O gni opera letteraria contiene un universo di cui l’autore è signore e padrone finché non arrivano il cinema o la televisione a costringerlo a condividere il dominio, in cambio di una sostanziosa quota dei diritti. C’è chi la prende bene e chi la prende molto male (Stephen King, com’è noto, è uno che la prende quasi sempre male); c’è chi, avendo completato l’opera, vive la sua rilettura per immagini con relativo distacco; c’è chi scrive più velocemente di chi adatta (Philip Pullman, che a una discreta distanza dall’esordio della serie basata sulla trilogia His Dark Materials ha già pubblicato due dei tre volumi che compongono la seconda trilogia ambientata nello stesso universo, The Book of Dust) e chi invece si fa scippare, come è successo a George R.R. Martin con Game of Thrones. Martin, che aveva venduto i diritti di Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco all’altezza di A Feast for Crows, ha pagato cara la sua nota lentezza creativa: mentre il mondo aspettava (e aspetta tuttora, forse invano) The Winds of Winter, HBO ha chiuso la vicenda in due stagioni e mezza, con metà del cast dei libri e un quarto delle storyline.
È difficile pensare che Margaret Atwood non avesse presente lo scontento di Martin, quando ha iniziato a lavorare a The Testaments (I Testamenti nell’edizione italiana di Ponte alle Grazie, tradotta da Guido Calza), il seguito de Il racconto dell’Ancella. Come Martin, anche Atwood doveva vedersela con una serie televisiva che aveva superato la linea narrativa del suo romanzo originale, consumato tutto nella prima (e strepitosa) stagione. The Handmaid’s Tale non è la prima trasposizione dell’omonimo romanzo (c’è un film del 1990 con Natasha Richardson, Faye Dunaway e Aidan Quinn) ma è la prima a lasciare una traccia nella cultura pop, da quando le attiviste femministe hanno iniziato a utilizzare il costume disegnato da Ane Crabtree per protestare contro leggi ideate per aggredire l’autonomia riproduttiva delle donne. Se è vero che le due stagioni successive non hanno avuto lo stesso successo o lo stesso riscontro da parte della critica, che in particolare è rimasta infastidita da quella che è stata vista come un’inutile impennata di violenza nella trama, ai limiti del torture porn; dal punto di vista del suo universo, l’avanzamento rimane, diventa – per così dire – canone.
Martin, come dicevamo, si è fatto sottrarre universo e canone andando all’inseguimento della sua stessa storia. Atwood ha fatto una scelta diversa, efficace sia dal punto di vista del controllo della narrazione che da quello letterario: ha mandato avanti la vicenda di quindici anni, e ha scelto di raccontare la fine di Gilead, il suo crollo, e il ruolo giocato in quel crollo da due personaggi introdotti nella serie, oltre che da un terzo personaggio già noto e che viene completamente ribaltato nella percezione del lettore.
È difficile pensare che Margaret Atwood non avesse presente lo scontento di G.R.R. Martin, quando ha iniziato a lavorare a I Testamenti, il seguito de Il racconto dell’Ancella.
Chi non vuole rovinarsi del tutto la sorpresa o non ha ancora visto la seconda e terza stagione di The Handmaid’s Tale smetta di leggere qui: le tre voci narranti di The Testaments sono Zia Lydia, la giovane Agnes e l’adolescente Daisy. La prima ci è nota come la terribile aguzzina delle Ancelle, la rappresentazione letterale della donna anziana che nella nostra società provvede a tenere in riga le altre con un’alternanza di materna dolcezza e inaudita violenza, controllandole con la persuasione e la minaccia. Nella serie e nel primo romanzo, Zia Lydia non era altro che una poliziotta dal patriarcato, una donna votata all’oppressione delle altre donne. L’interpretazione di Ann Dowd le ha regalato una profondità assente dalla creazione originale, tanto che gli sceneggiatori hanno provato a dare tridimensionalità al suo personaggio raccontando un episodio del suo passato, un amore fallito e il suo primo tradimento della sorellanza che dovrebbe unire le donne contro la società che le opprime e le punisce. Atwood ignora del tutto quell’episodio (e le sue implicazioni: che le donne siano creature fragili e vendicative, e che tutta la ferocia di Zia Lydia derivi dall’essersi vista negare l’amore di un uomo), assegna a Zia Lydia una voce, le dà una storia personale ma soprattutto racconta il suo percorso per arrivare a essere la donna più potente di Gilead, nonché quella responsabile per la sua distruzione.
Costretta con la tortura ad assumere il ruolo di carceriera delle altre donne, Zia Lydia mostra di possedere un’intelligenza e un’astuzia degna dei migliori politici della Prima Repubblica italiana, oltre che un’incrollabile tenacia e capacità manipolatorie fuori dal comune. Negli ultimi giorni di Gilead affida le sue memorie a un diario, scritto di nascosto dalle sue compagne, in cui dettaglia le mosse intraprese per assicurarsi che l’intero castello della teocrazia fondata dai Figli di Giacobbe crolli portandoseli dietro. Vale la pena ricordare qui che le Zie sono fra le poche donne della repubblica teocratica a cui è consentito leggere e scrivere: il mondo in cui vivono le preferisce malleabili e indifese, impossibilitate a mettere in difficoltà gli uomini di cui devono essere (o se non altro sembrare) fedeli compagne e servitrici. All’inizio della storia, Agnes (la cui identità non è un mistero per chi ha visto la serie) è analfabeta, come tutte le altre bambine con cui è stata cresciuta: la dottrina di Gilead considera le donne esseri molli, utili solo in rapporto alla loro funzionalità sociale. Ogni donna regna sulle altre donne, e ogni donna misura la sua ricchezza anche sulla quantità di servitù – femminile – a sua disposizione.
L’ultima delle tre voci narranti, Daisy, è stata allevata in Canada: è una ragazzina come tante, imbronciata e spaventata, annoiata dalla scuola e stregata dalla vicenda di Baby Nicole, la figlia di Gilead sottratta con l’inganno e portata oltreconfine. Anche nel caso di Daisy, il suo legame con Gilead e con la resistenza nota come Mayday è intuibile fino dall’inizio della vicenda ed è una diretta conseguenza degli sviluppi della serie.
L’operazione di Atwood è insieme un omaggio al lavoro degli sceneggiatori di The Handmaid’s Tale e un atto di supremazia dell’autrice sulla sua creazione.
L’operazione di Atwood è insieme un omaggio al lavoro degli sceneggiatori di The Handmaid’s Tale, che hanno operato sulla base di una sua indicazione precisa (tutto quello che succede nella serie deve avere un precedente nella storia dell’umanità) e un atto di supremazia dell’autrice sulla sua creazione. Il giudizio pressoché unanime sulla terza stagione è che la storia sia stata ormai trascinata oltre i limiti della plausibilità, con un’estetica che prende il posto dello sviluppo narrativo e minutaggi allungati da inquadrature tanto belle quanto inutili, e una June sempre più sfrontata nella sua sfida al potere, ormai protetta solo dal fatto di essere la protagonista della storia. Atwood risolve il problema eliminandola dalla trama e riscattando le donne dal destino cinico a cui le aveva consegnate il finale de Il racconto dell’Ancella: una donna sola non può disfare un regime, e di Offred, alla fine della storia, non si sapeva più nulla se non che aveva vissuto gli anni cupi di una dittatura ormai fallita, e che aveva fatto in tempo a raccontarla in una serie di cassette rinvenute a posteriori. I due studiosi che in un futuro lontano cercano di ricostruire l’era di Gilead, il professor Peixoto e la professoressa Maryann Crescent Moon, tornano anche alla fine di The Testaments, per chiudere finalmente la vicenda in maniera soddisfacente per i lettori.
La chiusura è la chiave del gesto di riappropriazione operato da Atwood, perché la fine di una storia appartiene al suo creatore. Se Martin ha di fatto rinunciato alla prelazione sul suo stesso racconto, lasciando che fossero altri a portarlo a termine a loro discrezione e con enorme libertà, Atwood si riprende i suoi personaggi e li colloca dove vuole. Non insegue, anticipa. Si libera di Offred (e dell’ormai ingombrante June, che nel romanzo non aveva un nome), di Serena Joy e del Comandante Waterford, e lascia che siano altri personaggi a respirare, quasi tutti nuovi, quasi tutti generati dal brodo primordiale del suo universo e della sua immaginazione. Il racconto dell’Ancella era la storia di una donna come tante, una donna senza nome dimenticata dalla storia e che da sola non avrebbe potuto liberarsi dai suoi oppressori. The Testaments è la storia di molte donne, la storia di una resistenza, di una sorellanza letterale ed elettiva in grado di cambiare il mondo. È anche una storia solida, compatta, senza sbavature o riempitivi di sorta, e Atwood lo sa: sa di essere la scrittrice migliore, una delle migliori del mondo, una delle più potenti e precise e con il maggior controllo dei suoi mezzi, e si prende anche la libertà di ringraziare gli showrunner della serie per il loro lavoro. Da qua in poi, comanda di nuovo lei.