Gianfranco Bombaci
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Coop Himmelblau, Restless Sphere, Basel, Switzerland (1971) Photo: Peter Schnetz. Courtesy of Coop Himmelb(l)au Archives.
4.5.2020
Il tempo e lo spazio della convivenza con la COVID-19
Gianfranco Bombaci è architetto e socio fondatore dello studio associato 2A+P/A. Ha scritto per Domus, Abitare, Architectural Review, L'Architecture d'Aujourd'hui. Coordina la Scuola di Design dell’Istituto Europeo di Design di Roma ed è Visiting Lecturer al Royal College of Art di Londra.
L
e dinamiche di convivenza con il nuovo coronavirus hanno investito concretamente il tempo e lo spazio delle nostre vite. Già oggi ne percepiamo le conseguenze dopo settimane di chiusura nelle nostre abitazioni, improvvisamente trasformate anche in uffici, aule, palestre e sale riunioni.
Quasi un secolo fa Le Corbusier, nel suo manifesto teorico Verso un’architettura, definiva la casa moderna come una machine à habiter, coniando secondo Aldo Rossi “la definizione più rivoluzionaria del Movimento Moderno”, ovvero quella complessa espressione culturale che nella prima metà del secolo scorso ha dato forma, interpretazione artistica e filosofica all’istituzione di una nuova società industriale. La casa macchina è diventata il modello del nostro abitare contemporaneo, improntata all’efficienza e all’ottimizzazione degli spazi, alla ricerca di un existenz minimum capace di garantire un alloggio sicuro e igienico alle migliaia di persone che, lasciata la campagna, si riversavano nelle neonate città industriali.Architettura, urbanistica e design hanno da allora modellato i nostri spazi urbani, gli ambienti interni e gli oggetti d’uso, cercando di interpretare, con il medesimo spirito, le successive evoluzioni della società, prima dei consumi e in seguito dell’informazione.
Tornando nei nostri alloggi dove, per la prima volta nella storia, abbiamo confinato circa metà della popolazione mondiale, ci rendiamo conto che le nostre piccole “macchine per abitare”, faticano ad ospitare una quotidianità dove dimensione privata e pubblica sono definitivamente implose. Soggiorni, angoli cottura, camere e camerette sono invasi da un’improvvisa promiscuità con ambiti lavorativi e rappresentativi non previsti.
Altri illustri esponenti del Movimento Moderno, contemporanei a Le Corbusier (che possiamo identificare come uno dei più fervidi funzionalisti) proponevano vie alternative alla metafora della macchina per dare forma all’avvento di una società moderna. Le Corbusier era affascinato dai primi aeroplani e transatlantici che, ironia della sorte, sono oggi emblematici di un’emergenza che ha portato al totale azzeramento del traffico aereo e alla quarantena di navi da crociera come la Diamond Princess. Figure come Frank Lloyd Wright, padre dell’architettura organica, cercavano invece una sintesi più armonica tra natura e ambiente costruito, tra funzionalità e spiritualità, spesso trovando riferimenti e ispirazione in altre culture.
Tra queste, la cultura giapponese ha affascinato molti architetti occidentali, per la sua capacità di esprimere armonia e ordine in maniera molto naturale. La casa tradizionale giapponese sembra infatti molto più adeguata a gestire una situazione di convivenza forzata e con forti implicazioni igieniche. Ad esempio è fondamentale lo spazio di ingresso che separa l’ambito domestico dalla strada, il Genkan, dove è obbligatorio togliere le scarpe e la giacca prima di entrare. Da qui attraverso un gradino, sul quale si trovano sempre pantofole anche per gli ospiti, si accede allo spazio più grande della casa, ma l’organizzazione non è per funzioni gerarchiche: una serie di porte scorrevoli permette di ampliare o comprimere lo spazio che è interpretato in funzione degli oggetti (pochi) che sono riposti in grandi armadiature. Scrive Bruno Munari nel 1960 in Arte come mestiere:
In questi ambienti così neutri una persona spicca e domina. Seduti sui tatami o sui cuscini, con un piccolo tavolo basso, unico mobile e unico oggetto laccato, si beve il tè, si mangia con le bacchette di legno un cibo semplice e sostanzioso (la cucina giapponese è come una cucina toscana ma orientale) e si beve il sakè. Alla fine del pranzo si buttano via le posate e i pochi piattini sono subito puliti e messi a posto. La camera da pranzo diventa soggiorno e più tardi diventerà camera da letto. Niente spostamenti di mobili, niente complicazioni, niente complesso dell’argenteria, tutto è più semplice.
Gli spazi non hanno quindi funzioni prestabilite, ma sono utilizzati in modo diverso secondo le necessità, grazie a oggetti semplici e funzionali. Una casa flessibile, adattabile alle esigenze tanto pratiche quanto emotive come scrive lo stesso Wright nella sua autobiografia:
Avevo infine trovato un Paese sulla terra in cui la semplicità, in quanto ‘naturale’, regna suprema. I pavimenti di queste dimore giapponesi sono tutti costruiti per viverci: per dormirvi, per inginocchiarvisi e mangiare, su soffici stuoie di seta, e meditare. Pavimenti sui quali sonare il flauto, o sui quali amare.
È evidente che la casa giapponese è un esempio molto specifico e peculiare di un’eccezionale cultura, con presupposti molto diversi dal nostro razionale approccio occidentale. Il confronto però evidenzia che è proprio dall’ambito domestico, dalla scala degli oggetti e dello spazio interno, che può nascere un progetto di espansione e amplificazione della domesticità ai tempi della COVID-19. L’efficienza modernista si fonda infatti su una chiara suddivisione delle funzioni a cui corrispondono tipologie distributive ottimizzate e separate per ogni specifica attività. Quest’obiettivo è stato perseguito per ordinare idealmente gli ambienti urbani ed evitare che speculazioni incontrollate mettessero in crisi il sistema, dal punto di vista infrastrutturale quanto igienico. Già prima dell’avvento di questa pandemia, questo apparato normativo mostrava i suoi limiti nei confronti di una società profondamente cambiata dove il lavoro diffuso, le dismissioni industriali, l’e-commerce e una concezione globale del mercato richiedevano una forte liberalizzazione all’interno delle metropoli. Andrea Branzi già nel 2006 auspicava una “Modernità debole e diffusa” e ravvisava come “il rapporto stretto tra forma e funzione si è disciolto: il computer non ha una funzione, ma tante funzioni quante sono le necessità dell’operatore. Siamo passati dall’epoca del funzionalismo a quella dei funzionoidi. Strumenti che non hanno una sola funzione ma tante funzioni quante sono le necessità dell’operatore.”
L’emergenza accelera i tempi di una trasformazione in atto in cui la sovrapposizione di queste attività all’interno di spazi più ibridi crea un corto circuito progettuale potenzialmente liberatorio per il disegno degli spazi e degli oggetti.
Il tramonto della Ville Radieuse Considerando poi non solo il singolo alloggio, ma l’aggregazione di abitazioni, emergono altre considerazioni di carattere più urbano. La densità urbana, la concentrazione di persone in unità di abitazione, il mattone della città moderna, anch’esso codificato nella visione di Le Corbusier, e che avrebbe garantito lo sviluppo radioso dell’urbanistica, ha avuto il merito di dare un alloggio – appunto efficiente, pulito, ottimizzato negli spazi – ai tanti inurbati della giovane società industrializzata di inizio Novecento. La città modernista, anch’essa organizzata rigidamente per gerarchie funzionali, già ampiamente messa in discussione a partire dagli anni ’60, mostra anche in questa condizione di emergenza sanitaria la sua fragilità. Le città verticali, dense, intensivamente organizzate sulla base delle cellule abitative minime, mostrano enormi criticità in una condizione in cui il distanziamento sociale è l’unica risposta all’attacco di un nemico invisibile come la COVID-19. Scrive profeticamente Andrea Branzi nel libro La casa calda nel 1984:
Lo spazio urbano collettivo risente oggi di troppi miti: per lungo tempo si è cercato di recuperare, attraverso la moltiplicazione degli spazi pubblici, la drammatica assenza di uno spazio domestico realmente vivibile. L’urbanistica moderna, a partire dalla Ville Radieuse fino agli attuali piani regolatori, è sempre stata fiduciosa nella possibilità che le forme di vita urbana collettiva fossero in grado di ricattare la mediocrità di un manufatto urbano costituito da tipologie abitative nate storicamente dall’ipotesi dell’existenz minimum.
Il luogo urbano, collocato all’interno di strutture residenziali immiserite nella loro funzione centrale di spazi domestici abitabili, oltre che culturalmente alienate in forme compositive puramente formali, è divenuto spesso un luogo morto, che nessun tipo di arredo urbano o di rinnovamento stilistico riesce a riscattare (…).
Risolvere l’equazione dell’abitabilità domestica, o almeno collocarla al centro del progetto, significa rifondare il teorema stesso della metropoli, stabilendo una nuova gerarchia d’intervento, che ne costituisca la soglia minima di accettabilità.
Altri modelli di città, caratterizzati da tessuti urbani meno densi, con edifici più bassi e distanti, così come quei quartieri e quelle aree più periferiche e provinciali, si prendono oggi la loro rivincita. Se è stato necessario trasformare i condomini grattacielo di Wuhan in compound militari per gestire il lockdown nella metropoli cinese, le garden cities ideate da Ebenezer Howard alla fine del Diciannovesimo secolo, più rarefatte, con case di dimensioni più contenute e immerse nel verde, rappresentano un modello più sostenibile benché di estensione maggiore. Coniugano infatti l’efficienza della condizione urbana con la genuinità di quella agricola, introducendo strutturalmente quegli spazi di condivisione semi privati, come giardini e terrazze, così preziosi in queste settimane di isolamento. I futuri sviluppi delle città dovranno tenere conto di questa esperienza, integrando alla consapevolezza della crisi ambientale anche quella dei limiti dell’estrema densità di popolazione.
Nuova prossemica e wearable technologies Uscendo dall’ambito residenziale, il nodo centrale resta anzitutto la distanza di sicurezza tra le persone, che riduce la probabilità che il virus si propaghi a causa del cosiddetto “droplet”, gocce di saliva che con uno starnuto o un colpo di tosse non protetto potrebbero propagare un’alta carica virale tra le persone.
La distanza di sicurezza ottimale, secondo le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dovrebbe essere di almeno 1 metro e ha già messo profondamente in discussione quei comportamenti sociali che ci contraddistinguono come cultura mediterranea: strette di mano, baci e abbracci, pacche sulle spalle, sono diventati gesti sconvenienti, se non addirittura proibiti.
Il corpo umano è costretto ad acquistare una nuova dimensione spaziale, una nuova prossemica o, in altre parole, un diverso uso che gli individui fanno dello spazio sociale e personale. Secondo Edward T. Hall, autore del 1968 del celebre “La dimensione nascosta. Il significato delle distanze tra i soggetti umani”, tutti noi siamo avvolti da una serie di sfere che rappresentano i diversi livelli della nostra intimità, secondo distanze che variano in funzione dei contesti e della cultura di appartenenza. La prima sfera, a una distanza di circa mezzo metro, è l’ambito dell’intimità; le seconda con un raggio di 1,2 m definisce lo spazio personale. Fino ai 3,6 m abbiamo poi lo spazio sociale, oltre il quale entriamo nello spazio pubblico. Dovendoci imporre almeno 1 metro di distanza saremo costretti a limitare ogni contatto interpersonale alla sfera sociale. Inconsapevolmente il duo austriaco dei Coophimmelb(l)au, nel 1971, realizzava l’installazione Restless Sphere per indagare le potenzialità delle strutture pneumatiche. I due s’inserivano all’interno di una sfera di plastica gonfiata di 4 metri di diametro facendola poi muovere camminando all’interno: un’immagine di straordinaria attualità. Se dal punto di vista sociologico e antropologico tale cambiamento apre enormi campi di ricerca, per architettura e design si tratta di una rivoluzione delle basi metodologiche del progetto stesso.
Per chi si occupa di progettazione di spazi e di oggetti, la comprensione delle misure del corpo umano, del suo ingombro, attraverso discipline come antropometria ed ergonomia, ha posto le basi, in funzione di studi statistici e dimensionali, della concezione dello spazio moderno: efficiente, confortevole, sicuro, igienico. La progettazione dell’existenz minimum si fondava su un’attenta valutazione di come un corpo medio agisce in uno spazio o utilizza un oggetto. Rappresentativa di questi studi di ergonomia fu la cosiddetta cucina di Francoforte, il primo prototipo di cucina componibile e standardizzata progettata da Margarete Schütte-Lihotzky nel 1926 per un sistema di 10.000 alloggi sociali a Francoforte. Grazie a questi studi lo spazio della cucina è stato compresso in un’unità minima ed efficiente, con misure adeguate a svolgere tutte le attività in sicurezza, risparmiando tempo ed energie. Questa che può sembrare una questione banale era, all’inizio del secolo scorso, una sfida politica e sociale, come scrive la stessa Schütte-Lihotzky in «Das neue Frankfurt» nel 1926::
La questione della razionalizzazione del lavoro della donna in casa è importante allo stesso modo per tutte le classi sociali. Sia le donne della media borghesia, che spesso non hanno aiuto in casa, e sia quelle della classe operaia, che devono lavorare anche fuori casa, sono stressate al punto che ci saranno serie conseguenze per la salute pubblica in generale.
Al tempo del coronavirus il corpo è anzitutto coinvolto dagli abiti e dai dispositivi di protezione che dovremo abituarci a indossare: mascherine, guanti, schermi protettivi sono già diventati oggetti di studio per il design e la moda. Prestigiosi istituti come il MIT, la Rhode Island School of Design, nonché studi di architettura e design internazionali (Iosa Ghini, BIG, Foster&Partners, Giulio Iacchetti, Studio Pastina, solo per citarne alcuni) hanno già iniziato a progettare mascherine e schermi protettivi, riproducibili in maniera molto semplice, utilizzando strumenti accessibili ormai a tutti come stampanti 3D e macchine a taglio laser. Un grande slancio open source che oltre a cercare di dare un buon design a oggetti e dispositivi che sono entrati nella nostra quotidianità in modo imprevisto, immagina anche forme di autoproduzione su larga scala, capaci di sopperire a una richiesta che la produzione industriale sembra non essere in grado di soddisfare. Prada, Louis Vitton e Cos hanno convertito temporaneamente parte delle loro linee di produzione per produrre mascherine, inizialmente in risposta all’emergenza, ma non si può escludere che per molto tempo questi dispositivi diventino veri e propri accessori da considerare nei propri outfit.
Existenz Maximum Gli studi sul corpo umano hanno permesso di definire gli standard dimensionali degli spazi dove si svolgono tutte le attività umane. La razionalizzazione degli spazi che abbiamo detto essere stata il mezzo per garantire sicurezza e comfort, è stata poi tradotta in norma, regolamento, legge, per indirizzare, monitorare e controllare la qualità, degli spazi nei quali viviamo e degli strumenti che usiamo.
Il progetto di una scuola, ad esempio, si basa su alcuni rapporti specifici, regolati anch’essi da leggi e decreti che riportano ancora oggi nella sostanza al Decreto Ministeriale del 18 Dicembre 1975. Secondo le norme in esso contenute, a ogni studente devono corrispondere 1,8 metri quadri netti in aula. Per ragioni di regole di esercizio, relative alla sicurezza antincendio, all’igiene e alla salubrità dell’aria, il numero massimo di studenti per aula è pari a venticinque. Questo significa che, mediamente, un’aula correttamente progettata ha una superficie di almeno 45 metri quadri netti.
La riapertura delle scuole, convivendo con il coronavirus, consoliderà l’accelerazione avvenuta nell’uso di strumenti di e-learning, cercando di compensare le conseguenze spaziali del metro di distanza che dovrà essere garantito, almeno per gli studenti più grandi, tra ogni alunno. Dovremo gestire una didattica ibrida, in parte a distanza e in parte in presenza fisica. Proviamo quindi a calcolare le conseguenze del distanziamento sociale nello spazio didattico: se immaginiamo un cerchio di 1 m di raggio, attorno ad ogni studente, come nuova sfera di sicurezza, il parametro dei metri quadri per ogni studente sale a 3,14 metri quadri, quasi il doppio di quanto previsto dalle norme iniziali di progetto. In parole povere, per garantire la distanza di sicurezza tra gli studenti, la capienza delle aule delle scuole dovrà essere all’incirca dimezzata, un solo alunno per banco, comportando scelte complesse di gestione come doppi turni, o trasformazione di spazi accessori in nuove aule. A questo si aggiungeranno altri fattori legati al tempo di permanenza, al volume di areazione e alle esigenze di sanificazione. Potrebbero intervenire elementi di protezione o di suddivisione leggera e mobile, capace di proteggere dai droplet, ma certamente il tempo e lo spazio dovranno essere orchestrati per garantire questa inedita distanza necessaria durante le ore di lezione, all’ingresso degli istituti e nei momenti di necessaria ricreazione. Significa sostanzialmente rivedere quel modello di progetto, peraltro già modificato nelle ultime e discusse riforme della scuola. Da diversi anni si prospetta una grande stagione di rinnovo del patrimonio edilizio scolastico pubblico, attraverso la ristrutturazione di ciò che è costruito o l’ampliamento con nuovi edifici. Questa emergenza, se affrontata con capacità di visione, potrebbe diventare una storica opportunità per avviare un percorso concreto verso un serio progetto di rivalutazione del nostro patrimonio scolastico, investendo, nei settori della progettazione e delle costruzioni, parte delle ingenti risorse rese disponibili dai nuovi equilibri economici internazionali.
Gli spazi del lavoro sono altrettanto codificati da stringenti norme, sia nazionali che regionali, che garantiscono livelli adeguati di comfort e di sicurezza. In particolare negli spazi di lavoro la progettazione deve considerare non solo le caratteristiche degli spazi, ma anche la qualità degli arredi e dei dispositivi che vengono utilizzati. Anche in questo tipo di ambienti sarà necessario rivedere i layout di quegli uffici condivisi da due o più persone, distanziando le postazioni, o innalzando barriere di protezione. Le aziende che si occupano di office design dovranno includere, o adattare in catalogo, nuovi sistemi di partizione in grado di rendere compatibili il distanziamento e l’attività lavorativa. Tornano alla memoria le scene del film Playtime di Jaques Tati, in cui il regista francese, nella sua pungente critica all’asettico spazio modernista, estremizza l’immagine dei cubicles tipici degli uffici americani anni ’50, che oggi potrebbero tornare prepotentemente attuali. L’orario di lavoro sarà forse diluito in doppi o tripli turni, distanziando i lavoratori nel tempo, laddove lo spazio non lo permetta. La dimensione domestica del lavoro, per la prima volta sperimentata in queste settimane in un modo così consistente, si consoliderà ulteriormente ritagliandosi un ruolo importante nelle tipologie abitative future. O addirittura il posto di lavoro potrà diventare mobile così come predetto da Hans Hollein nel 1969 con il suo Mobile Office, un ufficio gonfiabile trasparente capace di contenere al suo interno una persona e i pochi strumenti necessari per la sua attività: una tavola da disegno, un telefono ed una piccola macchina da scrivere (oggi riunificate nel solo laptop). Come immaginato da molte delle avanguardie degli anni ’60, l’architettura si smaterializza, evapora in dispositivi minimi capaci di generare environments, ambienti privi di confini fisici, nei quali organizzare un universo di oggetti: “l’unica architettura sarà la nostra vita”, come già diceva Superstudio all’interno della celebre installazione “La moglie di Lot” nella Biennale di Venezia del 1978.
Dopo settimane di reclusione in casa vorremo tornare a svagarci. Bar e ristoranti hanno riferimenti normativi legati per lo più a questioni igieniche e di areazione degli ambienti. Proviamo anche qui a fare due conti: la distanza tra i tavoli è legata più all’immagine e al livello del ristorante. Un tavolo ingombra mediamente 80×80 cm, con le sedie 120x120cm, a cui è necessario aggiungere un passaggio di almeno 40 cm per il cameriere. Complessivamente si considera di solito un ingombro di 1,2 metri quadri per posto a sedere. Sempre considerando un’area di sicurezza ampia tra i 3,5 e i 4 metri quadrati, avremmo di conseguenza un terzo degli avventori in sala. Anche i ristoratori dovranno immaginare di diluire nel tempo i clienti, per compensare i numeri che lo spazio non sarà più in grado di assicurargli. O immaginarsi servizi innovativi come box contenenti ingredienti selezionati e prelavorati, corredati da ricetta (magari con relativo link a videotutorial) per recapitare a domicilio un’esperienza culinaria di qualità. Le competenze dei food designers avranno un ruolo cruciale nel definire nuovi scenari, oggi impensabili, e convertire le ragioni di una crisi profonda in linee di innovazione e ricerca.
Il mondo dello spettacolo e della cultura si dovrà confrontare probabilmente con una duplice strategia, fatta di accesso sia fisico che virtuale all’informazione. La riduzione degli spettatori nelle sale cinematografiche e nei teatri sarà consistente: se consideriamo che mediamente una poltrona di una sala sia larga e profonda 50 cm, per essere distanti almeno 1 metro dagli altri spettatori, dovremo lasciare due poltrone libere per ogni posto occupato, disponendoci possibilmente a scacchiera con le file adiacenti. Avremo in sala quindi il 30% degli spettatori e il tempo tra uno spettacolo e l’altro dovrà probabilmente incrementare per permettere di igienizzare la sala. Nei teatri, secondo il tipo di sala, le scenografie stesse potrebbero permettere usi diversi degli spazi teatrali, recuperando eccezionali esperimenti del passato. Il teatro all’italiana potrebbe ad esempio favorire allestimenti scenografici come quello di Luca Ronconi per il Calderón di Pier Paolo Pasolini al Teatro Metastasio di Prato nel 1979. Gae Aulenti immaginò in quell’occasione di unire palcoscenico e platea con una grande pedana di legno, confinando il pubblico nei soli palchetti laterali, certamente più compatibili con il distanziamento sociale. I musei dovranno contingentare i visitatori all’ingresso e immaginare allestimenti capaci di permettere una fruizione delle opere a distanza di sicurezza dagli altri osservatori. Gli esperimenti di visita virtuale probabilmente verranno consolidati e integreranno le visite fisiche, cercando di compensare le limitazioni ai viaggi turistici che inevitabilmente dovremo subire.
Gli esercizi commerciali potrebbero considerare di ampliare gli ambiti del loro servizio agli spazi urbani, recuperando la dimensione del mercato all’aperto e facendo diventare l’attesa per l’ingresso contingentato, parte dell’esperienza di acquisto. I supermercati potrebbero procedere a una riconfigurazione delle corsie, aumentando la distanza tra gli scaffali o, come già succede a Londra, creare percorsi obbligati all’interno: il gioco dell’oca applicato alla spesa. Una strategia, che peraltro era già in atto, sarà certamente il recupero della dimensione locale della distribuzione con negozi di vicinato, piccoli mercati, o venditori ambulanti. Difficile dire se saranno semplici modi di ridurre il tempo di attesa e riappropriarsi di un senso di comunità o disperati tentativi di evitare che il commercio si sposti del tutto online.
La necessità di un progetto Tutto questo avverrà forse per un tempo determinato: il tempo di sconfiggere la COVID-19, o almeno di proteggere le fasce più a rischio con un vaccino, evitando di rischiare di travolgere i sistemi sanitari nazionali. Forse dovremo convivere con il nuovo coronavirus per sempre, come con il morbillo o la varicella.
Comunque sia, abbiamo oggi maggiore consapevolezza di ciò che la scienza aveva evidenziato da tempo: il rischio di pandemie virali di questa portata è ormai un fenomeno con cui il genere umano, se non vuole rinunciare alla sua nuova dimensione globalizzata ed iperconnessa, dovrà essere in grado di fare i conti.
A partire proprio da una sostanziale rivoluzione dei comportamenti sociali. Imporre una nuova grammatica prossemica, un nuovo uso dello spazio sociale e personale, non sarà semplice. I codici di comunicazione non verbale, esattamente come quelli verbali, sono insiti nelle culture di riferimento, gesti quasi innati come una stretta di mano. Cercare di immaginare il prossimo futuro significa spingersi in terreni scivolosi, ipotesi opinabili e repentinamente superabili. Volendo tuttavia ragionare sui possibili scenari reali di questa convivenza, emerge un’enorme questione progettuale che non può permettersi di escludere i settori dell’architettura e del design.
Il modo in cui organizzeremo lo spazio e la galassia di oggetti attorno a noi avrà un ruolo cruciale, non solo per far ripartire le nostre attività in sicurezza, ma anche per un importante scopo pedagogico. Come nei principi della scuola montessoriana, lo spazio può essere esso stesso maestro, veicolo di educazione capace di addestrare a nuovi comportamenti e agevolare nuove abitudini. La storia del progetto accennata in queste note, dal “cucchiaio alla città” come enunciato da Ernesto Nathan Rogers nel 1953, è il racconto di una costante sfida nell’interpretare le esigenze dell’uomo all’interno degli specifici contesti culturali, politici, filosofici e scientifici.
In Italia le capacità progettuali sono già state le protagoniste, nel secondo dopoguerra, della ricostruzione fisica e sociale del paese, grazie all’alleanza di serie visioni politiche e di un fertile tessuto imprenditoriale: una stagione eccezionale che ha contribuito ad affermare nel modo la straordinaria qualità del Made in Italy.
Il governo in questa fase non ha ritenuto di coinvolgere progettisti all’interno della task force incaricata di definire le modalità di una progressiva ripartenza dopo l’emergenza sanitaria. Ma il mondo del progetto deve contribuire, anziché solo subire, alla definizione delle caratteristiche di questo nuovo spazio: una storica opportunità per il design di ripensare il proprio ruolo e di tornare a lavorare per il mondo reale, come auspicato da personaggi come Victor Papanek sin dagli anni ’70 e non a caso recentemente riscoperti.
Perché la sfida non è trovare una nuova normalità, ma provare a disegnare un futuro eccezionale.
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Immagini tratte dalla serie de Le dodici Città. Ideali. Premonizioni della parusia urbanistica. Di Superstudio, 1971. Per gentile concessione dell’Archivio Superstudio.
Le dodici Città Ideali costituiscono, come buona parte della produzione del gruppo radicale fiorentino del Superstudio, una critica feroce e definitiva al modernismo e al conseguente sistema dell’architettura. Utilizzando il metodo delle equazioni mutuato dalla matematica, i fenomeni urbanistici vengono portati ai loro limiti attraverso l’uso dell’ironia e dell’assurdo, per evidenziarne le contraddizioni e le perversioni. Il tutto nella forma del racconto di fantascienza illustrato.
Il lavoro fu pubblicato inizialmente sulla rivista Architectural Design, con il titolo Twelve Cautionary Tales for Christmas e, successivamente, sulla rivista Casabella nel gennaio del 1972.