori e persino a un pubblico di non specialisti – è del 2012 la prima edizione di Spillover, il libro del divulgatore statunitense David Quammen tristemente tornato alla ribalta durante la prima fase della pandemia.
Il paradosso è che, al termine del colossale sforzo per sconfiggere l’attuale coronavirus, il mondo potrebbe restare altrettanto vulnerabile a ondate pandemiche analoghe, peraltro sempre più probabili in assenza di misure drastiche per il contenimento delle cause del cambiamento climatico. Ancora una volta la metafora della guerra, di un conflitto che possa risolversi chiaramente in una vittoria o una sconfitta, mostra tutti i suoi limiti, rivelando la propria mancanza di innocenza. La dipendenza del nostro sistema economico da un modello di sviluppo che mette l’ambiente sotto pressione crescente potrebbe portare persino a ribaltare l’ipotesi di Sontag: lungi dallo spianare la strada per un (almeno) temporaneo allentamento della logica del profitto e dell’accumulazione, la retorica bellica può facilmente diventare uno strumento per assicurare che il sistema non si modifichi troppo, che dopo qualche concessione nel breve termine torni a un assetto non troppo diverso da quello iniziale. Qui il confine tra realtà e metafora arriva a offuscarsi: come ci ricordano con una figura retorica di segno opposto Éric Alliez e Maurizio Lazzarato, il capitalismo porta con sé le guerre “come le nuvole portano le tempeste” – e le guerre figurate potrebbero facilmente venire incluse nella definizione.
Rinunciare alla metafora della guerra, d’altro canto, lascia spazio ad altre definizioni, tra le quali spicca quella di crisi. In questo caso, non parrebbe nemmeno di trovarsi di fronte a una figura retorica: se la crisi è “ogni situazione, più o meno transitoria, di malessere e di disagio, che in determinati istituti, aspetti o manifestazioni della vita sociale, sia sintomo o conseguenza del maturarsi di profondi mutamenti”, allora affermare che stiamo attraversando una “crisi sanitaria” rispetta il significato letterale del termine. Per l’uso che ha assunto, tuttavia, questo vocabolo scivola rapidamente dal piano dell’analisi spassionata a quello della cialtroneria retorica – ecco allora che a quella sanitaria si affiancano una connessa crisi sociale, quella economica nella quale il paese sarebbe ininterrottamente immerso almeno dal 2008, la crisi del sistema politico che si trascinerebbe da decenni… tutti tasselli di una sorta di crisi infinita in cui all’apparenza l’Italia si troverebbe, per un motivo o per un altro, da tempo immemore. Qui diventa evidente la neutralizzazione del significato di partenza: da una circostanza “più o meno transitoria” che rimanda a “profondi mutamenti” siamo passati a uno stato perenne, dal quale si può uscire al più per brevi periodi. La crisi diventa quindi metafora, per quanto si tratti di una trasformazione chiaramente fallimentare, alla luce della quale chiedere “Che cos’è la crisi?” è ormai analogo a domandare a dei pesci cosa sia l’acqua, per rifarsi al celebre discorso di Foster Wallace.
Che si tratti di una metafora disonesta ce lo segnala, non senza una certa ironia, proprio la sfera della malattia nella quale il termine fece la sua prima comparsa nella Grecia antica. Ippocrate parlava di crisi precisamente in riferimento all’eventualità di un’epidemia, quando il medico era chiamato a compiere un giudizio, una diagnosi fra due alternative nette, la vita e la morte (krisis, appunto): il paziente sarebbe riuscito a sopravvivere, oppure il male che lo affliggeva avrebbe avuto la meglio. La crisi nasce dunque come una scelta drastica da compiere in un arco temporale molto limitato: nell’espressione di Koselleck, tutti gli usi antichi del vocabolo rimandano “al tempo che stringe” – l’esatto contrario di un fenomeno senza fine, o la cui conclusione appare tanto lontana quanto indeterminata (la metafora della “luce in fondo al tunnel” che tanto ha riecheggiato in questo anno di pandemia). È solo nell’Ottocento che la nozione di crisi si estende all’ambito economico e ancora più recentemente, con il neoliberalismo, che la crisi economica si è espansa a tutti gli ambiti della vita sociale, per assumere la forma di quella che Dario Gentili definisce un’arte di governo: affermare che ci si trova in crisi legittima non più l’alternativa, ma la mancanza di alternative, il bisogno inderogabile di rivedere le proprie aspettative al ribasso, di fare sacrifici; tale scelta fittizia non avviene più in un momento preciso, ma in un “eterno presente”. Il dispositivo della crisi attiva a sua volta un’intera serie di metafore, fra le quali quelle che richiamano alla necessità di governare in modo tecnico spiccano per la loro attualità.
Una delle poche caratteristiche dell’antica krisis rimaste in vigore ai giorni nostri è sicuramente la descrizione di colui che è chiamato a fronteggiarla come di un tecnico, di qualcuno che è in grado di riparare, di ricondurre alla condizione di partenza – o perlomeno di distinguere ciò che può ancora essere aggiustato da quanto non lo è più. Il tecnico chiamato in politica, o tecnocrate, richiama le diverse fazioni alla responsabilità, assume nella sua stessa apparenza fisica la gravità dei poteri consegnatigli e dell’impresa che gli viene richiesta. I commentatori osservano, con una sana dose di cinismo, che nei momenti bui i partiti ricorrono a figure tecniche proprio per non venire additati come i principali responsabili della terapia d’urto che andrà somministrata – il tecnico è un medico tanto capace quanto inflessibile. Eppure, nel ricorrere alla tecnica come metafora di una politica teoricamente più elevata perché disinteressata, a venire meno è proprio la responsabilità: il tecnico è investito di un potere che non ma hai chiesto e a cui potrebbe non aver mai nemmeno aspirato, pertanto in caso di errore o negligenza sarà sempre innocente: “Me l’avete chiesto voi, io neppure volevo…”. La mancanza di interesse nel senso deteriore, particolaristico del termine può anche coincidere con l’assenza di una motivazione forte a far del proprio meglio – un politico potrà venire punito alle elezioni successive, il tecnocrate non avrà mai bisogno di un elettorato favorevole.
Il paradosso è che, al termine del colossale sforzo per sconfiggere l’attuale coronavirus, il mondo potrebbe restare altrettanto vulnerabile a ondate pandemiche analoghe.
È proprio in questa mancanza di rischio insita nel ruolo di tecnico che Michel Foucault vide, nel corso del 1983 a Berkeley e in quello dell’anno successivo a Parigi, la distinzione tra la verità del tecnico e quella dell’antica figura del parresiasta (il filosofo inteso come maestro di vita). L’insegnante, che Foucault prendeva come modello di “tecnico”, è qualcuno che apprende un sapere e lo trasmette ad allieve e allievi. Se svolge bene il proprio mestiere, tale rapporto sarà positivo e mutuamente vantaggioso, basato sulla messa in comune delle conoscenze, la fiducia, magari anche sulla riconoscenza e l’amicizia. Da un docente non ci si attende che sia pronto a mettere regolarmente a rischio il suo lavoro, la sua ricchezza, la reputazione o perfino la vita: “Tutti sanno – e io per primo – che per insegnare nessuno ha bisogno di essere coraggioso”. Il parresiasta, al contrario, più che da un sapere specifico è caratterizzato da un’etica che lo spinge a dire la verità sempre e comunque, a testimoniare con la propria stessa esistenza la convinzione in ciò che dice, a qualunque costo – qui Foucault menzionava Platone quando affermò, davanti al tiranno Dionisio, che la tirannide è incompatibile con la giustizia, mettendo immediatamente a repentaglio la propria condizione di uomo libero (sarebbe poi stato ridotto in schiavitù). Per ricorrere a un’immagine più recente: quando Alan Greenspan, che da presidente della Federal Reserve statunitense fu per due decenni l’immagine del tecnico di successo, venne convocato dal Senato perché le sue politiche monetarie avevano favorito la crisi finanziaria globale del 2007-2008, se la cavò dicendo di aver trovato “un difetto” nelle proprie idee riguardo il funzionamento dell’economia. Greenspan non si stava comportando in modo anomalo, ma da tecnico autentico: se il sapere che era stato chiamato ad applicare alla realtà si era rivelato imperfetto, non si poteva certo fargliene una colpa.
Siamo abituati ai tecnocrati come a delle figure austere, che qualche volta potranno magari dar voce a verità scomode – ma mai, alla stregua del parresiasta foucaultiano, assumersene la responsabilità. La tonalità emotiva della tecnocrazia è cupa, trasmette un bisogno di pentimento e purificazione, dispiegando il potenziale retorico e politico di quella coppia di concetti, colpa e debito, che già Nietzsche aveva notato si indicassero (in tedesco), con la medesima parola – una metafora iscritta nella storia stessa del termine, rispetto a cui ancora una volta non sappiamo dire quale accezione sia il significato originario e quale quello figurato. Può così accadere che in Italia di un esecutivo a guida tecnocratica si dica che avrà la possibilità più unica che rara di investire ingenti risorse pubbliche per il rilancio dell’economia e del paese intero e contemporaneamente rappresentare tale occasione come se avesse a che fare con un debito da ripagare con urgenza, piuttosto che un credito da spendere. Le metafore si sprecano: non possiamo permetterci di utilizzare male i fondi che abbiamo, è un treno che passerà una volta sola, le future generazioni ci giudicheranno per questo (come se, con tutto quello che abbiamo già combinato, potessero ancora assolverci).
Per paradossale che sia, questa ripetizione incessante di metafore tetre e demoralizzanti finisce, come aveva previsto Sontag, per anestetizzarci di fronte al portato più autenticamente violento della pandemia in corso: la solitudine, la sofferenza fisica e psichica, la morte. Come nei bollettini di guerra, i decessi divengono una mera cifra da inserire nel pallottoliere di qualche burocrate, le reazioni nei loro confronti mutuate come da tradizione da fattori largamente esterni: mille morti rappresentano una tragedia nazionale, mentre quattrocento non sono che un inconveniente a stento degno di nota. Una copertura mediatica virtualmente perpetua non mostra interesse per i pochi interrogativi che contano: come è possibile che a un anno di distanza ci sia ancora così tanta sofferenza, così tante vite perdute anzitempo? Perché stiamo lasciando diventare la crisi uno sfondo perenne? Quando debito e colpa serpeggiano liberamente, in modo indistinto, quando la responsabilità del timone è affidata a chi è per definizione irresponsabile, il rischio è non accorgersi che qualcuno delle colpe potrebbe avercele davvero, che la responsabilità è sì di tutte e tutti, ma in parti diseguali. La metafora trova in questo ambiente il suo terreno di coltura, si moltiplica a vista d’occhio – e con la sua trasmutazione in virus il cerchio si chiude.
L’eredità di Sontag, a volerla cogliere, è enorme e parzialissima al tempo stesso: dice poco su cosa fare in questo momento (che è sufficientemente difficile da diffidare di chiunque abbia le idee troppo chiare), ma molto sul come. Per tenere sotto stretta sorveglianza le metafore che compaiono nei racconti nostri e altrui, nella maniera stessa che abbiamo di percepire la nostra epoca, non basta accontentarsi di qualche moralismo edificante (“Le parole sono importanti!”). Occorre invece riattivare criticamente il nesso sempre imperfetto tra linguaggio e immaginazione che Derrida segnalava facendo vacillare le fondamenta stesse del discorso metaforico, sperimentare modi diversi di descrivere la pandemia – più diretti e brutali sui dati di fatto, meno asfittici nell’immaginare un futuro in cui quello che stiamo attraversando non possa più ripetersi, perlomeno non nella medesima forma. Giocare, anche, in quell’area che si è creata – lo notava Nicolas Roussellier – tra lealtà nei confronti dello stato (e quindi rispetto delle norme anti-contagio) e disillusione verso la classe dirigente. Nella falsa alternativa tra acquiescenza ottusa e disobbedienza cinica, manca forse l’invocazione di un’obbedienza riottosa, di una rabbia razionale e ben indirizzata. Trovare le parole per esprimerla è il presupposto per iniziare a pensarla.