G iuseppe Novello pubblicò la sua prima raccolta di vignette satiriche nel 1934: Il signore di buona famiglia. Era una novità quasi assoluta per l’editoria italiana e l’inizio di una notorietà che sarebbe durata trent’anni. Novello veniva da una benestante famiglia di provincia, appassionato di opera e loggionista alla Scala, capitano del 5º Reggimento alpini – due medaglie d’argento e una di bronzo al valore militare. Pittore di ritratti e paesaggi, esposto alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma. Giovane introverso prima e poi uomo elegante e gentile, esemplare aureo della ricca borghesia lombarda.
Eppure nelle sue vignette derideva proprio i lambicchi sociali, il culto dell’apparenza, il castello di carta dei valori borghesi. Inevitabilmente, lasciava aperto lo spazio al dubbio: si stava scagliando contro la sua classe sociale o si limitava a illustrarla, sfottendola con garbo?
Prendiamo i suoi disegni del dopoguerra. Per le buone famiglie, il secondo conflitto mondiale sembra passare come un fastidioso inconveniente, un violento temporale estivo. Le vanità borghesi si dimostrarono più forti della tragedia politica e umana. Così, in una vignetta, Novello disegna una famiglia intera che esulta, seppur timidamente, per il bombardamento del grande caseggiato di fronte casa: “ora dal terrazzo si dischiude finalmente la vista sul mare”. In un’altra un signore passeggia malinconico, di notte, attraversando le macerie di una città buia, sventrata dalle bombe. Pensa ai fantasmi della guerra? No, all’errore che ha fatto a cena: di “essersi servito dell’insalata nel piatto comune anziché nell’apposito piattino a mezzaluna”.
Per vignette come queste Novello è considerato il pioniere della satira di costume in Italia. Come scrive Erik Balzaretti, prima di Novello la parodia sociale era genericamente indirizzata alle mode, all’esteriorità degli atteggiamenti. Novello sposta l’attenzione sugli aspetti più profondi e moralmente discutibili dell’essere sociale borghese. I Bianchi dicono “che noia! Questa sera siamo dai Rossi” e i Rossi dicono “Che noia! questa sera abbiamo a pranzo i Bianchi”. La famiglia ricca, alla scala, non saluta i parenti poveri che si sbracciano dal loggione. Una coppia, definita “senza casa” nel titolo di una vignetta, apprende con rammarico che il loro amico, lo scapolo dell’ultimo piano, non è più in pericolo di vita.
Scrisse Oreste Del Buono: “non ci può essere satira politica efficace se non compenetrata al proprio bersaglio”, fatta della sua stessa pasta. Secondo Simon Critchley, la buona satira racconta la risibilità della condizione umana, i nostri drammi, la nostra miseria ridicola, ma grazie alla buona satira ridiamo di noi stessi prima ancora che dei difetti degli altri. Le stesse cose le diceva Novello, cinquant’anni prima: “all’umorista che se ne sta sulla torre d’avorio ad osservare, non ho mai creduto. Prima di mettermi di fronte agli altri mi sono sempre guardato allo specchio e ho cominciato a ridere di me stesso”. Nelle sue illustrazioni, tra i personaggi più bersagliati, tra il notaio e la signora da salotto, appariva anche un giovane dinoccolato, un omino esile, caricaturale, eternamente spaesato. Era lui.
A volte, però, le vignette di Novello diventano fin troppo partecipi della messa in scena che raccontano, sono meno incisive, meno crudeli, un colpo di gomito elegante e indulgente, consolatorio: borghese, appunto. Due signori davanti a un ricco buffet che si dicono sorridendo: “ricordi in prigionia quando per una patata ci siamo volgarmente insultati?”. L’ospite che a un pranzo di gala è l’unico invitato in giacchettina nera e che, vedendo “finalmente arrivare un doppio-petto nocciola”, pensa sono salvo. Il ragioniere, che sa fare tanto bene il ruggito del leone, ma che dopo una settimana di villeggiatura “si fa un po’ pregare”. Comicità inoffensiva, insomma, dove i vizi diventano difetti minori, i difetti di tutti, di cui si può sorridere a denti stretti, celebrandoli.
A metà degli anni Cinquanta, quando era all’apice del suo successo, capire se Novello fosse “buono o cattivo” divenne per qualche mese un gioco divertito all’interno dell’ambiente intellettuale. “Dietro quella maschera così cordiale, gioconda e simpatica, come tutti sanno, è un uomo perfido e crudele”, scrisse Dino Buzzati sul Corriere della sera, con ovvia strizzatina d’occhio. Oggi, capire se Novello sia stato un umorista buono o cattivo significa chiedersi se la sua è stata critica sociale o “auto-narrazione di classe”, se è stata davvero satira o solo uno sfottò benevolo e compiaciuto.
In morte di un amico lontano
La prima volta, Giuseppe Novello morì nel 1945, nel campo di concentramento di Wietzendorf, in Bassa Sassonia. Era stato arrestato dai tedeschi due anni prima, appena dopo l’armistizio, il 9 settembre 1943. Novello, aveva rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò, consegnandosi ai lavori forzati dei lager nazisti in Polonia e in Germania. Gzestokowa e poi Sandbostel – tappe condivise nella prigionia dei soldati italiani rimasti fedeli al re – e infine Wietzendorf. La notizia della morte di Novello venne diffusa dai giornali svizzeri. Arrivò in Italia nel passaparola di amici, intellettuali e giornalisti. Indro Montanelli scrisse una lettera al professor Federico Federici, insegnante di filosofia, compagno di scuola e amico di Novello: “La sorella ha ricevuto comunicazione ufficiale della morte del fratello in campo di concentramento in Germania. Nessun dettaglio. Il fatto, nudo e crudo”.
Federici pubblicò un ricordo di Novello su L’Italia e il secondo Risorgimento, giornale di fuoriusciti: “aveva una sensibilità complessa e raffinata; nella sua arte ironica tentò per impeti di svincolarsi da un mondo che lo teneva prigioniero e del quale non riuscì ad avere ragione”. Altri necrologi uscirono su La libera stampa e L’epoca. A fine agosto arrivò la smentita. Novello era vivo. Stava attraversando il nord Italia per tornare a casa. Buzzati, sul Corriere lombardo, ebbe modo per primo di darne notizia. “Del resto il redivivo che si gode i propri elogi funebri è abbastanza novelliano, ci sembra”. La retorica, il galateo, i riti di consolazione, la recita funebre senza il morto, “non si convengono forse alla tua fantasia irriverente e amara?”.
A Silvio Negro, che aveva omaggiato il defunto scrivendo che “la morte, quando è ingiusta, colpisce di regola i migliori”, Novello, tornato in vita, rispose: “evidentemente e per fortuna non sono tra quella eletta schiera”. Nel 1950 raccontò la vicenda in una vignetta. Un signore, in piedi, in salotto, è aggrappato alla cornetta del telefono a disco, stravolto dal dolore. La moglie si precipita nella stanza per partecipare all’angoscia del marito. L’uomo ha la smorfia e la posa dell’urlo di Munch. Titolo: Più forte della gioia. Didascalia: “L’autore dell’ammiratissismo articolo In morte di un amico lontano riceve la smentita della triste notizia”.
Dunque dicevamo
Giuseppe Novello muore per la seconda e ultima volta il 2 febbraio 1988, a Codogno, paesino della Bassa dove era nato il 7 luglio 1897. A Codogno, il padre Eugenio, veneto, fu direttore della locale Banca popolare. La madre, Antonietta, veniva invece da una famiglia di pittori lombardi: sorella di Giorgio Belloni, cugina di Piero Belloni Betti.
Giuseppe, pendolare di buona famiglia, non si allontana mai troppo da casa. Fa il liceo a Milano (60 km di distanza), studia Giurisprudenza a Pavia (50 km). Da Codogno lo strappano solo le guerre mondiali. La prima scoppiò sommessamente, dopo un lungo preavviso. “Io allora non mi schieravo. Stavo a guardare, sicuro che, quando fosse venuto il momento, avrei fatto il mio dovere. E quel momento venne”. L’unico slancio lo riservò alla scelta dell’arma, gli alpini. “Fu l’unico atto volontaristico. Dopo di che non chiesi mai più nulla”. Sparò sulla linea austriaca dei Tre Monti – Valbella, Col del Rosso, Col d’Ecchele – sulla linea del Piave e sul Monte Barbaria.
Tornò vivo a Codogno, con qualche riconoscimento militare in più, e nel 1920 si laureò in Giurisprudenza. “Un errore di gioventù”. La tesi di laurea, però, era su diritto d’autore e arti figurative. Incoraggiato dallo zio Giorgio, pittore, diede gli esami d’ingresso all’accademia di Brera. “Sento tuttora questi miei clienti mancati che mi ringraziano per aver rinunciato alla toga per i pennelli: altrimenti sarebbero tutti in galera”.
Tra il marzo e l’ottobre 1928, anno VI dell’era fascista, vennero approvate le leggi sulla stampa d’informazione. “Il giornalismo è, deve essere, non può che essere uno strumento della Rivoluzione Fascista”. Alla satira toccò la stessa sorte di sottomissione. Progressivamente scomparvero riviste umoristiche come L’asino e Il becco giallo. Nella paranoia censoria del regime vennero chiusi anche i fogli più fascisti e schierati. Ammorbidendo la propria linea editoriale, si salvarono gli storici Il travaso delle ideee Il Guerin Meschino, dove Novello iniziò a pubblicare. Grazie a Rizzoli, nacquero e continuarono a essere pubblicati, negli anni della dittatura, Il Marc’Aurelio e Il Bertoldo, dove trovarono spazio Cesare Zavattini, Steno, Federico Fellini e Giovannino Guareschi.
In questo clima schizofrenico di censura feroce e piccoli spazi di libera espressione ignorati dal potere, la satira di Novello poté diventare celebre anche perché non intimoriva il regime. Trovare tracce dirette del Ventennio nelle sue vignette è quasi impossibile.
Nel 1929 le sue scene di naja e trincea illustrano La guerra è bella ma è scomoda, firmato assieme a Paolo Monelli. È un racconto ironico del primo conflitto mondiale, e per Novello è l’inizio di un successo rapido e senza ostacoli, che porta le sue vignette sulle prime pagine di quotidiani e riviste nazionali, sulla Gazzetta del Popolo, e poi in libreria, per i tipi di Arnoldo Mondadori. Viene tradotto in Francia e in Germania e continua a dipingere. I suoi quadri ritraggono le stesse atmosfere domestiche delle vignette, sono dipinti malinconici, silenziosi, mettono in scena le piccolezze della ricca borghesia provinciale con lo sguardo comprensivo di un padre clemente. A Milano si inserisce nel giro di artisti e scrittori che ruotano attorno al Premio Bagutta.
Da un’intervista al settimanale TEMPO, 1957
Ritiene che l’egoismo sia una delle condizioni necessarie ad un artista?
Qual è professionalmente la cosa che la spaventa di più?
E nella vita privata?
Qual è, secondo lei, il colmo dell’imbecillità umana?
Che cosa vorrebbe che si dicesse di lei fra un secolo?
Vivendo alla Corte del re Sole, chi avrebbe voluto essere?
Immagino che qualche volta lei si sia posta la domanda: “A che cosa debbo la mia popolarità”. A quale conclusione è giunto?
Lei è dichiarata fra le persone più schive di pubblicità. A che cosa si deve questa sua ritrosia?
Quale delle sue vignette potrebbe servire di pretesto a una delle mie domande?
Innocuo
La storia artistica di Novello è quella di una progressiva ritirata, la fuga lenta di un uomo schivo, illuminato suo malgrado dal successo. Nel 1940, alla XII biennale di Venezia, vince il concorso per il ritratto. Decide subito di abbandonare il genere, “per timidezza”.
Scoppia la Seconda guerra mondiale, viene chiamato nuovamente alle armi. “Sono un ripetente”. Parte per la Russia, combatte a Nikolajewka, nella ritirata dopo il crollo del fronte del Don. “I disegni fatti in Russia, molti li ho persi; rientrando in Patria, ne ho rifatti diversi a memoria. I disegni fatti nei lager, invece, li ho portati quasi tutti a casa. Il lager è un posto ideale per disegnare: il disegnatore ha il modello a disposizione notte e giorno”.
Finita la guerra, inizia a collaborare con La Stampa e continua a dipingere. “Faccio il pendolare tra disegno e pittura”. Ma gli anni Sessanta, per Novello, sono indecifrabili. Il suo sguardo elitario, antimoderno, non riesce a leggere l’Italia del boom. Le nuove vignette sono rimbrotti nostalgici. Si sente assediato da un progresso che non capisce, e che quindi non è in grado di raccontare e di prendere in giro. Decide di ritirarsi, di rifugiarsi nella pittura. “La pittura è innocua: uno che dipinge non dà fastidio a nessuno”.
Giuseppe Novello morì nel 1988. In quei mesi, allo Zelig, a Milano, debuttava come comico Maurizio Milani, anche lui di Codogno. “Quando è morto avevo 26 o 27 anni. Lo vedevo che passeggiava per via Roma, lo vedevo in stazione, prendere il treno per la città”, mi dice. “Sapevo che era il Maestro Novello, ma lui era un uomo schivo e io ero timido, non ho mai avuto il coraggio di rivolgergli la parola”. Milani mi racconta della devozione con cui Novello viene ricordato a Codogno, con premi, mostre e eventi celebrativi. Quando abbiamo finito di parlare mi manda la foto di un disegno che ha appeso in casa, un’illustrazione che Novello regalò al padre di Milani e a tutta la classe di leva 1929 del paese.
A Codogno, la sede della Pro-Loco è in uno degli appartamenti che furono di proprietà della famiglia Novello. Alle pareti suoi schizzi e ritratti. A pochi passi da lì, tra le case di corte e i portici bassi, una piazza stretta e lunga, pulita e silenziosa, ha preso il suo nome. A lui è dedicata una sala del locale museo della Fondazione Lamberti. Più fuori, verso la tangenziale, c’è il liceo G. Novello.
Al cimitero comunale, la tomba di Novello è stata appena restaurata. Come racconta il Cittadino (quotidiano del Lodigiano e del Sudmilano), il marmo è stato ripulito, ed è stato risistemato il giardinetto, “con la posa di nuove essenze e di un rinnovato ghiaietto”.
Sempre più difficile
Le vignette di Novello sono un marchingegno accurato, una bilancia a tre piatti in cui il peso comico è distribuito tra disegno, titolo e didascalia. Il tratto è sinuoso e incisivo, nitido. I corpi, le mani e i volti sono allungati, i personaggi sono ritratti seduti, di schiena, di tre quarti, in gruppo, quasi sempre in movimento o nell’atto di adempiere a qualche faccenda quotidiana, si incontrano e si odiano nei loro salotti ampiamente decorati, nei teatri, nei tavolini all’aperto dei bar del corso, nelle cerimonie che attraversano due guerre e la dittatura fascista senza scomporsi.
Per raccontare l’umorismo di Novello, i pochi articoli apparsi negli ultimi anni – in occasione di qualche mostra o qualche anniversario – si riempiono di elenchi. I protagonisti delle tavole sono allora “grasse signore, giovani esangui, distinti commendatori e tronfi pittori e cantanti d’opera” e poi “il notaio, l’avvocato, il farmacista, il vecchio garibaldino, la ragazza da marito messa in mostra da genitori affannati, il ragioniere in cerca di dote, la serva padrona, il tenore sfiatato, il bambino prodigio, il figlio ripetente, lo zio sordo”. Le ambientazioni sono “salotti, hall d’albergo, platee, loggioni, negozi, stadi, gallerie d’arte”, e “gli scompartimenti ferroviari, le stazioni secondarie, i luoghi di villeggiatura, i salotti mondani e intellettuali, gli studi dei pittori, le vernici, le mostre, le pinacoteche, i musei”.
Parlare di Novello significa stilare una lista. L’intera sua opera, compresa quella pittorica, può essere letta come un tentativo di esaurire una classe sociale, un periodo storico e una fetta d’Italia: la borghesia della provincia lombarda nei decenni prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale. Le vanità, i soprammobili, le lampade a petrolio, le poltrone imbottite, le smorfie, le vacanze, le suocere: bisogna assicurarsi che all’appello non manchi nulla.
Un ultimo elenco che possiamo aggiungere agli altri è quello delle persone che hanno scritto di Novello, scrittori e giornalisti che lo hanno celebrato nei decenni della sua popolarità, prima che venisse quasi completamente dimenticato: ci sono Enzo Biagi, Enzo Tortora, gli amici Dino Buzzati e Indro Montanelli, Mario Soldati – “La pittura di Novello è tutto ciò in cui hanno creduto i nostri padri, nonni, bisnonni e avi: tutto ciò che la loro esperienza ci ha lasciato in eredità come difesa contro il futuro” –, Mario Rigoni Stern, Alberto Arbasino – Novello è citato nei Ritratti Italiani – Nino Rota, Vittorio Sgarbi e Giorgio Forattini – “A lui dovevano dare il Nobel”, disse dopo la vittoria di Fo.
Smembrare l’universo narrativo di Novello in piccole parti ci aiuta a rispondere alla domanda da cui siamo partiti. Era satira o innocuo sfottò? Novello ha criticato il mondo piccolo borghese che appariva grottesco nei suoi disegni, ma l’ha fatto dall’interno, senza mai arrivare a rifiutarlo, a metterlo davvero in discussione. Ha seguito l’ispirazione di un’ironia che a volte era spietata, altre volte troppo composta per essere davvero pericolosa. “Non mi riesce di portare con disinvoltura questa strana aureola che mi hanno inchiodato sul capo come a una figurina del presepio”, aveva scritto sulla Stampa, fingendo di lamentarsi di chi diceva che era troppo buono. È facile immaginarlo in una delle sue vignette, invece, mentre contempla l’aureola allo specchio, soddisfatto.