È un’idea comune, tra chi segue il cinema, quella dell’autore originale “snaturato da Hollywood”, la figura mitologica dell’intellettuale togato la cui integrità viene corrotta dal soldo facile della macchina hollywoodiana. Ne dovrebbe sapere qualcosa Denis Villeneuve, regista franco-canadese entrato nelle grazie del mercato statunitense per la sua candidatura all’Oscar nel 2011, con La donna che canta. Era una nomination per il miglior film straniero, e sarebbe stato il suo ultimo film parlato in francese, almeno fino a oggi. Hollywood si era accorta di lui. Presto, sarebbe stato messo al timone del sequel di Blade Runner.
Quello dell’autore corrotto è un mito approssimativo, spesso noioso, che ha fondamento in un fatto storico: è quasi dalla sua nascita che lo studio system d’oltreoceano corteggia i talenti stranieri e cerca di inglobarli nel proprio modo di fare cinema. Si può dire di più: lo studio system è proprio stato costruito dai talenti stranieri – Charlie Chaplin, Otto Preminger, Billy Wilder, tutti immigrati del vecchio continente. Nella storia, poi, ci sono stati i Paul Verhoeven, i Roman Polanski, gli Ang Lee, i David Cronenberg, solo per citarne alcuni.
Del resto, come Robert Altman aveva concisamente spiegato nel 1978, in un’intervista nella quale gli veniva chiesto come mai i suoi film avessero più successo in Europa, è la vecchia storia del nemo propheta in patria: “Nella tua patria natale non verrai mai visto così bene. È stato così anche per Gesù di Nazaret. Se chiedi ai critici americani chi siano i più grandi registi, ti diranno Fellini, Bergman, Truffaut. Se lo chiedi ai francesi, ti diranno Fellini, Bergman, Altman. E in Svezia diranno Altman ma non Bergman. È più facile farcela in un luogo che non è il tuo. Se sei troppo vicino alla situazione, non permane lo stesso senso di meraviglia verso il lavoro di un artista”.
A volte si tratta di una relazione creativa fruttuosa, altre lo è meno. Oggi, la situazione non è diversa. I grandi blockbuster e la miriade di film indipendenti a bassissimo budget hanno fatto dissipare il cinema “a medio budget”, ma nel subconscio di Hollywood – la Hollywood degli Oscar – permane l’antica convinzione che l’autorialità sia destinata a chi viene da un cinema diverso: entrano in scena registi come Iñárritu e Jean-Marc Vallée, messicano il primo e québecois il secondo, incaricati di raccontare storie epiche o storie intime dello spirito “americano”, filtrandole con il loro sguardo da artisti indipendenti e stranieri, formatisi lontano dai dettami degli studios.
La moneta di scambio, per degli Stati Uniti che stanno sempre più cedendo terreno alla Cina in campo cinematografico, sono le star. E così, dalla Corea del Sud, Park Chan-Wook di Oldboy viene chiamato negli USA a dirigere Nicole Kidman; Zhang Yimou, noto al grande pubblico per i suoi wuxia ambientati nella prima Cina imperiale, dirige Matt Damon in un film sulla costruzione della Grande Muraglia; con finanziamenti in parte cinesi e fresca di candidatura per il miglior film straniero (Mustang), la regista turca Deniz Gamze Ergüven dirige una storia sulla Los Angeles povera.
C’è una certa parte di Hollywood, quindi, che continua a brulicare di talento straniero. Ed è qui che torniamo a Denis Villeneuve. Perché, soprattutto nella sua incarnazione USA, il regista ha sempre trovato un compromesso tra la propria voce e le tecniche di narrativa tradizionale. Pur spiccando per la sua capacità di riassumere un intero snodo del racconto in un’unica inquadratura, Villeneuve rimane un regista di attori più che un regista di immagini, e un regista di storie più che un regista di atmosfera.
C’è una parte di Hollywood che continua a brulicare di talento straniero. Nella sua incarnazione USA, Denis Villeneuve ha sempre trovato un compromesso tra la propria voce e le tecniche di narrativa tradizionale.
A questo punto della sua vita, ha realizzato una decina di lungometraggi, metà da indipendente e metà senza l’appoggio delle major, tentando incursioni in generi sempre diversi. I suoi film canadesi sono drammi incentrati sul concetto di mortalità: in Maelström (2000), Villeneuve prende le mosse dall’incontro sottomarino di due persone: una automobilista che finisce in un fiume con la sua auto dopo aver travolto fatalmente un uomo e un sommozzatore che le salva la vita, non sapendo che è suo padre l’uomo investito. La voce fuori campo che racconta la storia è quella di un pesce. In Polytechnique (2009), Villeneuve offre un’interpretazione in bianco e nero del massacro del Politecnico di Montréal del 1989 – uno dei primi massacri di massa nelle scuole del Nord America; La donna che canta (2010) è una saga familiare strutturata come una tragedia greca, che comincia con una madre in Medio Oriente e finisce con i suoi due figli, in Canada, costretti a ricostruirne la storia a partire da una lettera.
Basato su una pièce teatrale, La donna che canta è l’ultimo film sceneggiato dal regista. Ed è a questo punto, con la candidatura all’Oscar, che Villeneuve smette di essere uno “straniero” per gli Stati Uniti: Prisoners (2013) è il primo lavoro che lo rende desiderabile dai grandi studios, proprio in virtù del fatto che è un film ingannevole, che sembra un thriller ma non lo è. Sarebbe il film sulla scomparsa di due ragazzine, ma sfida le convenzioni di genere: si dilunga a raccontare la provincia americana, i rapporti tra persone, ma poi ti persuade di essere un giallo sul sequestro di persona e sulla zona grigia della scelta morale della giustizia privata, e gli effetti che questa scelta produce su una famiglia; poi, di nuovo, si trasforma in un thriller alla Fincher. Villeneuve sceglie più strade, a volte lo fa con estremo rigore e chiarezza, portando avanti un’idea originale; a volte lo fa ripetendo numeri sicuri, già visti altrove. Gli americani, va da sé, sono tutti orecchie.
Il passo successivo – salvo un ritorno al cinema indipendente di cui parleremo in seguito – è Sicario (2015). Le ambientazioni sono radicalmente diverse da quelle di Prisoners – addio ai cieli pallidi della Pennsylvania, questa volta siamo sul confine messicano, in piena guerra tra cartelli della droga – ma il risultato è lo stesso: Villeneuve colleziona miriadi di piccole, intenzionali deviazioni dalle convenzioni del genere con cui sta lavorando: qui, in un action thriller, la scelta principale è avere una donna come protagonista. Dai suoi attori, Villeneuve ottiene interpretazioni precise e spaventosamente versatili, dalla sua fotografia ottiene il massimo con un’economia di mezzi (e inquadrature) fuori dal comune. Ma poi, eccolo che arriva: il compromesso. Alla base della sceneggiatura, scritta da Taylor Sheridan – già attore della serie tv Sons of Anarchy – c’è un fondo di generico, che dà la sensazione che Sicario sia un lavoro di grande maestranze più che un grande film d’autore.
Ma l’aura di grandezza rimane, e pur costretta in storie per certi versi difettose non passa inosservata agli studios. Nella fattispecie la Paramount che, per assicurarsi il “prossimo film del nostro canadese preferito,” prende delle misure inusitate: gli concede il final cut, l’ultima parola sul montaggio finale del film. È un tipo di contratto che viene concesso sempre più raramente, e per cui molti registi internazionali si trovano a lottare: sono celebri i riassemblaggi “adatti al pubblico americano” dei Fratelli Weinstein, tanto che il regista Olivier Dahan ha definito il rimontaggio di Grace di Monaco “una montagna di merda”. La stessa quantità di leggende ha circondato il montaggio di Blade Runner di Ridley Scott, che era uscito nei cinema nel 1982 con un finale positivo che sembrava una pubblicità del Fernet Branca, contro il volere del regista inglese. È un contratto, quello del final cut, che nuovamente riconosce a Villeneuve lo status di autore.
Arrival è una riflessione sul significato dell’interpretazione e della traduzione, sulla comprensione dell’altro attraverso la comprensione di un linguaggio.
Il film per cui a Villeneuve viene data carta bianca è Arrival. Basato su un racconto di Ted Chiang, veterano della fantascienza, è la prima incursione del regista nel genere. Ma, come nel caso di Prisoners, il film rispetta il genere soltanto in maniera obliqua: gli alieni sono sbarcati sulla terra, ok, ma sta a una linguista decifrarne le intenzioni. Arrival è una riflessione sul significato dell’interpretazione e della traduzione. Sulla comprensione dell’altro attraverso la comprensione di un linguaggio. Fosse uscito qualche mese più tardi, sarebbe quasi una metafora delle divisioni tra liberali e trumpisti, incapaci di interpretare gli uni il linguaggio degli altri.
A livello concettuale, è un’inversione a U per Villeneuve, regista ossessionato dal concetto di entropia (nelle aule di Polytechnique la metafora era esplicitata da un professore che spiegava l’entropia prima di venire ucciso nella sparatoria): in quasi tutti i suoi film precedenti dominava la curiosità di capire come un sistema reagisca all’introduzione del disordine – come si raggiunge un certo punto di non ritorno: uno studente entra in aula con un fucile; una donna investe un uomo e crea una reazione a catena; un uomo amministra giustizia sommaria per il sequestro di sua figlia.
Arrival, al contrario, offre una visione deterministica dell’universo, oltre a un’interpretazione non-lineare del tempo. Esattamente come i Tralfamadoriani – gli alieni di Mattatoio n.5 citati anche in altri romanzi di Kurt Vonnegut – vedevano la dimensione del tempo come un’“illusione”, così fanno anche gli alieni di Arrival, incapaci di pensare al tempo come a una linea. Poiché “la lingua dà forma a come pensiamo”, anche il loro linguaggio riflette questo modo di vedere il mondo: circolare e, quindi, incomprensibile per gli umani.
“Ci vorrebbe un altro terrestre per spiegarglielo. I terrestri sono bravissimi a spiegare le cose, a dire perché questo fatto è strutturato in questo modo, o come si possono provocare o evitare altri eventi. Io sono un tralfamadoriano, e vedo tutto il tempo come lei potrebbe vedere un tratto delle Montagne Rocciose. Tutto il tempo è tutto il tempo. Non cambia. Non si presta ad avvertimenti o spiegazioni. È, e basta. Lo prenda momento per momento, e vedrà che siamo tutti, come ho detto prima, insetti nell’ambra.”
“Lei mi ha l’aria di non credere nel libero arbitrio” disse Billy Pilgrim.
– Da Mattatoio n. 5
Come accade in molta fantascienza, all’idea che gli alieni sono arrivati viene accostata una dimensione più intima, che riguarda la storia personale della linguista. Anche per questo motivo, non ci è voluto molto perché il film suscitasse paragoni con Interstellar di Christopher Nolan, ma della epicità nolaniana non condivide i tratti – tutto è contenuto, svolto internamente: in Interstellar è il sentimento a interpretare l’universo, in Arrival è l’universo a interpretare il sentimento.
Ma permane un germe di quel Villeneuve delle grandi maestranze e dei piccoli film. Non è nelle interpretazioni. Non è nelle immagini, che ancora una volta sono trattate con originalità ed economia: a pochi minuti dall’inizio del film, la notizia dello sbarco alieno è trasmessa alla nuca di Amy Adams da un gruppo di studenti universitari: è quanto basta per trattare un topos classico (lo sbarco) in modo originale. Questa volta, il germe non sta nemmeno nella sceneggiatura che il regista prende in eredità, ma forse va a situarsi nella gestione del racconto e nel trattamento di flashback in cui, tra l’idea originale e l’idea generica, Villeneuve finisce sempre per scegliere l’idea generica.
Il che lo trasforma, come al solito, in un magnifico riformista. Come autore, Villeneuve porta avanti una linea di rigore stilistico vitale, che rinnova sempre il genere di partenza. Allo stesso tempo, però, i suoi film rischiano di non superare mai l’ostacolo del compromesso, offrendoci uno spettacolo che non abbiamo mai visto in una confezione familiare. È una metodologia che a Hollywood non può che piacere, ovviamente. Tutto sommato, però, in questa fase sembra soddisfare anche il regista, che dispone di un controllo creativo pari a pochi colleghi nella stessa situazione. La sua prossima mossa, una seconda incursione nel genere fantascientifico, è Blade Runner 2049: il suo primo franchise.
Il che ci porta al “piccolo” film indipendente che Villeneuve aveva diretto quasi insieme a Prisoners, con la stessa star di Prisoners (Jake Gyllenhaal), ma con intenzioni totalmente diverse. Dimentichiamoci del vasto pubblico di action thriller come Sicario o Prisoners. Ambientato su uno sfondo di nuovo canadese, Enemy è tratto da L’uomo duplicato di Saramago e si addentra in territori psicologici che non offrono facili spiegazioni: un professore universitario scopre che esiste un uomo identico a lui, e gradualmente si infiltra nella sua vita. L’entropia si presenta qui sotto forma di un enorme ragno-psicosi che si presenta al protagonista in taglie sempre più esagerate. Scandito dal solito rigore formale il film è allucinatorio, asciuttissimo, e non cerca di spiegare proprio niente. A dimostrazione che un’altra via, la via dell’autorialità senza compromessi, esiste.