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mir Reza Koohestani è uno dei nomi di punta della scena teatrale iraniana, un artista apprezzatissimo nel circuito internazionale – diversi suoi lavori sono stati coprodotti dalla Francia, mentre adesso è la Germania che maggiormente sostiene il suo lavoro – che sta diventando una presenza abituale anche in Italia, grazie alla lungimiranza e alla caparbietà del Festival delle Colline Torinesi. Da un po’ di anni a questa parte, infatti, la manifestazione fondata da Isabella Lagattolla e Sergio Ariotti programma con costanza tutti i nuovi lavori del regista e del suo Merh Theatre Group. La prima volta che ho visto un suo lavoro, tuttavia, è stato al Festival di Santarcangelo – un’edizione targata Silvia Bottiroli – con uno spettacolo che si è incastonato con forza nella mia memoria, perché con pochissimi mezzi ragionava sul rapporto tra pubblico e privato, e tra realtà e finzione, in modo straordinario. Quel lavoro si intitolava Timeloss e non è un caso, visto che proprio il tempo si rivelerà una delle ossessioni del regista e drammaturgo persiano.
In quello spettacolo un uomo e una donna, un tempo amanti e attori della medesima compagnia, si trovano a lavorare insieme al doppiaggio di uno spettacolo di successo a cui presero parte una decina di anni prima, quando cioè stavano insieme. Quello spettacolo – che è in realtà la pièce che nel 2001 a fatto conosce Koohestani al pubblico internazionale, Dance on glasses – parla di una coppia che si sta lasciando. Il cortocircuito tra il presente e il passato dei due attori, due diversi piani temporali che si intersecano a loro volta con la realtà del testo che stanno doppiando – quel testo che parla a sua volta di una separazione – crea una detonazione di senso incredibile. Molte volte il passaggio dal piano della finzione a quello della realtà (e cioè dalla crisi raccontata dal testo a quella “vera” dei personaggi) è così sfumato che capita di perdersi, ma la drammaturgia di Koohestani è talmente raffinata che ogni volta che, puntualmente, ci si ritrova lo si fa come di fronte ad un’epifania. Non è un caso che il regista iraniano abbia cominciato come cineasta, prima di approdare a teatro: il suo gioco metatetrale ha più il fascino delle pellicole lynchane – pur aderendo ad un rigido realismo – che quello delle girandole pirandelliane.
Anche se prende spunto da un dramma sentimentale, Timeloss – al pari del film di Asghar Farhadi vincitore dell’Orso d’oro nel 2011, Una separazione – è anche una potente lente attraverso cui guardare la società iraniana. Le domande sullo scorrere del tempo, sui motivi della separazione, intrecciati mirabilmente con il testo dello spettacolo da doppiare e con la loro voce “giovane” registrata e riascoltata, lasciano intravedere spunti su come il contesto, il lavoro, la società, il tempo abbiano agito sui due personaggi, rendendoli più duri, più disillusi e amari. Sono riflessioni universali, chiaramente, ma proprio per questo agiscono come un ponte tra la nostra condizione di europei e quella di chi vive in Iran, un luogo che percepiamo con un forte “esotismo negativo” a causa dell’intrecciarsi della propaganda antipersiana di una parte dei media occidentali e la condizione liberticida della vita pubblica di quel paese.
Il teatro – almeno il teatro più raffinato – è un’arte che non affronta necessariamente in forma diretta le grandi contraddizioni sociali e politiche del contesto che racconta, ma è in grado di tenerle sempre presenti, di evocarle nell’intreccio di situazioni che parlano di altro, nelle storie dei personaggi ad esempio, tanto più quando le vite che racconta diventano “risposte biografiche a contraddizioni sistemiche” – una frase del sociologo tedesco Ulrich Beck che ben si adatta al nostro tempo, a prescindere dalle latitudini. Se questo è vero in generale, lo è tanto più in un contesto come quello iraniano, dove gli addetti del mistero controllano l’aderenza ai precetti islamici di ciò che va in scena (sì, si chiama censura, un istituto che, è bene ricordarlo, esisteva anche da noi fino a non molto tempo fa).
Cosa è reale e cosa non lo è: è proprio il teatro – l’arte che da secoli si interroga su questo – ad avere la lingua più evoluta per parlarne.
L’immagine che ho della prima volta che sono stato a Teheran può sembrare un’invenzione letteraria e invece è genuinamente autentica: un vecchio chiromante che al Cafè Godot, un bar del centro interamente dedicato al classico di Samuel Beckett, mi dice sornione: “Benvenuto nel più grande spettacolo dell’assurdo del mondo!”. La frase era certamente a effetto, visto il luogo in cui ci trovavamo e visto il fatto che io gli avevo appena raccontato il motivo della mia visita: seguire il Fajr Festival, la principale manifestazione teatrale iraniana. Ma a suo modo contiene una verità. Al di là della battuta, quello che voleva dire il mio interlocutore – si rivelò persona coltissima e assai poco incline alla superstizione, visto che mi confessò di non credere affatto alla chiromanzia che praticava, a suo dire, soltanto per denaro – è che molte cose in Iran hanno una doppio piano di lettura. Certi siti internet sono bloccati dai provider ufficiali, ma esiste un modo per aggirare i filtri. La televisione satellitare sarebbe vietata, ma molta gente vede comunque BBC farsi, il canale all news in lingua iraniana che trasmette da Londra. Ed è ben nota l’effervescenza dell’underground artistico iraniano, ad esempio quello musicale raccontato da pellicole come No one knows about persian cats, e anche se una parte della musica occidentale sarebbe proibita non è difficile entrare in contatto con essa. Insomma, è come se la realtà oscillasse continuamente su due piani, quello della norma e quello della vita, quello visibile e quello nascosto, quello ufficiale e quello non ufficiale. Cosa è reale e cosa non lo è, verrebbe a quel punto da chiedersi. E di fronte a una domanda simile è proprio il teatro – l’arte che da secoli si interroga su questo – ad avere la lingua più evoluta per parlarne.
Durante il festival mi capitò di vedere diversi lavori che giocavano coi limiti imposti dalla censura, che ogni tanto si materializzava sotto forma di un addetto del ministero, seduto in prima fila a prendere appunti, che gli ospiti stranieri – io incluso – scambiavano per un critico. Ad esempio un lavoro molto fisico, basato sull’Otello di Shakespeare, dove le attrici indossavano lunghe tuniche e delle cuffie a nascondere i capelli che le facevano sembrare personaggi metafisici (la soluzione non funzionò perché a causa di questa performance alla regista, Atefeh Tehrani, fu vietato di mettere in scena spettacoli in Iran per i sei anni successivi). Oppure Mud di Yaser Khaseb, uno spettacolo a cavallo tra il teatro fisico e la danza, completamente senza parole, che metteva in scena la nascita di una sorta di golem che si ribella al suo creatore attraverso la coreografia di due danzatori immersi nel fango. Ma forse il momento più intenso fu la messa in scena del Caligola di Albert Camus da parte di un giovane regista, Homayoun Ghanizadeh. Questo testo ha assunto un valore universale come ruvido affresco del potere tirannico e della spirale di delirio che disegna il suo esercizio.
La follia dell’imperatore romano è stata immediatamente associata a quella dei dittatori europei, tanto più che le prime messe in scena di questo testo avvennero a ridosso e durante la seconda guerra mondiale. Per quanto la versione di Ghanizadeh fosse caratterizzata da un’antinaturalismo smaccato, con delle movenze degli attori quasi marionettistiche, ascoltare il testo di Camus recitato in farsi in un palcoscenico che – come in tutti i teatri pubblici dell’Iran – vedeva campeggiare alla sua destra e alla sua sinistra i ritratti degli ayatollah Khomeini e Khamenei, sortiva un certo effetto. Ma nel momento in cui vengono eliminati i senatori e, una volta uccisi, i loro corpi sono sistemati in moderni sacchi neri di plastica, il silenzio del pubblico si fece totale e l’attenzione qualcosa di palpabile. Le immagini delle proteste contro il governo di Ahmadinejad erano ancora vive negli occhi della gente, così come la repressione del movimento verde che era costata decine di morti tra i manifestati, molti dei quali portati via dentro sacchi neri come quelli che facevano la loro comparsa sul palco. Alla fine della rappresentazione più di una persona mi disse che gli sembrava incredibile che uno spettacolo simile non fosse stato censurato.
“A un certo punto ti rendi conto la che la censura diventa una questione puramente formale”. Questa considerazione è di Riccardo Fazi, autore e regista teatrale con cui di recente ho avuto modo di conversare di Iran durante una trasmissione radiofonica su Radio 3. La sua compagnia, Muta Imago, è stata molte volte nel paese, ottenendo ottimi riscontri ed importanti riconoscimenti. Ogni volta che la compagnia andava in scena doveva confrontarsi con una commissione che valutava se gli elementi degli spettacoli fossero o meno in linea con i principi islamici: uno dei loro spettacoli più conosciuti, (a+b)3, fatto solo di ombre e di gesti, dovette essere parzialmente cambiato perché comprendeva una scena dove si beve vino e un’altra dove una donna fuma una sigaretta. “Ma nessuno ci ha mai chiesto, paradossalmente, di intervenire sul contenuto: visto che lo spettacolo parla di guerra poteva anche accadere. E altrettanto è successo con Pictures from Gihan, un lavoro che parla della primavera araba in Egitto, dove affrontiamo il tema della rivoluzione: nessuna obiezione rispetto al testo”. È questa la contraddizione che a Riccardo Fazi appare macroscopica, ma nello stesso tempo testimonia di una realtà molto più complessa di quella che concepiamo attraverso i media:
La sensazione è quella di trovarsi di fronte a una società con delle regole molto rigide, ma allo stesso tempo in continua mutazione ed evoluzione, molto più di quanto lo si possa immaginare da qui.
Dovendo fronteggiare una dimensione di questo tipo, dove le maglie della possibilità di esprimersi sono incerte e si allargano o si restringono a seconda del momento storico e della situazione politica, il teatro iraniano ha sviluppato un’attitudine particolare a lavorare in modo raffinato sull’allegoria. A ragionare per metafore. A usare la forma indiretta per essere diretti. Qualcosa di estremamente vicino all’indagine e alla sperimentazione di gran parte della drammaturgia contemporanea europea, nonostante i presupposti, i punti di partenza e le finalità siano radicalmente differenti. È una sfida con il limite, che alle volte assume una dimensione sottile che può sfuggire alla sensibilità europea: più di una volta, conversando con gli artisti di Teheran, mi è capitato di sentir muovere delle critiche ai colleghi che scelgono di adottare un linguaggio frontale contro la situazione politica in Iran, con il risultato di essere censurati in patria ma ottenendo, in compenso, visibilità internazionale. “Ha molto più senso, politicamente, parlare agli iraniani forzando i limiti imposti, aggirando i divieti in modo creativo per far arrivare il proprio messaggio”, mi ha detto una volta un performer che preferiva restare anonimo. “Gli europei hanno già una visione severa della situazione politica in Iran: rafforzare il loro giudizio, che alle volte è semplicistico, non serve a nulla”.
Amir Reza Koohestani è certamente uno degli autori e registi più raffinati dell’ultima generazione, tra quelli che hanno trasformato questa attitudine in una vera e propria lingua teatrale. Il suo ultimo lavoro – anch’esso presentato al Festival delle Colline Torinesi – si intitola Summerless e ancora una volta, già dal titolo, si delinea nuovamente e con forza l’indagine quasi ossessiva che il regista fa attorno allo scorrere del tempo. Quanto siamo determinati nel presente da ciò che siamo stati in passato? Qual è il ruolo che hanno la memoria e il ricordo e quando si trasformano in un peso? Nell’anno “senza estate” messo in scena da Koohestani si intrecciano le vite di tre persone adulte e una bambina. Tutto avviene all’interno di una scuola elementare privata, dove una donna, sorvegliante scolastica, chiama il suo ex marito, pittore e una volta insegnante di disegno, a imbiancare i murales che stanno sulla facciata dell’edificio, che riportano frasi dell’epoca della rivoluzione khomeinista, per sostituirli con opere più moderne. Il terzo personaggio è la madre di una bambina di otto anni, iscritta alla scuola, che si è innamorata del pittore con lo slancio ingenuo dell’infanzia, senza alcuna malizia o ombra di sessualità. La madre, preoccupata, accusa il pittore di esercitare un’influenza negativa sulla figlia.
La dirigente, che ha un rapporto non risolto con l’ex marito ma lo ha chiamato comunque a lavorare per la scuola, comincia a domandarsi se lui abbia avuto un ruolo in questa infatuazione – e i dubbi si intrecciano ai rancori passati, al dolore per un figlio mai avuto, alla solitudine generata dalla fine dell’amore. Il pittore, pur dovendo fronteggiare il sospetto di pedofilia nei suoi confronti, resta sempre mite, e sembra riversare nella pittura ogni suo sentimento, quell’arte di cui aveva scelto di vivere, a cui non aveva saputo rinunciare per dare un figlio alla compagna di allora, innescando così la separazione. Il discorso sul passato della ex coppia si intreccia con la situazione attuale e con il dialogo che la madre, preoccupata, intreccia con lui giorno dopo giorno, perché il pittore se la prende comoda visto l’esiguo compenso che gli è stato proposto per quel lavoro. L’intreccio prende piano piano un taglio più onirico quando la madre si accorge che il dipinto con cui il pittore sta sostituendo i vecchi slogan rivoluzionari è, in realtà, il volto di lei. Ancora una volta è l’intreccio tra presente e passato, il dubbio tra ciò che è reale e ciò che non lo è, a dipanare di fronte allo spettatore la condizione sospesa dei personaggi, abitanti di estrazione economica non alta di una Teheran in profonda trasformazione, dove l’arte muraria è davvero un segno che rispecchia il mutare dei tempi – un mutare che però stride con la condizione sospesa delle vite dei protagonisti.
Ma l’apice del suo spettacolo è nella scena finale, quando i tre adulti si ritrovano sulla giostra che campeggia nel mezzo della scenografia, per spiegare alla bambina – presenza assenza dello spettacolo, perché non la si vede mai – che il suo sentimento d’amore, esuberante e senza briglie impostate dalla società, dall’opportunità o anche soltanto dalla logica, è qualcosa “di sbagliato”. L’uomo è un adulto, lei è una bambina, queste sono solo fantasie, tutto cambierà col tempo. Amir Reza Koohestani racconta che quasi sempre i suoi lavori nascono da un’immagine, attorno alla quale si sviluppa in seguito l’intero spettacolo. L’immagine guida di Summerless, di questo anno senza estate, senza la stagione della spensieratezza, è proprio questa del finale: degli adulti che dicono a una bambina che ciò che sente è sbagliato. Una bambina che degli adulti non può capirne le logiche, che sente inevitabilmente qualcosa spezzarsi, e quel qualcosa è l’inizio dell’età adulta e la fine dell’infanzia.
Nel teatro di Amir Reza Koohestani non ci sono proclami sulla condizione iraniana, né soluzioni possibili a ipotetici problemi. In una recente intervista il regista iraniano ha dichiarato che il teatro ha il compito di porre delle domande “ad alta voce”, ma non necessariamente ha il dovere di fornire una risposta. “Fornire una risposta non è una mia responsabilità; il motivo per cui faccio teatro è trovarle assieme agli altri”.