S e c’è una questione musicologica noiosa, la vexata quaestio che meriterebbe di essere lasciata indefinitamente riposare, è il valore delle opere giovanili di Verdi, che grosso modo sono tutte quelle precedenti la cosiddetta trilogia popolare, composta da Rigoletto, Il trovatore e La traviata. Il dibattito sull’argomento non è mai riuscito a sollevarsi da un atroce cavillare melomaniaco in cui denigratori e sostenitori in fin dei conti non fanno che esprimere le loro idiosincrasie dove, a giorni alterni, si può tranquillamente concordare con gli uni o con gli altri, secondo l’umore. Il gusto della riscoperta dei lavori “minori”, delle opere che fecero fiasco o che, dopo un primo successo, caddero nell’oblio, dà ai contemporanei un piacere speciale, quello di atteggiarsi a veggenti in mezzo ai ciechi, tanto quelli del passato quanto quelli, che non avrebbero diritto ad alcuna giustificazione per il loro gusto reazionario, del presente.
Quindi, queste note su Giovanna d’Arco, opera indubbiamente giovanile di Verdi (la prima si ebbe nel febbraio del 1845 alla Scala, il compositore aveva trentun anni e la buttò giù in meno di un mese, strumentandola poi già a ridosso della prima rappresentazione), che ha aperto, anzi, “pre-aperto” come si legge sul sito del Costanzi, essendo la vera e propria apertura affidata a una prima assoluta, il Julius Caesar di Giorgio Battistelli, la stagione del Teatro dell’Opera di Roma, chiedono di essere lette mettendo tra parentesi, se non proprio dispregiando, tutto quanto si è detto e si dirà circa “le opere giovanili di Verdi”. Si faccia pure conto che Giuseppe Verdi abbia scritto una sola opera, Giovanna d’Arco, e si lasci da parte quanto essa anticipi i futuri capolavori, quanto invece sia debitrice di formule donizettiane (o rossiniane, di cui però ci pare ci sia poco o nulla) dalle quali poi il musicista si emanciperà. Il che non significa sottrarsi a una domanda molto semplice: Giovanna d’Arco è bella? È forse bella solo in alcune, poche parti, come giudicava Massimo Mila, che salvava la sinfonia e il terzo atto e deprecava i duetti e i concertati del tutto convenzionali? Oppure è “non proprio bellissima” come afferma Elvio Giudici nel suo L’opera in cd e video, e, accanto a “pagine splendide” come “l’apertura melodica” di “È puro l’aere, limpido il ciel”, ammannisce “cori, quasi sempre singolarmente brutti”? Alla domanda, per quanto legittima, si risponde, sia pure inconsciamente come hanno fatto Mila e Giudici, avendo a mente ciò che Verdi conseguirà dopo, e dunque viene fatalmente inglobata dal problema che ci eravamo preoccupati di eludere, quello del valore del Verdi giovanile. Ma poi, era così giovane un uomo che, pur capace di serbare un’eccezionale energia creativa fino alla vecchiaia, alla metà dell’Ottocento aveva trentuno anni? Giovane, nel senso di ancora acerbo, forse sì quanto alla perizia tecnica, alla scaltra conoscenza dei meccanismi drammaturgici che governano il consenso del pubblico, e soprattutto quanto alla capacità di esprimere adeguatamente la propria originale personalità artistica. Tuttavia, come tenterò di dimostrare, tale personalità, nel Verdi “giovanile” quale si manifesta in Giovanna d’Arco, era già formata e adulta. Di acerbo, di embrionale, nell’idea e nell’intuizione portante della Giovanna d’Arco, non c’è nulla, al contrario, non sono meno evidenti del tema della gelosia e della rivalità in Otello, o della hybris in Macbeth; ma di più difficile decifrazione perché dietro lo specchio opaco di un sogno, di cui occorre fornire l’interpretazione.
Qual è questa idea, questa intuizione portante? È la follia, l’irrazionale, il delirio; quello che oggi nominiamo disturbo della personalità. Difficile immaginare, in tutto il teatro d’opera, un personaggio non mistico, come si ripete, ma disturbato quanto Giovanna. Nemmeno la Kundry del Parsifal – lei sì, mistica e santa, così visibilmente modellata su Maria Maddalena –, e tantomeno Elektra nell’omonima opera di Strauss, raggiungono i picchi di Giovanna nelle sue crisi. La pulzella d’Orléans verdiana non godrà né della redenzione della prima, né si tufferà voluttuosamente nel sangue della vendetta come la seconda. E, come oggi sappiamo bene, non essendo mai il disturbo di personalità un fenomeno soltanto individuale, ma per così dire addentellato a altri soggetti, o perfino implicato in vasti contesti con un singolare, e poco studiato, potenziale di contagio, il disturbo di Giovanna è inestricabilmente determinato e dipendente da quello di un altro personaggio principale dell’opera, che nella sua caratterizzazione non ha alcun fondamento storico essendo una integrale invenzione di Verdi e del suo librettista Temistocle Solera, ossia – e la rivelazione appare quasi smaccatamente provocatoria, da un punto di vista psicoanalitico – suo padre, Giacomo, che è un pastore. A questo punto non è esagerato scomodare Freud, non quello per così dire già assimilato dalla massa mediamente informata, e può darsi anche assuefatta, al complesso d’Edipo, ma più appropriatamente quello filosofico-antropologico del primo capitolo del Disagio della civiltà, dove il padre della psicoanalisi risponde a Romain Rolland a proposito di un asserito, da Rolland, “sentimento oceanico”, fonte e origine del bisogno religioso e, in ultima istanza, della fede in Dio. “Se in tal modo siamo assolutamente pronti a riconoscere che un sentimento ‘oceanico’ esiste in molte persone, e propendiamo a ricondurlo a una prima fase del sentimento dell’Io”, scrive Freud, “resta da chiederci quale diritto abbia questo sentimento a venire considerato la fonte dei bisogni religiosi”. Prima di proseguire con la citazione, è opportuno chiarire al lettore che, se c’è un sentimento di cui Giovanna, la vergine figlia del pastore devota a Maria madre di Dio, è pervasa dal principio alla fine dell’opera, con le sue voci, le sue visioni, che nella rappresentazione romana sono suggestivamente mostrate da una sorta di oblò in cui le proiezioni video elaborate da D-wok ci lasciano vedere ciò che l’occhio mistico – e appannato, a volte lacrimevole – di Giovanna vede, è proprio questo “sentimento oceanico”. La divinazione di Giovanna è tutt’uno con la sua fede, col suo sentimento oceanico, è la manifestazione e il suggello della sua unio mystica, nonché il suo dono mortale.
Tutto quello che Giovanna ode, vede, e fa, nell’opera di Verdi, non è ‘visione’, ‘visitazione angelica’, ma delirio già distillato dalla mente malata del genitore.
Ma prima di approfondire questa unione mistica, torniamo alle parole subito successive al passo citato: “Questa pretesa [quella del ‘sentimento oceanico’ di essere fondamento della religione] non mi sembra convincente. Un sentimento può essere fonte di energia solo se, in quanto tale, è l’espressione di un forte bisogno. Quanto ai bisogni religiosi, la loro derivazione dall’impotenza infantile e della conseguente nostalgia del padre mi sembra incontrovertibile […] Non saprei indicare un bisogno infantile di intensità pari al bisogno che i bambini hanno di essere protetti dal padre”. Non è dunque, scrive quasi con brutalità Freud, il “sentimento oceanico” a far nascere il bisogno di Dio, bensì “l’impotenza infantile”, e solo “in un secondo tempo” il sentimento oceanico entra in relazione con la religione, quasi, verrebbe da dire, per cancellare le tracce del colpevole. E così, per Giovanna, solo “in un secondo tempo” lei crede di essere la “pulzella d’Orléans”, incaricata dagli spiriti angelici di sconfiggere l’invasore inglese, i quali la ammoniscono che riuscirà nel suo intento soltanto se non si concederà all’amore carnale che, invece, in sogno, le stimolano i bassi spiriti diabolici. L’aspetto politico, patriottico o patriottardo dell’opera assume un significato soltanto se lo si vede come il rivestimento, l’involucro di un bisogno – di un’impotenza infantile – più originaria e radicale, che è quello che porta Giovanna, in ogni istante dell’opera, a “tornare all’ovile” (che non è solo un modo di dire, essendo il padre un pastore), distaccandosi dall’amore del re Carlo, sentimento anch’esso del tutto immaginario rispetto al dato storico e che, naturalmente, con stupenda finezza psicologica, viene ipocritamente millantato come puramente spirituale (le astuzie dell’amore platonico hanno lunga tradizione nell’arte occidentale; il professato amore spirituale, del resto, contrasta clamorosamente con l’afflato passionale delle arie di Carlo, mentre, nel Pélleas et Mélisande di Debussy, le effusioni diafane dell’eroe possono benissimo farci credere che non si spingerà oltre la penosa soglia di allumeuse maschile) e tale bisogno/dipendenza nemmeno la autorizza a intraprendere la sua missione bellica – cioè di scegliere la propria vita – senza la benedizione paterna. Tutto quello che Giovanna ode, vede, e fa, nell’opera di Verdi, non è “visione”, “visitazione angelica”, ma delirio già distillato dalla mente malata del genitore (e in alcune didascalie del libretto, lo stato di sconnessione mentale di Giacomo, padre di Giovanna, è indicato esplicitamente) e da lui travasato in Giovanna, letteralmente trapiantato in lei, anche con il meccanismo del double bind, il doppio legame di cui parla Gregory Bateson, per cui ogni comunicazione tra genitore e figlio passa attraverso una doppia trasmissione parallela, in cui in un canale scorre un’energia positiva, nell’altro negativa, soltanto che entrambe affluiscono allo stesso tempo, creando un continuo stato di “sicurezza insicura” o “incertezza salda” in entrambi i soggetti (ma più marcatamente nel soggetto debole, il figlio), che è la condizione simultanea e contraddittoria di esaltazione estatica da eletta, e angusta disperazione da esclusa, in cui Giovanna si dimena nei tre atti dell’opera, trovando come unica possibile risoluzione del conflitto un suicidio mascherato: la morte in battaglia, finalmente intrapresa con l’autorizzazione paterna. Il doppio legame si semplifica solo quando provoca la morte di uno dei due poli.
L’aspetto più pregnante, e terrificante, del dramma verdiano, è che l’amore tra il padre e Giovanna, represso dal tabù incestuoso, deve fatalmente tradursi, e camuffarsi, in un mistico “sentimento oceanico”, in una prova suprema, oltrepassante, che, se compensa l’impedimento sessuale con una svolta storica-politica paragonabile a quella dell’Avvento cristiano, allo stesso modo convoglia tutte le energie morali e fisiche della “pulzella” fino al loro completo esaurimento. Ella non muore per la gloria della Francia o del re Carlo (che, essendo un uomo e non un simbolo, tanto più alla luce della sua iniziale rinuncia alla dignità regale, non può essere nemmeno accostato alla vergine Giovanna); in effetti, non è la gloria qui in gioco, ma il desiderio, il possesso, il controllo assoluti e indefettibili, dissimulati dalle allucinazioni angeliche o demoniache (Giovanna, come non è raro nella schizofrenia, intrattiene un doppio legame anche con i reami ultraterreni), esercitati dal padre di Giovanna. La trasfigurazione in cielo dell’eroina con cui si chiude l’opera, la liquida in quel sentimento oceanico che, di nuovo, altri non è che il suo carceriere, il limitato, ottuso pastore di Domrémy (ben più angusto di un oceano, ma proprio per questo illimitatamente spregiudicato, al punto di arrivare, a metà dell’opera, a consegnarla quale strega, perché disubbidiente, agli Inglesi: risolvano loro il suo problema genitoriale), il quale non ha altra ragione di vita se non la figlia, Giovanna d’Arco. A questa ragione di vita il padre potrebbe rinunciare non certo lasciandole la sua libertà, perché non c’è libertà in un doppio legame, solo stritolamento o abbandono, ma negando se stesso; cosa che supera le sue forze e, fin dal principio, opera perché Giovanna, che è dunque anche il suo tormento, si sacrifichi.
Ella non muore per la gloria della Francia o del re Carlo; in effetti, non è la gloria qui in gioco, ma il desiderio, il possesso, il controllo assoluti e indefettibili, dissimulati dalle allucinazioni angeliche o demoniache, esercitati dal padre di Giovanna.
Non sembri corrivo ora chiedersi: quanto di attuale c’è in questa trama di rapporti psicologici tra i personaggi dell’opera? Personalmente, pur avversando la moda di rinvenire spunti di attualità da questa o quella produzione artistica del passato, pratica nefanda che non fa che travisarli, non ho potuto fare a meno di accorgermi che il rapporto tra Giovanna e il padre è molto più che attuale, è di una profondità psicologica ancora oggi incandescente. La misura della sua attualità sta nel dolore che tale ardore tragico ridesta nello spettatore (non siamo molto abituati, ormai, a comprendere che l’arte deve far soffrire, e che la catarsi non è solo commuoversi o piangere, come è d’uso pensare oggi, ma rivivere anche a ciglio asciutto, nel profondo del proprio spirito e senza il comodo scarico della lacrima, passioni tragiche, quasi intollerabili: Verdi, che è stato un grande tragediografo, e il cui modello era Shakespeare, lo sapeva benissimo, anche suo malgrado). L’abilità manipolatoria con cui il padre circuisce Giovanna e le costruisce tutt’attorno una realtà illusoria in cui le voci, le visioni, i sogni (che non sono le sue, né quelle di creature angeliche, ma i suoi, ed è caratteristico del loro delirio non saperne distinguere la, appunto, paternità) edifica alte, invalicabili mura che, limitando inflessibilmente la sua libertà, la indirizzano esattamente là dove il genitore vuole, ossia la prolungata infantilizzazione (e dunque il continuo stato di dipendenza) della figlia, stato morboso che infine sfocia in una morte solo apparentemente liberamente scelta (nell’opera, il famoso rogo non c’è, perché scaricherebbe il padre delle sue colpe e, paradossalmente, assegnerebbe a Giovanna un ruolo di strega che la risarcirebbe della sua ubbidiente sottomissione al Padre-Dio).
Ora, tutto quello che si può ancora aggiungere, è che padri come quelli di Giovanna d’Arco esistevano nel 1845 e ancora circolano tra noi, benché non pratichino più la pastorizia e abbiano altri modi di riportare quotidianamente le figlie indocili all’ovile, essendosi fatti molto più istruiti e potenti, e dominanti, e sottilmente disturbati. Lo straziante desiderio di libertà di Giovanna non è quello dall’oppressore inglese, ma dalla freudiana “impotenza dell’infanzia”. L’impotenza della verginità viene convertita, a beneficio del genitore ossessionato e sciaguratamente vuoto di tutto fuorché della indiscussa fedeltà e dipendenza della figlia, in “sentimento oceanico” e in amore trascendente. Giovanna d’Arco di Verdi non è un dramma politico, “quarantottesco”, e nemmeno prettamente mistico, ma un perspicuo, sotto il velame della leggenda storica, caso psichiatrico o, meglio ancora, una frequente esperienza di amore umano tra consanguinei, che non è mai del tutto priva di connotazioni psicopatologiche. Scrive Georg Büchner nella Morte di Danton: “ognuno di noi è pazzo, il problema sorge quando vogliamo imporre la nostra pazzia agli altri”. Sembra che tale imposizione, se non più frequente, abbia comunque origine nell’ambito familiare. Il “sentimento oceanico” è solo un poetico schermo a queste espansioni territoriali della follia, e le sue vittime chiudono le palpebre felici, trasfigurate dalla forza terribile di un simbolo, come quello che campeggia, sghembo, distorto, sul sipario della Giovanna d’Arco andata in scena all’Opera di Roma. Ciò che più va temuto di un legame non sono i suoi principi o le sue istanze morali, senza dei quali un legame nemmeno si potrebbe dire seriamente instaurato, ma il suo irrigidimento in un delirio in cui ciascuno crede di sentire la voce dell’altro, ascoltando, invece, solo le proprie false certezze.