A partire dagli anni Novanta, la Socìetas Raffaello Sanzio ha dedicato una riflessione radicale alla relazione tra infanzia e pratiche teatrali. Nel “teatro infantile”, e in particolare nella ricerca di Chiara Guidi, i bambini sono chiamati a conferire una “seconda vita” alle cose, mettendo alla prova la realtà. Cosa possiamo apprendere da questo loro esercizio immaginativo? Ne discuto con Lucia Amara, teorica delle arti tra performance, filosofia e letteratura, attenta studiosa di autori spesso tralasciati – come Fernand Deligny e Michel de Certeau –, che insieme a Chiara Guidi ha pubblicato Teatro Infantile. L’arte scenica davanti agli occhi di un bambino (Luca Sossella Editore, con la cura di Cristina Ventrucci). Un libro a quattro mani che, coniugando prassi e teoria, mette alla prova una visione d’infanzia come categoria.
Giorgiomaria Cornelio: Uno degli assunti fondamentali del Teatro Infantile è che i bambini non sono “innocui”. Il loro chiasso è demolizione di certezze, punto di crisi di ogni rappresentazione; i bambini compiono l’opera di un altro mondo, e si prendono gioco di questo, come si dice in apertura al vostro libro, citando I Detti di Rabi’a. Eppure, le attuali politiche “educative” sono sempre più protettive e costrittive, recintano il bambino in un’idea di infanzia che assomiglia a una prigione. Questo recinto spesso viene applicato anche al teatro… Bisognerebbe invertire la rotta?
Mi serviva questa premessa per riallacciarmi e tornare alla tua domanda che riguarda la tendenza, insita nella pedagogia e nel teatro per bambini, a costruirgli attorno un recinto. In realtà Chiara Guidi i recinti per i bambini in qualche modo li costruisce – la progettazione dello spazio in cui fare muovere i bambini è uno dei fondamenti del suo metodo: non sono prigioni ma trappole dove in bambini cadono e in cui l’irretimento fa parte del gioco e lo scatena, dove l’immaginazione viene catturata per essere liberata. Proprio per sfuggire all’idea di spazio per l’infanzia come edificazione di un recinto contenitivo, Chiara ed io, nella fase di progettazione iniziale del libro, abbiamo pensato all’idea di una infanzia universale. In certi casi ne parlavamo come di una categoria grazie alla quale potevamo divincolarci dalla “pressione”, sociale e familiare, che circonda i bambini.
Una categoria che rompe con ogni vincolo dell’attualità…
Quale idea di infanzia andrebbe allora esplorata? O meglio: come fare a non piegare l’infanzia a una sola categoria, o rappresentazione?
Sia io che Chiara riteniamo che la distanza sia un principio determinante del gesto pedagogico, o di chi guida “ad arte” i bambini. Un esempio crudele lo dà il Pifferaraio magico, che allontanò i bambini seducendoli con il suono del suo flauto per portarli al di là della montagna, fuori dall’orizzonte di sguardo degli adulti, per scomparire per sempre. La risoluzione è agghiacciante, ma come tutte le scritture che vengono da miti, si tratta della ricapitolazione di paure o pericoli collettivi, che l’infanzia in sé produce. Eppure si ipotizza che la leggenda alluda a una trasmigrazione per fondare nuovi paesi, o a una danza rituale in cui si simulava l’aldilà. Il vero pericolo per noi è quando una società non proietta alcuna visione di infanzia, quando l’infanzia non produce nulla, quando diventa silente perché fatta tacere. Pensiamo al personaggio di ’Useppe ne La Storia di Elsa Morante, costretto a passare i primi anni della sua vita in un rifugio. In mancanza di un mondo adulto capace di farlo mangiare e respirare, è lui stesso a creare una visione di sé (più tardi arriverà la diagnosi di autismo) Quando la madre, finita la guerra, lo porterà a scuola, il bambino si manifesterà incapace di “starci”. Quando una società non è in grado di attendere al bambino e di produrre una visione di infanzia, quella società è al collasso, come succede in tempi di guerra o quando l’infanzia è messa allo scacco.
Abbiamo un riferimento, da cui traiamo nutrimento per una visione di infanzia non conformista ma di alta levatura estetica, cioè Fernand Deligny. Per me e Chiara è fonte continua di ispirazione, soprattutto per linee di erranza, le mappe in cui l’educatore francese iscriveva e tracciava i percorsi dei bambini.
Dici che “lo sguardo non è mai ingenuo”, e – in effetti – in tutto il vostro libro viene continuamente chiarito che il compito del teatro non è quello di disciplinare lo sguardo dei bambini, ma piuttosto quello di creare uno spazio adatto all’esplorazione. Hai citato Fernand Deligny. Lui si occupava di bambini gravemente psicotici, e negli anni settanta si era spostato con loro nelle montagne della Cévennes; sebbene vi siano delle evidenti differenze, in questa transumanza mi sembra di vedere qualcosa di profondamente connesso alla pratica del Teatro Infantile. Scriveva Deligny in un suo appunto: “bisogna che la persona che cammina alla testa del gregge abbia deviato parecchio dal suo destino, perché questi bambini possano sfuggire al loro, di destino”.
Quindi, più che chiedersi cosa sia giusto o sbagliato per i bambini, si tratterebbe di deviare, di ritrarsi dal mondo delle consuetudini, e accettare di “mettersi in cammino” con loro per offrire uno spazio diverso… una poetica errante, come quella operata dal Teatro Infantile. Ma come si costruisce un metodo basato su una continua migrazione? Come arriva a “nascere”? E quali sono i suoi riferimenti?
E proprio con una pubblica chiamata la Socìetas Raffaello Sanzio aveva radunato un gruppo di bambini che sarebbero stati guidati con cadenza settimanale, usando gli strumenti del teatro, del gioco e della mimesi, in un percorso che sarebbe diventato anche di conoscenza, nonostante non fosse quello l’obiettivo immediato. Subito dal primo anno, Chiara stabilì regole spaziali molto precise, una sorta di prossemica, che è l’arte di prendere misure e distanze. Già quando i bambini entravano al Comandini, oltre a lasciarsi indietro i genitori, che non avevano accesso allo spazio, dovevano ogni volta avere la sensazione di oltrepassare una soglia. La Scuola Sperimentale si inaugurò, dunque, con l’idea di una messa al varo di distanze e vicinanze, principio fondamentale della pedagogia. Il momento del passaggio veniva di volta in volta ritualizzato. Il primo giorno, quello dell’inizio, al varco seguiva un recinto delimitato da cubetti infuocati e riempito di terra, ricolma di ortaggi, su cui i bambini potevano affondare i piedi. Lo spazio seguente era il vestibolo dove il bambino indossava il suo costume e apprendeva da Chiara il gioco della giornata. La consegna vera e propria, poi, avveniva nella seconda zona, la tana, che è il rifugio classico di ogni infanzia. Indossato il costume si procedeva nella terza zona, quella della lotta e del combattimento. Liberare un luogo dal nemico, attaccare un drago o un mostro, ecc… Questa complessa articolazione di luoghi, caratteristica tuttora presente nel metodo di Chiara Guidi, assolve a un duplice obiettivo: far rimanere il bambino nel presente dell’azione e, dunque, nel luogo del qui, e, al contempo, prospettare la presenza di altri luoghi immaginifici…
Altri luoghi come spazi di indagine, spesso condivisi con “presenze altre”: pecore, cavalli, agnellini… Il Teatro Infantile consegna il bambino all’animalità; eppure, questa animalità non si dà come un regno d’identità chiuse, osservabili dall’esterno, ma come un mondo di potenze inespresse del corpo. Ti pongo allora un’ultima domanda: il teatrante è colui che fa danzare queste potenze inespresse?
Nel mondo infantile, dove a dominare è la verità del gesto e del gioco mimetico, dove il linguaggio è tale solo se introiettato e restituito in azione, soltanto il corpo può essere convocato come potenza delle potenze. Difficile non fare riferimento ad Antonin Artaud che, a proposito del mito di Tantalo, associa la parola della veggente Cassandra al ribollire delle potenze creatrici. Sarà una danza alla rovescia quella capace di mettere in tumulto la materia corporea.