N el saggio La mappa della città e il suo ritratto. Proposte di ricerca, Louis Marin delinea le potenzialità espressive delle mappe, proponendosi di “decostruire la rappresentazione della città nella sua cartografia”. Una mappa, scrive Marin, è un testo nella misura in cui si costituisce come discorso intorno alla città – che ne è l’oggetto transitivo – e nella misura in cui si mostra in quanto tale, autopresentandosi come rappresentazione di un luogo: è, quest’ultimo, il suo piano enunciazionale, che Marin definisce intransitivo e riflessivo. La mappa, in sostanza, come ogni testo, non soltanto è un enunciato, un discorso intorno a un oggetto, ma enuncia la propria enunciazione di quel discorso, si autopresenta come rappresentazione della città. È un “disegno”, inteso come riproduzione grafica e, allo stesso tempo, come “progetto”, “fine”: la cartina di una città la inquadra in una politica urbanistica, traccia itinerari ideali di percorrenza, individua un viandante modello. È per questo che della città rappresenta il ritratto, il “pro-trait”:
In “portrait”, il tratto, la linea tracciata, rinvia alla traccia, alle vestigia, al resto o alla “rovina”, ma anche al “dessin” che è un “dessein” e, in fin dei conti, al pro-getto: questo “dessin-dessein” costituirebbe la struttura stessa del progetto come azione orientata, significante, intenzionalità, ossia, in breve, la struttura dell’enunciazione. Il ritratto, la pianta della città, conterrebbe così, simultaneamente, la traccia di un passato che permane e la struttura di un futuro da realizzare.
Anthropogenic Herbarium è il titolo di una serie di tavole dell’artista Eugenio Tibaldi, incluso nel più ampio progetto Anthropogenic Connection. Relationship between anthropic and natural invasion, sviluppato tra il 2019 e il 2020 in collaborazione con il Museo Zoma e l’Istituto italiano di Cultura di Addis Abeba. Le tavole, realizzate in studio, simulano l’estetica di un diario o erbario di viaggio: alle mappe dei quartieri di Addis Abeba si sovrappongono, ricalcandone le diramazioni, tavole naturalistiche corredate da cartigli e illustrazioni di contorno. Le opere della serie delineano, per usare un’espressione di Marin, “un’utopica” della città, suggeriscono l’inedita possibilità di coesistenza tra umano e non umano, lo sviluppo rizomatico dello spazio urbano e la vitalità delle aree periferiche, privandole del loro statuto di marginalità.
Se, come nel caso delle tavole di Tibaldi, l’immagine è una mappa, lo spettatore configurato sarà un viandante, la prospettiva di osservazione un itinerario di percorrenza.
Queste suggestioni si rivelano se, di queste tavole, teniamo presente il piano enunciazionale. Le opere di Anthropogenic Herbarium, infatti, ancora prima che mappe sono immagini e – in quanto tali – si avvalgono di strategie espressive specifiche, sono disseminate di marche enunciazionali nascoste. Sono, queste ultime, tracce dell’atto individuale di produzione dell’enunciato-immagine, che prendono il posto dell’enunciatore e dell’enunciatario “e che offrono all’interprete in carne e ossa dei modelli possibili di percorsi di lettura” (Maria Giulia Dondero, I linguaggi dell’immagine, 2020). Affiancando all’analisi plastica e figurativa quella enunciazionale è possibile, in sostanza, domandarsi come un’immagine configuri il suo spettatore, instaurando con lo stesso un dialogo fatto di argomentazioni, negazioni, svelamenti e ostruzioni che costruiscono un punto di osservazione, dispiegando possibili percorsi interpretativi (Dondero 2020). E se, come nel caso delle tavole di Tibaldi, l’immagine è una mappa, lo spettatore configurato sarà un viandante, la prospettiva di osservazione un itinerario di percorrenza: un ideale di città prende forma.
Eugenio Tibaldi ha più volte indagato, nel suo percorso artistico, le dinamiche urbane delle aree periferiche, la contaminazione tra economia e paesaggio. Le tavole di Anthropogenic Herbarium, assieme all’installazione permanente site specific Anthropogenic – Bridge, sono il frutto di un periodo di residenza nella capitale etiope e riassumono i risultati dell’indagine sociale e antropologica condotta dall’artista sul territorio. Tutte le tavole del progetto sono realizzate con tecnica mista su carta, combinando stampe – delle mappe e di alcune raffigurazioni aggiuntive – ad acquerello e inchiostro, con cui sono rese le raffigurazioni naturalistiche, i cartigli esplicativi e la cornice, consistente in una doppia linea, di colore e inchiostro, corredata in alto dal nome della pianta raffigurata e circondata da un’ulteriore cornice di occhielli in metallo. Per una maggiore efficienza dell’analisi, terremo conto di una sola delle tavole della serie: Sterlitzia Reginae, che sovrappone alla mappa una raffigurazione dell’uccello del paradiso, pianta originaria del Sud Africa.
Sterlitzia Reginae è occupata per i due terzi inferiori dalla mappa in bianco e nero che, come segnala un piccolo cartiglio a destra, è un’immagine satellitare di Google Earth del 2020; ad essa si sovrappone in trasparenza la raffigurazione colorata della pianta, con le sue larghe foglie disposte a raggiera; in basso un sottile cartiglio, che recita
The infrastructure cannot exempt itself from a relationship with the aesthetics. And it is in its fragility of the unfinished that it manages to challenge time and space in new possible instances of adaptation.
La fascia superiore è organizzata in tre aree: in un riquadro a sinistra quella che sembra la rappresentazione di un dettaglio della mappa, contorni di strade riempiti da raffigurazioni del fiore di sterlitzia; a destra, sempre in un riquadro, l’immagine in bianco e nero di un edificio mai concluso, con le impalcature in primo piano; al centro, sotto la scritta “Sterlitzia Reginae”, un terzo cartiglio di dimensioni maggiori, con scritto
La Sterlitzia reginae, comunemente nota come fiore della gru o uccello del paradiso, è una pianta da fiore originaria del Sudafrica. Questa pianta sempreverde è ampiamente coltivata per i suoi fiori spettacolari. La guaina dura a forma di becco da cui emerge il fiore è la spata. Questa è disposta perpendicolarmente allo stelo, il che le conferisce l’aspetto di una testa e becco d’uccello. Due dei petali blu o bianchi sono uniti tra loro. Quando gli uccelli nettarinidi si posano per succhiare il nettare, i petali si aprono per ricoprire le loro zampe di polline (traduzione mia).
La superficie della tavola non presenta asperità di sorta, eccettuando gli occhielli di contorno e i bordi del foglio, che appaiono strappati.
Proprio a cominciare dalla cornice, l’opera di Tibaldi sembra voler alludere ad una categoria d’oggetti determinata: quella dei diari e degli erbari di viaggio, delle collezioni di note e fotografie, ricordi di esplorazioni. Come osserva Gianfranco Marrone, la cornice “è il segno più evidente che qualcuno, prima ancora di cominciare a dipingere, ha delimitato lo spazio del dipinto stesso”, e si costituisce come dispositivo mediante il quale l’immagine “dà in un certo senso le istruzioni per l’uso della sua stessa visione” (Marrone, Il lungomare: una striscia di prato e alcuni birilli, 2013, in Dallo spazio alla città: letture e fondamenti di semiotica urbana, 2020). Le tavole di Tibaldi, con i bordi strappati e la cornice di occhielli, si richiamano l’un l’altra come pagine di un album, come frammenti estratti da un diario. Dalla mappa all’illustrazione naturalistica, passando per l’ancoraggio fornito dalle brevi porzioni di testo, l’opera si presenta come il resoconto di un viaggio: i cartigli gialli, come etichette, riportano descrizioni della specie botanica in questione, riferimenti generali e quella che sembra essere una riflessione personale. La disposizione della mappa, dei cartigli e dei riquadri nella fascia superiore della tavola dà l’impressione che si tratti di figure incollate su un foglio, di immagini ritagliate e raccolte in un album.
“Sterlitzia Reginae” intitola la tavola/pagina: in corrispondenza della scritta, la cornice disegnata si interrompe, raccogliendosi attorno al nome della pianta con delle rifiniture in inchiostro nero. Questo dettaglio, assieme alla descrizione della pianta e alle illustrazioni della stessa, avvicina l’opera al capitolo di un libro di botanica, alla pagina di un erbario: l’opera d’arte, così, allude ad uno statuto diverso, quello dell’immagine scientifica. A corroborare l’ipotesi, anche le due illustrazioni minori, ai lati del cartiglio centrale: entrambe sembrano essere ingrandimenti, focus su dettagli che nella mappa principale sarebbero invisibili. Quella a sinistra raffigura il perimetro delle strade, eppure ricorda allo stesso tempo le nervature di una foglia o le ramificazioni del fusto; l’immagine a destra, invece, è la fotografia di un edificio presumibilmente presente nel quartiere raffigurato dalla mappa. Ingrandimenti come questi corrispondono, nelle immagini a statuto scientifico, ai dispositivi metapittorici in ambito artistico: consentono la focalizzazione della visione su un dettaglio, la moltiplicazione delle prospettive, sono aperture “su una nuova scena, su un processo nel processo” e proiettano lo sguardo “verso l’interno dell’oggetto” (Dondero).
Nella tavola di Tibaldi, le due finestre tengono insieme quest’effetto di zoom – proprio alle immagini scientifiche e specialmente a quelle di ambito biologico – alla più generale funzione delle finestre nelle raffigurazioni artistiche: focalizzano l’interno dell’oggetto-mappa, proiettando lo sguardo sulla città; sono dispositivi che, in sostanza, rispondono alle istanze “della proiezione, dell’esplorazione, dell’oltrepassare e dell’anticipazione” (Dondero). Il perimetro delle strade a sinistra e l’edificio in costruzione a destra, così, moltiplicano la visione di Addis Abeba già offerta dall’immagine satellitare, lasciando intendere che la totalità della città non aspira ad essere esaurita dalla sua mappa, ma che si presta ad inedite revisioni, allo sguardo di chi ci cammina attraverso. Proprio a proposito di questa inesauribilità del rappresentato, dell’oggetto ideale delle immagini scientifiche, Dondero scrive che
Tale totalità è d’altronde trascendentale, mai materializzata in un oggetto unico. Nel caso delle immagini così come in musica, non c’è mai coincidenza tra l’oggetto (visivo o sonoro) e l’oggetto teorico trascendente che costituisce la sua identità […]. L’oggetto teorico trascendente è costituito da una molteplicità di esecuzioni; quanto alle immagini scientifiche, esse sono dei prodotti della manipolazione e della sperimentazione, pronte a essere ripetute, verificate da altri ricercatori ed eventualmente invalidate. […] è per questa ragione che le immagini che testano un oggetto di ricerca al fine di stabilizzarlo in un oggetto conosciuto sono da intendersi precisamente come dei terreni di sperimentazione strettamente controllati.
L’oggetto-città suggerito da Sterlitzia Reginae si costituisce, in sostanza, attraverso una molteplicità di percorsi possibili, di accostamenti e sperimentazioni. È l’utopica di una città in via di definizione, che si presta alle ripetute “esecuzioni” dei suoi viandanti. Non è un caso che l’edificio in foto sia incompleto, quasi del tutto oscurato dallo scheletro frastagliato delle impalcature; come recita il cartiglio in basso a proposito delle infrastrutture, dopotutto, “it is in its fragility of the unfinished that it manages to challenge time and space in new possible instances of adaptation” (Eugenio Tibaldi, Sterlitzia Reginae, 2020). È precisamente in questa incompletezza che risiede la possibilità di sperimentazione, in uno sguardo dall’alto, come quello offerto da una mappa satellitare, che non domina né esaurisce, anzi invita all’approfondimento, alla creatività.
L’illustrazione dell’uccello del paradiso si sovrappone alla mappa; come lo sguardo dell’osservatore, sorvola la città. Eppure, le sue foglie sono semi-trasparenti, è possibile guardarvi attraverso: tracciano un percorso di accessibilità. Nella contrattazione del sapere tra enunciatore ed enunciatario di un’immagine, il regime dell’accessibilità è quello che “concerne tutto ciò che si lascia scorgere, intravedere, cioè ogni falla dell’ostacolo che limita il campo visivo” (Dondero). La mappa di Addis Abeba si lascia intravedere attraverso la pianta che la copre, si lascia guardare solo a patto di essere ripensata; chiede all’osservatore una disposizione all’inedito, all’osservazione della città attraverso la lente del non umano, delle foglie verdi della sterlitzia. La si può guardare solo mettendosi in discussione, lasciandosi guidare dalle ramificazioni della pianta, abbandonando il proposito di afferrarne la totalità. Una totalità minata dalla molteplicità di punti di vista offerti dalle finestre, dalle osservazioni iscritte nelle etichette: è una città dall’alto, ma l’invito è a percorrerla seguendo traiettorie orizzontali, rizomatiche come la sterlitizia reginae. È uno sguardo che sorvola Addis Abeba, eppure la prospettiva satellitare è parzialmente negata, si offre solo ad una condizione: che non sia l’unica prospettiva adottata, che l’osservatore sia disposto a farsi viandante, a guardare gli edifici incompleti, ad immaginare le strade come rami, come vasi di linfa. Come scrive Louis Marin, “la veduta topografica è una reificazione del “racconto” […]: è la città quale viene vista (o potrebbe esserlo, o avrebbe potuto esserlo)”. La tavola di Tibaldi, così, nella sua molteplicità di punti di vista si comporta come un racconto, che contempla “lo sguardo di un viaggiatore in movimento che percorre spazi e itinerari, e un’occupazione successiva di punti di vista legati gli uni agli altri da percorsi orientati. (…) In breve, il racconto è una grande sintagmatica a sintassi plurali, un insieme fatto di percorsi, itinerari, tragitti.” (Marin, La mappa della città e il suo ritratto. Proposte di ricerca, in Dallo spazio alla città: letture e fondamenti di semiotica urbana, 2020). Sovrapponendosi in trasparenza alla mappa satellitare, inoltre, la pianta di sterlitzia reginae suggerisce la possibilità di una coesistenza e di una reciproca contaminazione. La raffigurazione della pianta è in primo piano, eppure si lascia attraversare, non impone alla città il proprio predominio: città e pianta sono temporalmente sincroniche, coesistono mescolandosi.
L’“utopica” di Addis Abeba tracciata dall’opera di Eugenio Tibaldi è quella di una città nel suo farsi. Uno spazio aperto alla manipolazione: impone uno sguardo critico, disposto ad adottare posizioni diverse e ad immaginare la città come potrebbe essere. È uno sguardo che si insinua nell’incompletezza delle infrastrutture, nella provvisorietà delle ipotesi, che si arroga il diritto di sperimentare. Sterlitzia Reginae racconta dell’insediamento antropico e di quello non umano che si adattano l’uno all’altro, della pianta che allarga i propri rami lungo le strade di una città e della città che prova ad immaginarsi come una pianta. È un disegno, che invita lo spettatore a trasformarlo in un progetto, indicando una strada di percorrenza possibile.
Immagini per gentile concessione di Museo MADRE, Napoli e Galleria Umberto Di Marino, Napoli.