L a prima volta che avete visto una creatura mostruosa, umanoide, quando è stata? Da bambina, in uno scatolone di vecchie foto di famiglia trovai un libricino con una collezione di immagini in bianco e nero. Sebbene la maggior parte delle fotografie pareva scattata in contesto circense, quella che mi colpì in modo irreversibile sembrava realizzata più per pretesti scientifici che d’intrattenimento. Raffigurava due neonate siamesi, congiunte tramite il cranio. Erano distese su un lettino, e insieme allo sgomento di fronte a un’immagine che riconoscevo come non artefatta, sorsero due domande: come si poteva trascorrere un’esistenza da sdraiate e cosa ne pensavano loro di quella condizione. La posizione vulnerabile reclinata sottolineava ancor di più la loro impotenza rispetto a quello stato. Erano “portatrici innocenti” di un’anomalia corporea invalidante, ma oltre al danno c’era anche la beffa, su cui non avevano alcun controllo: lo sguardo dell’altro su di loro.
Scherzi della natura – oppure, secondo una terminologia altrettanto politicamente scorretta, fenomeni da baraccone. Freaks suona meglio, non solo tra gli anglofili ma già per qualunque baby-boomer che sia stato esposto al film di Tod Browning del 1932, soprattutto per il legame con la controcultura anni Sessanta. Marshall McLuhan scriveva che l’esperienza visiva di osservare un freak show è simile a quella della maschera che “come il freak da baraccone, esercita un’attrazione sensoriale non tanto pittorica quanto partecipe”. Carson McCullers, la madrina del gotico e del queer letterario americano, inventa una protagonista adolescente terrorizzata dai freak perché percepisce il loro sguardo come un ambiguo desiderio di connessione: sono “rivelazioni dell’Io segreto” che si materializzano a posteriori, proprio quando lei si guarda allo specchio chiedendosi come diventerà da grande.
È infatti la pubertà il periodo della vita in cui non siamo né bambini né adulti, ma creature-di-mezzo, sessualmente ambigue e corporalmente mutanti. Il critico Leslie Fiedler suggerisce che nell’apparente passività di chi osserva il freak si celi una spinta attiva non diversa da quella suscitata da spettacoli per guardoni o dalla pornografia. Una sensazione che è particolarmente isolabile nei ricordi d’infanzia quando la cronologia visiva è ancora “vergine”, e che descrive il misto di repulsione e attrazione di fronte alla deformità del fenomeno – “l’oscenità messa a nudo dell’io e dell’altro”, laddove però lo sgomento suscitato non risiede nel diverso da noi quanto nell’identico a noi, nell’umanità esposta. Uno spaventoso first contact di antropologica o fantascientifica eredità, dove l’indigeno sconosciuto o l’alieno in fondo al nostro sguardo altro non è che noi.
Con questi spunti si apre il saggio Freaks – Miti e immagini dell’Io segreto del critico, docente e scrittore americano Leslie Fiedler, attivo per oltre quattro decadi fino agli anni Ottanta. Pubblicato originariamente nel 1978 , esce solo adesso nella prima edizione italiana per il Saggiatore. La vastità e interdisciplinarità dell’argomento determinano la composizione aneddotica con cui Fiedler compila prima un catalogo storico delle più note tipologie di freak, poi una sorta di psicologia culturale culminante nel concetto di freaking out – inteso non solo nel senso di ribellione sessantottina (ricordate Ruggero, il fricchettone di Un Sacco Bello?), ma anche nello stato allucinatorio ottenibile con LSD e co., e promosso da, tra gli altri, Frank Zappa.
Nella sua introduzione, Vittorio Giacopini riconosce che il saggio è meno una dichiarazione d’amore nei confronti del freak – che pure è – e più un “discorso di commiato tenuto al funerale (pop) della controcultura”. Nel 1978 quel mondo è già finito e stiamo precipitando nel decennio in cui verrà normalizzato e commodificato, tutto ben riassunto nella carriera di Steve Jobs (geek o nerd che dir si voglia, etichette anch’esse imparentate con il freak). La possibile “obsolescenza” dello studio di Fiedler viene però compensata da una familiarità tale con il soggetto che il gossip, l’episodio autobiografico o l’associazione libera di idee contribuiscono a una scrittura motivata da un interesse, quasi un affetto, “privo di moralismo o pruderie”. Essendo il suo primario campo d’azione la lingua, è lì prima di tutto dove si misura la sua sensibilità verso un argomento che confina con quello serissimo della disabilità:
Dovrei cercare qualche altro termine [diverso da “freak”], meno deteriorato e offensivo. Dio sa se ce ne sono molti: bizzarrie, malformazioni, anormalità, anomalie, mutanti, scherzi di natura, mostruosità, esseri strani, persone singolarissime, e phénomènes. (…) A mio parere, però, manca a questi termini la risonanza necessaria a esprimere quel senso di sgomento quasi religioso che ci invade quando ci troviamo di fronte per la prima volta, soprattutto da bambini, esseri umani più emarginati.
Guardando alla prima parte del saggio, il catalogo dei fenomeni fiedleriani spazia dalla storia alla letteratura alle arti visive e include una buona parte di cultura cinematografica. Non pone però l’accento su quest’ultima, e se da una parte la ragione è sicuramente da ascrivere a una necessità di selezione sia storica che contenutistica, dall’altra stupisce perché il mezzo cinematografico interpreta molti elementi essenziali del freak, a cominciare dal condiviso terreno con l’industria dell’intrattenimento, soprattutto delle origini – il circo, il vaudeville, il carnevalesco, la Wunderkammer, il dime museum – e dalle implicazioni con i concetti di sguardo, messinscena, trucco, desiderio, feticcio, finzione versus realtà…
Ma il cinema fornisce forse la chiave migliore per disaminare il fenomeno, a cominciare dalla particella più piccola del mondo dei freak: i nani. Essi ne incarnano in un certo senso “l’idea platonica” poiché da una parte le loro dimensioni ridotte enfatizzano la condizione di vulnerabilità propria dei cosiddetti phenomènes, dall’altra esistono come gruppo umano abbondante, diffuso e idealmente integrato in società. È infatti la storia di una coppia di nani al centro del film assoluto sul tema, inauguratore e insieme risolutore del genere. Freaks nasce da un racconto di Todd Robbins, ma acquista statuto di culto grazie alla regia di Tod Browning, regista tardivo e già attore, controfigura, contorsionista, finto negro del varietà nonché autore del Dracula con Bela Lugosi del 1932 (altro “deformato” specialmente legato al cinema, come ricorda Francis Ford Coppola). Ambientato in un circo, il film impiega quasi per la maggior parte freaks veri, che avevano un business avviato come esibizionisti ed erano in alcuni casi delle piccole celebrità. Come il protagonista Hans, un nano di origine tedesca che si invaghisce della trapezista Cleopatra, rischiando così di farsi fregare il patrimonio da questa in combutta col forzuto Ercole, e finendo per spezzare il cuore alla fidanzata Frieda, nana anche lei. Hans e Frieda erano in realtà i 2/4 della Doll Family, performer professionisti che finirono notoriamente anche nel cast de Il mago di Oz.
Visto oggi, il film è cartina di tornasole di ineguaglianze ancora irrisolte, in primis la condizione della donna: “Why is it, we women always have stuff to worry?” chiede la tradita Frieda alla “normale” Venus, che risponde “Oh, it’s always been that way. I guess it always will be”. È infatti Frieda la voce morale del film, e quella che anticipa la catastrofe sebbene la storia si concluda con una vendetta a suo favore. Scoperto il tradimento dell’amato, prima del tragico finale, gli comunica la straziante dichiarazione “to me you’re a man but to the whole circus you’re just something to laugh about”. Storicamente intrattenitori alle corti reali (vedi i dipinti di Velázquez) ma anche allenati all’escamotage per sopravvivere ai soprusi, i nani hanno sempre vissuto una condizione di insofferente sudditanza, come perfidamente suggerito nel secondo lungometraggio di Werner Herzog e forse titolo migliore della storia del cinema: Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1970).
Anche questo un film di ribellione, insiste però sulla natura maligna, astuta e avida con cui la cultura popolare dipinge esseri di bassa statura: il Rumpelstilzchen dei fratelli Grimm, l’irlandese leprechaun, il troll, l’hobbit, il gremlin fino al sottosviluppato orrendo nano tolkiano, il gollum. Il lato sfuggente e infantile del nano l’ha invece perfettamente immortalato uno dei grandi “padrini” del freak e del queer cinematografico, David Lynch. In Twin Peaks nani e giganti coesistono senza incontrarsi, anche se tradizionalmente vengono spesso contrapposti tipo Tom & Jerry: i primi che tormentano, i secondi che capitombolano. La morale vuole che risulti molto più divertente nonché soddisfacente veder fallire una creatura grande e grossa che altrimenti potrebbe nuocere, soprattutto ai bambini (vedi l’orco di Pollicino; l’arte di un altro grande pittore spagnolo – Goya; o, sprazzi della filmografia di Arnold Schwarzenegger). Come riporta Fiedler tramite Edward J. Wood, “i giganti sono quasi sempre caratterizzati da una debolezza mentale e fisica” e la geniale collocazione del gigante lynchiano nel reame onirico pertiene alla loro congenita pesantezza e inabilità motoria. Ma una differenziazione che manca nel saggio di Fiedler è quella tra i freak connotati esteticamente e i freak connotati politicamente.
Freaks nasce da un racconto di Todd Robbins, ma acquista statuto di culto grazie alla regia di Tod Browning.
Nella prima categoria rientrano tutte le deformità, dall’Elephant Man di, ancora una volta, David Lynch, alle matrone sovrappeso del Satyricon di Fellini (a proposito, una generalizzazione formidabile che scredita simpaticamente la scientificità di Freaks: “Anche al centro della cultura europea, vale a dire in quel paese amante delle «tettone» che è l’Italia, troviamo un atteggiamento analogo nei confronti dell’opulenza fisica femminile”). Entrambi i registi hanno impiegato freak di vario tipo nel loro cinema, anche se con un approccio diverso. Se l’ispirazione circense che a partire da La Strada ha puntellato le opere felliniane è da ricondurre al grottesco, alla sessualità e al politico, nel caso di Lynch bisogna rifarsi all’inconscio, all’ambiguità e alla commistione formale con sottogeneri popolari. Chi si colloca in mezzo ai due è un regista a cui la posterità dovrebbe presto restituire lo statuto di genio: Marco Ferreri, la cui La donna scimmia (1964) rimane un capolavoro incontestabile e uno dei film più inerenti al genere freak.
Annie Girardot è una giovane coperta da una peluria morbida ma fittissima che l’avvolge su tutto il corpo; Ugo Tognazzi è un faccendiere che la scopre reclusa in un convento e finisce per portarsela a casa, divenendone prima impresario e poi marito. Girato a Napoli in un sostrato post-neorealista, il film tocca con ironia e lungimiranza sorprendenti non solo il tema del diverso e dell’emarginato, ma anche lo sfruttamento della donna (il matrimonio è lavoro), del post-colonialismo all’italiana (confuso, sbrindellato, ignorante) e della commercializzazione del folklore locale. Ma se Ferreri si sarà ispirato a celebri barbute come Grace Gilbert, il personaggio di Anna tocca il nervo più scoperto del nostro rapporto con i fenomeni da baraccone: e cioè il fascino della “bruttezza” e l’attrattiva sessuale del freak, sfera su cui di nuovo i nani vantano primato (vulnerabili per molti versi, si dicono celare un vigore anomalo – vedi Tyrion Lannister di Game of Thrones).
Tognazzi fu peraltro un caratterista volentieri impiegato nel tipo pseudo-freak (come ne I mostri o nell’apparizione fulminea di Io la conoscevo bene dove è insieme talent-scout e ballerino fenomeno), oppure tipo freak vero e proprio, come ne I complessi (dove però è Alberto Sordi a spiccare nell’episodio “Guglielmo il Dentone”, come aspirante giornalista RAI con malformazione critica). Ne Il Petomane – forse non apice della carriera di Tognazzi, ma da vedere per chi ama la comicità flatulente – veste i panni dello storico artista della scoreggia Joseph Pujol, realmente esistito e capace di suonare la marsigliese con il proprio deretano. La sua storia ricorda una precisazione fondamentale: la peculiarità del freak è una condizione congenita, non un talento particolare tipo forzuto o mangiaspade. Esemplari perfetti poiché sposano entrambe le esperienze e pure in chiave sessuale sono l’iperdotato Dirk Diggler di Boogie Nights (P.T. Anderson, 1998), o la Linda Lovelace di Gola Profonda.
Passando alla seconda categoria, La donna scimmia si colloca come perfetto “anello di congiunzione” tra i freak di cui sopra e quelli connotati politicamente, personificati dall’uomo selvaggio.
Chiamati, a seconda dei luoghi dove sono stati trovati e delle bestie che li hanno presumibilmente allevati, il bambino lupo dell’Assia, il bambino orso lituano, la ragazza scrofa di Salisburgo, il bambino gorilla siriano o il bambino scimmia di Teheran, questi sventurati sono stati citati per secoli con nomi più adatti a degli ibridi che a dei bambini abbandonati.
scrive Fiedler. Se prima della scoperta delle Americhe queste leggende proseguivano certi filoni della mitologia greca e alimentavano i gossip sulle unioni antro-zoologiche, diventano nella modernità occidentale modi mostruosi di problematizzare lo straniero.
Personaggi realmente esistiti come Sarah Baartman (la “Venere Ottentotta” ritratta magistralmente da Abdellatif Kechiche ne la Venere Nera, 2010) o creature di finzione come Mowgli, Tarzan, magari pure King Kong, derivano dall’affermarsi dell’antropologia come disciplina scientifica, dal successo della narrativa di viaggio ma anche dalla divulgazione delle teorie evolutive – più però nella versione promossa da P.T. Barnum che in quella formulata da Darwin. È Barnum – quello dell’American Museum, impresario circense che collaborò con il nano Generale Tom Thumb, creò la bufala della sirena delle Fiji ed è oggi interpretato da Hugh Jackman in The Greatest Showman – che presenta un orangutan femmina come il “Grande Anello di Collegamento” tra il mondo umano e quello bestiale.
Il paternalismo rivolto a questi personaggi risale sia all’antico mito del buon selvaggio sia all’atteggiamento “conservativo” che anima tutti i razzisti: e cioè l’idea che la mescolanza con etnie considerate inferiori possa provocare una regressione psicofisica o addirittura una devoluzione… L’enigma di Kaspar Hauser (1974) ancora una volta di Herzog e Il ragazzo selvaggio di Truffaut (1970), forse addirittura la novella pedagogica di Pierino il Porcospino, illuminano questo filone con favole sovversive e primitiviste, presentando eroi anti-sistema a un pubblico di hippie – o appunto, fricchettoni. Bisogna infine ricordare che affianco al nano, al gigante e al grassone compariva spesso l’uomo in pelliccia – il selvaggio – a cui veniva dato il nome di geek, e cioè originariamente di colui che si esibiva staccando teste di serpenti o polli vivi a morsi. Solo a posteriori è diventato sinonimo di nerd asociale e introvertito verso una passione specifica. Se prima veniva sbeffeggiato e poi affettuosamente celebrato dalla cultura popolare, la sua misoginia è stata recentemente smascherata da serie come Top of The Lake China Girl (Jane Champion, 2017), stravolgendo così il significato originario del termine. C’è una transizione storica a cui accenna Fiedler che forse fornisce spunti per una lettura dei freaks verso il futuro:
È solo dall’Ottocento (…) che le anomalie umane occupano un posto centrale nella narrativa e nella drammaturgia, da quando cioè̀ gli scrittori impararono a restituire loro quell’aura mitica della quale erano state spogliate con l’avvento del cristianesimo e l’ascesa della scienza.
Se prima per descrivere la deformità bisognava prendere in prestito aggettivi e termini dal mondo animale, nel contemporaneo ci si ispira alla macchina. Il progenitore è ovviamente il mostro di Frankenstein, a cui la fantascienza fa succedere l’androide, il cyborg, la protesi e via dicendo – tutte figure che, esattamente come il freak, si prestano diegeticamente molto bene al cinema, perché attualizzano e incarnano caratteristiche proprie del mezzo: la tecnologia e l’effetto speciale, l’illusione, il doppio, la metamorfosi, il furto di identità. Questa volta, tra bestia e macchina l’anello mancante forse possiamo indicare il supereroe – Wonder Woman come Spider Man, mutanti cui la società è finalmente pronta a dare uno scopo e non più a deridere. Se ci si chiede infine quali siano i freak dei giorni nostri, la prima restrizione che viene a cadere è l’esclusività genetica dell’anomalia, rimpiazzata oggi dall’ibrido, dall’artificiale o anti-organico, dall’accessorio – l’eccesso di cerone di Berlusconi e Trump come l’espansione inesorabile di Kim Kardashian o i corpi “risanati” dalla ricchezza di Jeff Bezos o Elon Musk.
La seconda connotazione che smette di esistere è l’innocenza, cioè la presunta passività e bonarietà della persona emarginata per un debilitante difetto fisico: pensiamo agli Incel, i geek crudeli che trasformano la loro “normale” bruttezza in revanchismo politico e sociale. Eppure il riferimento agli Incel è a doppio taglio, perché in effetti la vendetta contro i “normali” costituisce catarsi e insieme morte anche per i freak originari di Freaks. Se questi oggi fanno ancora impressione è perché rimandano a un passato primitivo che persiste, che non è stato del tutto debellato o ci vede ancora coinvolti. Siamo tornati a temere un contagio del mostro?
Pur rischiando di mancare di rispetto ai freak classici, forse è questa la rivincita più soddisfacente: convertire la nozione di freak da “scherzo della natura” a “scherzo della Storia”. Cominciare a usare il termine come sinonimo dispregiativo per coloro che operano fuori dalla tempo e fuori dal rispetto del vivente. Ché oggi il vero freak non è l’Altro, il diverso – ma colui che vede il prossimo come tale.