C apitare su Vimeo – lo YouTube dei cinefili – oggi equivale ad addentrarsi in un safari di video-saggi sul cinema che ti osservano placidi, acquattati come leonesse, nell’attesa di ricevere quel clic in più, quella visualizzazione decisiva.
I video-saggi sono centinaia, e si moltiplicano di giorno in giorno. Si intitolano “L’uso delle righe in Ingmar Bergman.” Si intitolano “L’impatto emotivo degli specchi nel cinema contemporaneo.” Si intitolano “Tutti i morti dei film di Tarantino”. Li hanno visualizzati in due, in novanta, in settecentomila. Ma cosa sono i video-saggi, e a cosa servono?
Il genere internettiano del video-saggio non è una novità, ma è negli ultimi tre anni che ha avuto una vera e propria esplosione. Si tratta di video brevi, spesso didattici, ad alto potenziale virale, che mettono in luce uno o più aspetti del fare cinema, che siano la poetica di un regista, le scelte pratiche di un direttore della fotografia, l’uso del montaggio in un film.
A una prima occhiata, potrebbero apparire come video specialistici, fatti per gli amatori e per gli addetti ai lavori. La verità è che i casi di successo raggiungono numeri sorprendenti di spettatori. Questo perché i video-saggi, quelli ben riusciti, parlano un linguaggio comprensibile. Con la loro durata (in media 5 minuti), non pretendono certo di intavolare discorsi esaustivi, ma tendono la mano a chi, al discorso, non stava neanche pensando.
Nel video qui sopra, Kevin B. Lee – l’uomo dalle cinquecentomila visualizzazioni, il Jay Gatsby del mondo del video-saggio – si interroga sull’accessibilità del mezzo, e su quanto questo sia diverso dal saggio accademico. Il linguaggio dell’accademia ha una presa molto limitata sul grande pubblico, simile com’è a quello che George Carlin definiva il linguaggio dei politici (“Quando risponderà alla mia iniziativa, esaminerò il suo responso, prenderò una posizione e raccomanderò una proposta.”)
I video-saggi non superano soltanto l’ostacolo del linguaggio astruso. Oltre a utilizzare poche parole, funzionano perché si servono di esempi pratici espressi nello stesso linguaggio visivo di cui stanno discutendo: usano il cinema (non le parole) per parlare del cinema. Inevitabilmente, ci permettono di pensare al cinema in una maniera più immediata di quanto lo farebbe un saggio scritto che cita esempi a piè di pagina.
A cavallo tra documentario e astrazione artistica, l’arte del saggio “per immagini” è una faccenda vecchia quasi quanto il cinema. Vi si sono cimentati in tutte le epoche i più illustri pensatori del cinema, da Dziga Vertov, a Chris Marker, a Orson Welles, che con un saggio sul tema della contraffazione – F come falso – ha concluso la sua carriera cinematografica. Il dadaista tedesco Hans Richter, creatore del primo film astratto, descriveva il “film-saggio” come una forma che “permette di trasgredire le regole e i parametri della pratica documentaristica tradizionale, garantendo campo libero all’immaginazione e alle sue potenzialità artistiche.”
In sintesi, il genere garantiva una libertà artistica estrema nel piegare la forma a una propria tesi, qualsiasi essa fosse. Da questi esempi di film-saggio, il loro corrispondente Internet ha preso uno spunto molto importante: la forma è libera. C’è chi didatticamente dimostra la propria tesi con l’accostamento di immagini e parole; c’è chi, con un approccio più astratto e meno interpretativo, lascia che sia il montaggio di più immagini a fornire il discorso completo. È per questa ragione che nella stessa categoria vanno a finire riflessioni semi-astratte su Mad Max e il già citato listone sulle morti in Tarantino.
Il fatto che non ci sia una vera distinzione tra cosa sia un video-saggio e cosa non lo sia, va da sé, ha i suoi lati negativi. In primis: in un mondo che visualizza quattro miliardi di video al giorno, come facciamo a selezionare i video che possono insegnarci qualcosa? Di quali video-saggisti dobbiamo imparare a fidarci?
L’abilità dei migliori della classe non è passata a lungo inosservata: alcuni autori di video-saggi sono stati trasformati nelle star del loro campo. Il sopracitato Kevin B. Lee è stato uno dei fondatori del “Netflix d’essai” Fandor, ed è stato preso sotto l’ala protettiva del British Film Institute; destino, quest’ultimo, condiviso dal suo riflessivo collega Kogonada (qui un suo excursus sul neorealismo).
Uno degli ultimi “cani sciolti” che siano anche star del video-saggio è Tony Zhou, che non lavora per terze parti, ma soltanto per il suo canale, Every Frame a Painting. Zhou è un montatore, e la sua professione è percepibile nell’approccio profondamente pratico che impiega in ogni video.
Perché la maggior parte dei film comici standard USA non fanno ridere, si chiedeva Zhou nel 2014? Perché le loro battute si basano solamente sul dialogo, su una noiosissima alternanza di campo e controcampo tra persone che dicono cose buffe, un sistema che ci farebbe più ridere a teatro, dove la parola è centrale. Edgar Wright, maestro inglese della comicità visiva, è l’esempio perfetto di un umorismo costruito a partire da montaggio, luci, e sonoro, non sempre e solo dall’uso della parola.
Wright combina elementi costitutivi del cinema e li rende consapevolmente visibili per ottenere un effetto umoristico. E quando, invece, certi elementi di un film sono invisibili? RocketJump Film School smonta il mito degli snob che si lamentano di quanto il cinema moderno faccia schifo “perché è fatto tutto al computer”. Quelli che si stava meglio quando si stava peggio.
Il problema non sono gli effetti digitali, il problema è che gli effetti digitali di cui ci accorgiamo sono quelli realizzati male. I film moderni sono disseminati di computergrafica che non siamo in grado di percepire, eppure di quella non ci lamentiamo.
Il marchio della buona riuscita di un film è l’invisibilità di ogni suo componente: se ci accorgiamo che i dialoghi di un film hanno un suono strano, che gli attori recitano male, che le luci rendono un ambiente irrealistico quando dovrebbe essere realistico, è come quando, negli anni ottanta, un microfono entrava per errore nell’inquadratura: l’illusione si spezza. Abituiamoci, quindi, ad accettare gli effetti digitali come una componente di un film, allo stesso modo in cui, novant’anni fa, abbiamo imparato ad accettare il sonoro.
Non è necessario usare parole per esprimere la propria tesi in un video-saggio: in poco meno di diciassette minuti, un video straordinario ricostruisce l’intera trama di Una nuova speranza senza servirsi di un solo fotogramma di Guerre stellari: il remake avviene combinando insieme spezzoni di film che avevano influenzato il George Lucas pre-Star Wars e film che, a loro volta, hanno subìto l’influenza del George Lucas post-Star Wars. A testimoniare che il tempo è un cerchio piatto, e che quando George Lucas, nell’ordire la trama del suo melodramma fantascientifico, rubava a destra e manca dai romanzi di Burroughs, da Flash Gordon, e dai film di Kurosawa, lo faceva soltanto in nome della continuazione della specie (la sua specie: il cinema).
Il video-saggio può anche farsi meno tecnico e volgersi al significato delle cose. Can Life Be Understood? analizza la migliore opera dei fratelli Coen, A Serious Man, per scoprire che la sua struttura rispecchia il messaggio recondito che il film vuole trasmettere.
Il quesito di partenza è: c’è un sistema efficace che ci aiuti a interpretare il significato delle nostre sofferenze nella vita? La risposta che i Coen hanno sempre dato, nel corso di tutta la loro filmografia, è “Ehhh, insomma…”
Ma, se non potremo mai raggiungere il vero significato delle cose, e se tutto quello che facciamo è una nostra interpretazione, un’illusione di significato, allora il film stesso, anzi!, qualsiasi film, è soltanto interpretazione. Alla luce di questa rivelazione, A Serious Man non ha intenzione di offrire una risposta alla domanda che ci ponevamo all’inizio: un film, una storia, non può darci alcuna risposta che non sia inefficace interpretazione.
Possiamo comprendere davvero la vita? Per chi abbia avuto la pazienza di guardare i video riportati qui sopra, un filo conduttore apparirà evidente: le voci protagoniste appartengono prevalentemente a uomini della stessa età, con la stessa identica inflessione. Per via di questa caratteristica, e per il proliferare di video che sembrano tutti avere la stessa voce ma che non hanno niente da dire, sono sempre di più gli autori che parodiano questo stile.
Se il sito satirico Clickhole bruciava le tappe con la presa in giro delle teorie del complotto su Shining (dove l’anagramma di ‘redrum’ è ‘mr. Rude’, perché Jack Nicholson sta diventando un po’ scorbutico), il vero autore di capolavori della parodia è “Cameron Carpenter” di WHY IS CINEMA?, un canale tanto poco conosciuto almeno quanto è preso d’assalto da commentatori che rilasciano le proprie frustrazioni personali in una serie di “non capisci nienteeeee”.
Cameron, serafico, continua imperterrito con la sua inflessione mono-tono da “maschio semi-insicuro che, però, spiega le cose”. Il suo fiore all’occhiello, pubblicato lo scorso maggio, si apre con questa frase: Registe donna: come possiamo aspettarci che sappiano fare film, quando non sono capaci di trasportare l’attrezzatura, o di scrivere qualcosa che non sia Twilight. Fortunatamente, Hollywood ha trovato una soluzione al problema, riuscendo a tenerle lontane dall’industria cinematografica, a parte quando devono recitare in ruoli in cui fanno sesso con Sylvester Stallone e poi muoiono.
Il video non è soltanto il più conciso racconto dei pregiudizi di Hollywood e del vortice di ineguaglianze uomini/donne nel cinema: mostra anche una serie di spezzoni da film che vi eravate scordati fossero stati diretti da donne.