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northodox è una miniserie Netflix in quattro puntate creata da Anna Winger e Alexa Karolinski, liberamente ispirata al memoir di Deborah Feldman, Ex ortodossa, il rifiuto scandaloso delle mie radici chassidiche. La serie segue Esther “Esty” Shapiro (Shira Hass) nella sua fuga dalla comunità ultra-ortodossa e ultra-repressiva del chassidismo Satmar, a Brooklyn, verso una Berlino libera, aperta e felice, alla ricerca della madre, fuggita anche lei da Brooklyn quando Esty era poco più che una bambina.
La serie, una produzione di Netflix Germania girata in inglese, yiddish e tedesco, racconta, attraverso la contrapposizione di due piani temporali, sia la vita di Esty all’interno della comunità Satmar, il suo matrimonio infelice, le sue particolarissime dinamiche sessuali ed affettive; sia la ricerca di Esty di una forma di stabilità all’interno della vita secolare e vibrante di Berlino, dove trova i primi affetti e una nuova identità all’interno di un’orchestra multietnica in un conservatorio, tutto mentre suo marito, Yanky Shapiro, e suo cugino, Moishe Lefkovich, arrivano a Berlino per trovarla e “riportarla a casa”.
Nel primo episodio, Esty si unisce agli studenti del conservatorio per una gita al lago di Wannsee, a sud di Berlino dove, dall’altro lato del lago, nota la villa della Conferenza di Wannsee, evento politico in cui fu ratificata la “soluzione finale della questione ebraica”. La leggerezza con la quale viene raccontata la storia di quella villa è come una freccia al cuore per Esty, la cui intera realtà e la cui intera comunità è stata, fino a pochi giorni prima, basata interamente sul trauma dell’Olocausto. Esty procede a togliersi la parrucca, ad accarezzare la sua testa rapata, e ad immergersi nel lago, come in un rito di purificazione dal trauma, dal passato, dalla sua identità, mentre i suoi nuovi amici, arabi ed israeliani insieme, giocano e schiamazzano nel lago. È grazie a questo tipo di linguaggio e contrapposizione fiabesca che Unorthodox è riuscita a diventare un successo planetario.
Partita infatti con le stesse ambizioni di qualsiasi miniserie tedesca di Netflix, Unorthodox è stata investita di un successo che ha proiettato la sua piccola, intima storia su un palcoscenico internazionale, destando le attenzioni di stampa e pubblico in tutti gli angoli del pianeta. “Di sicuro non ce l’aspettavamo”, mi ha confessato la co-creatrice, Alexa Karolinski, via Google Meets, mentre preparava una zuppa di matzo balls per Pesach. Documentarista e regista, Alexa ha creato video musicali, corti e fashion video per l’etichetta di moda di New York Eckhaus Latta, oltre che due meravigliosi documentari che indagano la sua identità ebraica, Oma & Bella e Lebenszeichen (Segni di vita). Nei giorni successivi abbiamo parlato diverse volte via Google Meets, tra Milano e Los Angeles, della cultura globale di Netflix, della potenza dei traumi collettivi, dell’identità di Berlino e dell’identità ebraica, e di come sono connesse.
Unorthodox sta ricevendo fantastiche recensioni da tutto il mondo.
È davvero incredibile. La protagonista, Shira Haas, sta ricevendo centinaia di messaggi al giorno da persone di tutto il mondo, interviste per giornali, servizi, ritratti, veramente da ogni dove. Questo è un aspetto di produrre un programma TV con Netflix che avevo sottovalutato; ma quando esce un programma su Netflix esce in 190 paesi contemporaneamente. È incredibile. Detto questo, la mia vita non è cambiata di molto.
Com’è iniziato il progetto?
Ho conosciuto Anna Winger tre anni fa. Ci siamo davvero trovate. Ogni volta che ero a Berlino prendevamo un caffè e facevamo brainstorming. Anna ha realizzato un’incredibile miniserie, Deutschland 83. Avevamo appena iniziato a parlare di idee, Anna voleva realizzare una cosa che aveva vagamente a che fare con il dialogo transatlantico e con temi ebraici globali. Io sono ebrea tedesca e vivo negli Stati Uniti, mentre lei è ebrea americana che vive a Berlino, quindi quei temi erano una parte attiva del nostro dialogo.
Poi siamo anche diventate amiche di Deborah Feldman, l’autrice del libro da cui è tratta Unorthodox. Anche lei vive a Berlino, e manda suo figlio nella stessa scuola superiore americana a cui vanno i figli di Anna e niente, siamo diventate amiche, abbiamo preso tanti caffè, fatto tante chiacchiere. Deborah all’inizio ci ha suggerito di trasformare Unorthodox in qualcosa, ma io e Anna abbiamo sempre declinato. Ma poi, pian piano, il libro si è fatto sempre di più strada nelle nostre conversazioni, finché non abbiamo iniziato a chiederci quale sarebbe stato il modo migliore di adattarlo.
Prima abbiamo accennato agli aspetti globali di Netflix. Avevate mai considerato che la serie potesse avere un pubblico globale?
Per noi è da sempre stato chiaro che la maggioranza del nostro pubblico sarebbe stata negli Stati Uniti. Questo perché sapevamo che la gran parte sarebbe stata di origini ebraiche, e la più grande comunità ebraica del mondo, dopo Israele, si trova negli Stati Uniti. Ma una delle cose più belle di Netflix è che realizzare una serie i cui dialoghi sono per metà in yiddish è, per loro, un’opportunità, quando un emittente tradizionale non ci si sarebbe avvicinata nemmeno. Lavorare con Netflix era l’unico modo per realizzare questa serie in modo autentico. E anche in modo da ottenere una vera diversità sullo schermo. Perché ragionando per minimo comun denominatore, come fanno tutti gli emittenti tradizionali, finisci per escludere, naturalmente, tutte le storie delle minoranze.
Ma Netflix non la pensa così.
La cosa davvero interessante di Netflix, è che, visto che si trovano in così tanti paesi nel mondo, non vedono il loro pubblico come un pubblico specifico per ogni paese, ma come un pubblico globale. E quindi una nicchia locale, se moltiplicata per 190 paesi, diventa una massa.
In fondo, la sensazione di dover fuggire alla propria tradizione oppressiva che raccontate in Unorthodox è un tema globale. Anche se parlate di una particolare interpretazione del giudaismo che è estremamente circoscritta, la dinamica fiabesca della storia è valida in tutto il mondo.
Esatto. E infatti stiamo ricevendo messaggi da tutto il mondo. La quantità di supporto dal mondo musulmano è così scioccante per me, centinaia di persone ci scrivono dicendo quanto si sentono vicini ai temi della serie. È davvero bello che le persone stiano empatizzando e a volte addirittura identificando con la storia e i suoi personaggi. In un certo senso unisce il mondo e lo adoro. La serie è stata sesta in Arabia Saudita. È folle, chi lo avrebbe mai pensato!
Parte di questo successo deve essere anche la curiosità del pubblico, dare “una sbirciata” a com’è la vita all’interno della comunità ultra-ortodossa di Satmar.
Sì. A essere sincera, se avessi saputo che questo sarebbe stato anche in parte il compito della serie, forse avrei fatto le cose in modo diverso. Devo dire che quel pensiero è una grande responsabilità e un po’ mi intimorisce. Perché alla fine vuoi comunque realizzare qualcosa che intrattenga. Non abbiamo fatto un documentario.
Che tipo di responsabilità hai provato a rappresentare quella particolare comunità di chassidismo Satmar di Brooklyn, con quelle particolari tradizioni e regole? Da persona ebrea, quanto è stata diversa questa esperienza dall’esperienza dei documentari che hai realizzato, quando giocavi comunque con il tema della ebraicità, ma parlavi di esperienze personali?
Ci sono molte differenze. Ho creato il documentario su mia nonna e la sua migliore amica, Oma & Bella, un paio di anni fa, quando ero ancora illusa di poter realizzare qualcosa in grado di liberarmi del trauma ereditario che mi ossessiona [ride]. La mia idea originale, che ora mi fa ridere, era di creare Oma & Bella, di elaborare il trauma dell’Olocausto, di raccontare la storia della mia famiglia, e poi di riflesso dei problemi della Germania e dell’identità ebraica. E poi basta, avrei “esorcizzato” il trauma. Com’ero ingenua! Ho finito il film e ho capito che non era per niente risolta, la cosa. Allora ho realizzato un altro documentario sul tema della mia identità ebraica, ancora più personale. Da allora mi sono resa conto che non avrei mai potuto davvero “farla finita” con questa storia. Lavoro su altri progetti e spero che realizzerò molte cose diverse tra di loro, ma questo trauma esisterà dentro di me, per sempre. Ci ho fatto pace e penso di aver messo molto di questo sentimento nella serie. In passato provavo molta più vergogna.
Perché vergogna?
Immagino che il senso di vergogna sia parte del trauma. L’Olocausto è una parte molto rappresentata della storia, nei media e nei libri. Devi avere a che fare con l’attitudine del “ne abbiamo avuto abbastanza”. Posizione con la quale sarei anche tendenzialmente d’accordo. Ma alla fine è parte del mio trauma, di me, della mia vita, e bisogna anche essere onesti.
Mi ci sono voluti anni e crescere un po’ per capire che può essere una cosa positiva. Quando ho realizzato Oma & Bella non me ne ero ancora resa conto. Quando ho fatto un tour di Oma & Bella negli Stati Uniti in vari J.C.C. [Jewish Community Centers], mi ha sorpreso che in molti mi chiedessero com’è stato crescere da ebrea in Germania. Mi è sempre sembrata una domanda difficile, complessa. Evocava sempre sentimenti contrastanti in me. E in un certo senso Unorthodox ha funzionato per me, perché la cultura chassidica Satmar non è la mia cultura. È un mondo che capisco più di una persona non-ebraica, certo, ma comunque non è la mia. E questa distanza mi ha permesso di raccontare una storia senza dover affrontare quelle domande.
Ma spiegami di più dell’interesse verso questa particolare forma di chassidismo.
La cultura chassidica Satmar ha riportato in vita un tipo di ebraismo chassidico estremo, ma l’ha fatto dopo la guerra. Si basa esclusivamente sul trauma dell’Olocausto. In pratica, sostengono che l’Olocausto sia stata una punizione di Dio perché gli ebrei si sono assimilati alle culture europee, hanno parlato le loro lingue e si sono vestiti come loro. Quindi molte delle loro credenze originano proprio dall’Olocausto. Questo è davvero potente, per me. È qualcosa che, a un certo livello, forse un livello esclusivamente emotivo, capisco benissimo. Questo ha reso ancora più interessante l’idea di portare la protagonista, Esty, a Berlino e metterla nell’occhio del ciclone del trauma.
Ho trovato davvero interessante il personaggio della ragazza israeliana, Yael, che sembra essere la più scettica nei confronti di Esti.
Penso sia stato davvero importante per noi dimostrare che la vita ebraica non è monolitica. Volevamo che in questa scuola di musica ci fossero studenti israeliani, e che studenti ebrei e musulmani suonassero insieme, come un mondo fantastico da anteporre al mondo chiuso e repressivo della Brooklyn di Esty. Yael capisce subito che Esty è ultraortodossa e gli altri no, e lo capisce come lo avrei capito subito anche io, a vederla. È come se le dicesse “Ti vedo, so chi sei”.
Mi ha colpito molto il modo in cui la serie sovverte il rapporto tra il vecchio e il nuovo mondo. Stai rappresentando una Brooklyn intollerante e chiusa e una Berlino fantastica, un paradiso di libertà soprattutto per Esty, che viene da una cultura nella quale Berlino è la radice di tutte le intolleranze, del genocidio, dell’Olocausto.
Abbiamo deciso consapevolmente di capovolgere certe cose, ma non direi che abbiamo fatto esattamente come hai detto. L’idea non ha mai riguardato sostituire il multiculturalismo di New York con il multiculturalismo di Berlino. Ciò che abbiamo davvero cercato di “sconvolgere” è stato prendere qualcuno proveniente da una cultura che crede che l’assimilazione sia la causa dell’Olocausto e riportarla nel punto esatto in cui è iniziato l’Olocausto, è così carico di significato. In termini di romanticizzazione di Berlino invece, è davvero interessante perché quando i media tedeschi vogliono criticare lo spettacolo, è esattamente quello che criticano.
Cioè?
Che questa romanticizzazione di Berlino come una città multiculturale non sia la realtà. È davvero interessante perché le critiche più aspre a riguardo sono da parte di uomini bianchi di mezza età o anziani, che si lamentano dell’eccessiva patina multi-etnica che abbiamo dato alla città, e sono completamente d’accordo sul fatto che la loro Berlino probabilmente non è la nostra Berlino. Anzi. La nostra Berlino è fantastica, è sopra le righe, certo, ma è molto più simile alla realtà di quanto non lo sia una Berlino piatta e tedesco-centrica.
Crescendo a Berlino, quanto hai sentito la costante presenza del fantasma dell’Olocausto che percepiscono i personaggi della serie?
Penso che qualsiasi persona ebrea lo percepirebbe, specialmente chiunque abbia vittime dell’Olocausto nella propria famiglia. E, come dice Yael per controbattere alle posizioni di Esty, quasi tutti gli ebrei ne hanno.
Bellissimo quel dialogo.
La scena del parco giochi è stata molto importante per me. La maggior parte dei parchi gioco di Berlino sono stati costruiti sulle macerie di palazzi bombardati durante la seconda guerra mondiale. Per me è così che funziona il trauma. Non è una cosa sempre costantemente dolorosa, non sei sempre nel vivo del trauma, ma è qualcosa a cui non riesci a non pensare, anche se solo per una frazione di secondo, anche se sei seduta su una panchina in un parco giochi.
C’era questo caffè, a Ku’damm, una via dello shopping di Berlino, che ora è chiuso. Al suo posto c’è una palestra o un bar adesso, non ricordo. Ma negli anni ’90 era ancora lì, un vecchio caffè tedesco, gli anziani ci andavano a mangiare le torte e bere il caffè. È risaputo che fosse il bar preferito di Hitler. Era all’angolo dell’H&M dove andavo da ragazza.