N el 2001 Milan Kundera ha scritto un intervento in cui rendeva conto di un’idea che lo stesso autore definiva un po’ bizzarra, ma che tutto sommato sembra anticipare una tendenza che attraversa la nostra società: i protagonisti dei grandi romanzi non hanno figli. Non è che manchino personaggi che vivono la condizione di essere figli o genitori di qualcuno, ma è una condizione che viene espulsa dalla storia, che sta prima o dopo di essa e comunque fuori dal frame del racconto. È la genitorialità il problema, specie se si tratta di genitori di figli piccoli. E secondo Kundera non è casuale: il romanzo nasce e si afferma con la Modernità, che mette l’individuo al centro di tutto, mentre la procreazione è per definizione un “fare spazio” a un qualcun altro che prima non c’era, che assorbe il nostro tempo, le nostre energie, le nostre preoccupazioni, il nostro denaro. È abbastanza evidente che questa considerazione che riguarda la letteratura si possa specchiare con una certa fedeltà in una dinamica del tempo presente, dove pure tutto è spostato sull’individuo, sulla sua unicità e centralità come protagonista della sua storia.
Discussioni sui voli child-free o i casi di intolleranza all’allattamento in pubblico sono solo alcuni dei segnali del cono d’ombra in cui la genitorialità (soprattutto neonatale) è stata relegata dalla narrazione contemporanea. Intendiamoci: emanciparsi dal modello di famiglia tradizionale, valorizzare i percorsi individuali al di là dell’obiettivo del matrimonio e della riproduzione sono tappe importanti nella creazione di una contronarrazione dell’esistenza, in virtù della quale non si è necessariamente “strani” se si decide di non mettere su famiglia per dedicarsi al lavoro, a viaggiare, a se stessi. Ma il semplice fatto che se ne parli in un paese tradizionalmente familista come il nostro è sintomo di un cambio di percezione.
Tornando ai romanzi, Kundera nel suo intervento individua una nutrita schiera di classici che presentano questa caratteristica:
Né Pantagruele, né Panurge, né Don Chisciotte hanno figli. Né Valmont, né Madame de Merteuil né la virtuosa Presidentessa del romanzo di Laclos. Né Werther. E neppure i grandi personaggi di Stendhal: Julien Sorel, Fabrizio del Dongo, Lucien Leuwen, Lamiel, Armance; senza figli sono pure Rastignac, Lucien de Rubempré, Vautrin; così come i personaggi di Dostoevskij: Stavrógin, Myskin, Raskól’ nikof, Kiríllof. E, naturalmente, l’Ulrich di Musil, ma anche sua sorella Agathe, e Diotima, e Clarisse e Walter, e il protagonista di Alla ricerca del tempo perduto, e i tre protagonisti della trilogia di Broch, e Sc’vèik, e tutti senza nessuna eccezione i personaggi di Gombrowicz e di Kafka, eccetto Karl Rossmann che ha un figlio da una serva, ma che, precisamente per sfuggire al proprio destino di padre, intraprende un viaggio in America, dando così vita al romanzo.
All’opposto di questa tendenza che lo scrittore ceco ritiene maggioritaria, a fronte di un’esigua percentuale di persone senza figli che esistono al mondo, si situa un romanzo come Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez, dove è addirittura la moltitudine famigliare ad assurgere a protagonista della narrazione. Già, eppure non può sfuggire come il contesto di quel romanzo affondi in un esotismo del passato, una dimensione dissolta o almeno mitigata dal tempo: un dilagare della trasmissione genetica decisamente agli antipodi dell’odierna tendenza all’infertilità.
Narrativamente la dimensione famigliare è poco interessante. Il genitore è al massimo l’antagonista dell’adolescente ribelle, quando la narrazione si sposta sul punto di vista dei figli, oppure l’osservatore bovino di un mondo a lui incomprensibile. Non a caso nelle tante pellicole che il cinema anni Ottanta ha dedicato all’infanzia (ET, Stand by me, I goonies, IT) gli adulti sono del tutto inconsapevoli dei mondi fantastici, misteriosi o inquietanti a cui hanno accesso i loro figli. E anche se nell’operazione Stranger Things questo paradigma si incrina leggermente, comunque sia gli adulti restano ai margini di un intreccio narrativo che ruota sostanzialmente attorno alla preadolescenza e alle sue dinamiche. D’altronde come vivere delle avventure degne di questo nome se ci si trova nella campana di vetro che la famiglia costruisce per proteggerci dal mondo? Come entrare a contatto con la “vita” vera, fantastica o reale che essa sia? Nei manga giapponesi questo ragionamento è talmente pervasivo da divenire assioma, tanto che la quasi maggioranza dei protagonisti in età adolescente o prepuberale è orfano o senza i genitori. Libero di confrontarsi col mondo come un individuo unico e irripetibile. Un essere speciale, che quanto la contemporaneità promette a tutti – splendida contraddizione – di diventare.
L’Italia però è un paese che invecchia. Gli ultimi dati Istat parlano della cifra record di donne senza figli toccata nel 2017, il 21,8% della generazione delle quarantenni, circa cinque milioni e mezzo di donne tra i diciotto e i quarantanove anni che hanno “rinunciato ad essere madri”. (Sì, la statistica valuta la natalità a partire dalle donne che non si sono riprodotte e non dagli uomini, mentre i media utilizzano regolarmente termini come “rinuncia” – in questo caso era il Corriere della Sera –, il che la dice lunga sul tasso di emancipazione dal modello femminile tradizionale raggiunto nel nostro paese). Certo, il problema della natalità decrescente è un tema complesso, che non si interseca soltanto con la questione del sistema pensionistico e fiscale: riguarda anche il significato che diamo alle nostre vite, i desideri e le speranze che le accompagnano, le possibilità che cogliamo o scartiamo, i ruoli – più o meno sociali – che decidiamo di interpretare.
Il teatro contemporaneo ha cercato, nell’ultima stagione, di affrontare questa complessità da varie angolazioni. La scorsa stagione, infatti, diversi spettacoli – che sono tutt’ora in scena – hanno scelto di raccontare la dimensione dell’essere o non essere genitori. È una cosa che colpisce, perché i grandi testi teatrali non sfuggono alla regola di Kundera – Amleto, Nora, Mackie Messer, Zio Vanja o Valdimiro ed Estragone sono piuttosto lontani da pappette e pannolini. Ma lo stupore è relativo se pensiamo che uno degli obiettivi dichiarati dei drammaturghi e degli autori degli ultimi vent’anni è la decostruzione dei discorsi mainstream, e quello sulla maternità sta tornando ad esserlo su più fronti. Farsi fuori di Luisa Merloni, ad esempio, con un’ironia tagliente riflette sugli stereotipi con cui una donna di quarant’anni, precaria della cultura, deve fare i conti per il fatto di non aver avuto figli.
Da anni Luisa Merloni lavora su una comicità del quotidiano, del goffo e dell’inadeguato rispetto alle richieste del mondo, costruendo una sorta di super-personaggio alla Briget Jones (ma senza l’aspetto leccato delle commedie brillanti) che attraversa diversi suoi spettacoli e interpretazioni. Quella della mancata maternità è dunque per lei una sorta di tema ideale. Ma il fatto che la protagonista del suo spettacolo sia un’attrice – un’attrice che viene più volte interrotta mentre recita dalle telefonate della madre settantenne in crisi sentimentale – aggiunge un tassello: quanto c’entrano con le nostre scelte le condizioni economiche e sociali con cui ci confrontiamo? Già, perché quando sei un’attrice precaria – non di quelle che guadagnano molto con le fiction e il cinema ma di quelle che per ogni spettacolo devono sfasciarsi la testa per risolvere il rebus della produzione, affinché il teatro non si tramuti in un hobby costoso o in una sorta di missione ispirata da chissà quale malevola divinità – con quale coraggio affronti l’idea di “mettere su famiglia”?
Il precariato culturale somma due delle condizioni che portano i giovani italiani a non fare figli o a farli molto tardi: insicurezza economica, talvolta abitativa, e una professione che mescola identità lavorativa e autoaffermazione così profondamente da non lasciare spazio per altro. Una volta compiuta questa scelta d’emancipazione, però, ecco che fa capolino l’idea di aver mancato comunque qualcosa. “Non riesco più a distinguere se la maternità è un desiderio autentico oppure se semplicemente aderisco a una pressione sociale”, si chiede il personaggio. Che, tirato per la giacca in direzioni opposte, finisce per sdoppiarsi: da un lato la persona consapevole che sceglie di non fare figli e che sa di dover combattere una battaglia per questo (“alla fine mi pare che tutto sia più accettabile di una donna che consapevolmente decida di non concepire”), dall’altra la donna madre per eccellenza, il modello ultimo: la Madonna. L’ingresso in scena di un arcangelo piuttosto surreale e dall’accento argentino (Marco Quaglia) permette a Luisa Merloni di vivere – in un meccanismo alla sliding doors – quella possibilità non vissuta, quella di essere madre. Anzi: la madre, quella che concepisce un figlio senza essere toccata da uomo (non perché sia vergine, ma per una crisi di coppia, essendo la sfera sentimentale l’altro grande pilastro della precarietà contemporanea).
Ma nemmeno questo ideale concretizzato è privo di rischi, perché la madre per eccellenza è la donna che prova amore infinito, che si annulla per i propri figli, e fare ciò non solo contraddice la sacralità dell’individuo che muove la nostra epoca, ma forse non è nemmeno possibile. Forse non lo è mai stato, dice Luisa:
Forse questa cosa è un mito, una leggenda Forse nessuno prova amore incondizionato per nessuno. Ma c’è un tacito accordo, una legge non scritta firmata col sangue mestruale da tutte le donne del mondo di non rivelarlo mai. E ora io ho rotto il patto.
In un susseguirsi molto comico, questa Bridget Jones del teatro di ricerca mette in fila tutta una serie di stereotipi sulla maternità, ma anche le contraddizioni insite nei tentativi di smarcarsi da essi, nella consapevolezza che – come segnala il titolo – Farsi fuori non è davvero possibile.
La prospettiva è solo apparentemente rovesciata ne Il monologo della buona madre di Lea Barletti, attrice che ha attraversato l’onda più interessante della scena contemporanea a cavallo tra i due secoli assieme al marito e regista Werner Waas. In questo caso la protagonista ha scelto di essere madre, rimpicciolendo o mettendo da parte la sua vocazione d’attrice in nome della famiglia; e, all’opposto che nel lavoro precedente, il tono del monologo è tutt’altro che comico, prendendo fin dall’inizio la forma di una confessione: “Pensavo. Pensavo: adesso smetto. Adesso smetto di sentirmi in colpa”. Sì, è il senso di colpa l’arma estrema che ci si punta contro per non essere in grado di aderire a un modello, quello quella madre come quello dell’artista, ai quali occorre conformarsi secondo canoni ferrei di perfezione, pena l’esclusione dal ruolo, il fallimento, l’insignificanza. “Voglio essere una madre perfetta”, afferma Lea Barletti, come se fosse possibile davvero incarnare un ideale senza perdere irrimediabilmente se stessi.
Il monologo è l’ambiente ottimale per una simile riflessione, che non sembra contraddire la regola di Kundera: tutto ciò che accade è accaduto “prima” oppure “non è accaduto affatto”. Lo ricordo oppure non sono riuscito a metterlo in pratica. L’azione è fuori, perché questo di fatto comporta la scelta di diventare genitori: porsi al di fuori del tempo dell’individuo e della sua esaltazione, che è oggi lo standard attraverso il quale generalmente si pensa di poter raggiungere la realizzazione di sé stessi. Fare figli o realizzarsi come individuo/artista/demiurgo di sé stesso? Poiché entrambi gli ideali, se vissuti come ideologie, comportano una purezza nei fatti irrealizzabile, il destino segnato per la protagonista è una sorta di nevrosi, che Lea Barletti snocciola con bravura per tutto lo spettacolo. Solo chi ama incondizionatamente è “una buona madre”, ma chi è davvero in grado di raggiungere questo traguardo che sembra quasi avere un sapore mistico? Come si fa a portare avanti un modello incurante dell’effetto che questo produce sul nostro corpo e sui nostri desideri?
Il corpo femminile è per Barletti l’unico terreno possibile su cui si conduce questa “sanguinosa battaglia per l’amore”, il corpo che deve affrontare mastiti da allattamento e altre stimmate dell’essere madre perché solo l’amore incondizionato sancisce il ruolo di buona madre. Già, l’amore. È in fondo quello che muove le nostre scelte. Un amore da cui la protagonista si dichiara dipendente, per il quale accetta di sprofondare nel caos domestico che solo un figlio può generare, mentre segretamente invidia tutte quelle persone, “quegli artisti che sono capaci di chiudersi in uno studio, in una sala prove, in una stanza, da soli, e produrre. Produrre qualcosa”. Tirata in due direzioni opposte anche in questo caso, la protagonista non può che sdoppiarsi, come in un certo senso avviene in scena, perché Lea Barletti pronuncia sia il monologo della protagonista che le didascalie, una sorta di retro-pensiero che ammette esplicitamente che esiste “un’altra me” con cui occorre fare i conti. È una battaglia con un risultato possibile? La conclusione dell’autrice è questa:
Io che non avevo saputo lottare per la mia vocazione d’attrice quando era stato il momento, io che avevo lasciato il mio talento disperdersi nella pigrizia e nell’insicurezza, in improbabili carriere universitarie intraprese e poi abbandonate, io che non avevo saputo dire al momento giusto: è questo che voglio fare, voglio recitare, al diavolo l’università, al diavolo tutto, non ho bisogno dell’approvazione di nessuno per fare quello che voglio fare, quello per cui sento di essere… nata (ma proprio qui, s’insinuava, ogni volta, il dubbio: è davvero così? Ho davvero quel talento che credo di avere?) ecco, io invece ho lottato per la mia vocazione di madre, ho lottato per essere la madre che non si può fare a meno di amare. Ho vinto? Non lo so.
Ma anche laddove la genitorialità non si realizza, cercare di “avere figli” può diventare a tutti gli effetti un’ossessione. È su questo punto che gioca Reproduction spettacolo grottesco, corrosivo e molto divertente messo in scena dalla compagnia milanese Phoebe Zeitgeist, diretto da Giuseppe Isgrò e da lui scritto assieme a Francesca Marianna Consonni. Tra personaggi onirici e zoomorfi che rispondono ai nomi di Gatto con lo zaino blu, Leprotto di Mamma e Zebrino di Voglia, la scena di Reproduction si apre sull’eterna festa dell’edonismo artistico, incarnata da Artyparty – una “curatrice iperculturale” per la quale non esistono aspirazioni famigliari perché l’arte, le public relation e i vernissage devono necessariamente ricoprire l’arco dell’intera esistenza – e contrappuntata da Fratta, artista e diva che sente il richiamo del suo orologio biologico e decide di avere un figlio, fatalmente incarnato da un bambolotto sbilenco.
Non è una scelta di comodo: il figlio, nel mondo edonista fino all’iperbole tracciato da Consonni e Isgrò, è l’estrema appendice dell’io, è il desiderio che sopraggiunge imperioso di raggiungere la perfezione estetica attraverso la propria stessa esistenza, centrando ogni obiettivo che la società di chiede di centrare: inclusa la riproduzione. Non c’è traccia della voglia o della necessità di “fare spazio” al nascituro, che anzi dovrà trovare faticosamente il suo posto in un mondo di debutti, finissage, artisti “obosessuali”, assistenti “erotomani” e “gay designer”, tutti pronti a lodare o a biasimare la scelta di Fratta a seconda dell’ispirazione del momento, senza un vero sguardo all’essere più fragile di tutti, il figlio, sballonzolato come un pacco da una parte all’altra della scena. Si legge in controluce una critica alla smania riproduttiva di artiste e artisti attempati, pronti a usare le proprie disponibilità economiche per piegare la natura ormai sterile dei propri corpi al desiderio tardivo di essere genitori. E anche un interrogativo su queste stesse pratiche in ambito delle famiglie omogenitoriali, ma non si tratta di un discorso moralista (l’intera commedia è dichiaratamente metrosexual fino allo spasmo), piuttosto di un interrogativo: quanto di egoista c’è nella scelta di mettere al mondo un figlio? E quanto di altruista?
La scelta di un contesto artistico, smaccatamente edonista, serve proprio a mettere il dito nella piaga dove questo discorso si fa più estremo. Perché l’universo di Isgrò e Consonni si divide tra chi non ammette altro che il glamour – Artyparty che afferma: “L’arte mi si è infilata dappertutto. Io persino quando stendo i panni allestisco” – e chi come Fratta sembra fare la scelta opposta ma finisce per instillare quella stessa ossessione nell’esistenza del figlio (“– Come pensavi di chiamarlo? – Carmelobene…”). Al fondo di tutto c’è un’insostenibile paura della morte, quella coscienza dell’essere transitori e fragili che secondo alcuni artisti è il motore stesso della genesi dell’arte, di questa forma di senso/nonsenso che finisce in qualche caso per sostituirsi alla religione (“La mia religione è l’arte”, ha detto perentorio Peter Stein, uno dei grandi maestri del teatro europeo, in un convegno del 2017).
Una paura dissimulata dall’ossessione per il presente che sembra aver ingoiato la nostra contemporaneità come un buco nero, cancellando il passato e il futuro dal nostro orizzonte degli eventi e costringendoci a vivere un’eterna adolescenza nella speranza che il momento fatale non arrivi mai. O che arrivi come forma di estrema consacrazione edonistica, perché si sa che “l’arte e i figli hanno una cosa in comune: è quando chi li ha messi al mondo crepa che cominciano a giocarsi il loro vero valore”.
Quando i figli arrivano, tuttavia, bisogna tener conto degli effetti. Non solo dell’impatto sul proprio tempo e sul proprio ruolo (come nello spettacolo di Lea Barletti), ma anche rendere conto a lui o lei, al figlio o alla figlia che un domani saranno grandi e ci chiederanno conto di che tipo di genitori siamo stati, dell’infanzia in cui li abbiamo fatti crescere. Si tratta di una proiezione, ovviamente, ma anche della realizzazione che una volta che si è dato la vita ad un essere che, almeno per tutta la durata della sua infanzia, è completamente dipendente da te, allora vuol dire che si è “usciti da sé stessi” una volta per tutte.
Si tratta di lavori che indagano il sentirsi distanti, non conformi a un ruolo che la società ha da sempre concepito come ovvio, naturale, talmente scontato che è impossibile da problematizzare.
A rendere conto a questo ipotetico figlio del futuro ci pensa Claudio Morici con uno spettacolo a tratti esilarante e a tratti commovente, che si intitola 46 tentativi di lettera a mio figlio. Quella di Claudio Morici è una figura ibrida: prima scrittore dal piglio comico, poi autore di reading, infine creatore di una sorta di maschera comica che oggi utilizza in modo versatile in più formati, ibridando il linguaggio da stand-up comedy con quello letterario, Morici ha spesso cercato di rappresentare il carattere iperbolico della quotidianità, a partire dalla precarietà (inclusa quella economica) che il nostro tempo le impone.
In questo senso il tentativo di discorso di un padre a un figlio per spiegare la separazione dei genitori avvenuta in tenera età è una tappa ideale per il suo percorso artistico. Come per gli altri spettacoli menzionati, anche 46 tentativi di lettera a mio figlio mescolano elementi di biografia e invenzione, e quindi necessariamente una parte della precarietà che la voce narrante sperimenta è dovuta al fatto di essere un artista. Un artista che ha necessità di mettere a profitto persino questa riflessione privata con il figlio e che dunque, nel suo “dialogo epistolare” (si fa per dire, perché in realtà è un monologo) afferma con candore “stai pensando che sarebbe bello se questo epistolario diventasse uno spettacolo”, come se l’idea fosse del bambino. Lui cavalca questa idea di buon grado, salvo inventarsi ogni scusa plausibile e non plausibile quando si tratta di esercitare il ruolo più importante di un genitore: elargire consigli, trovare le parole giuste, cercare di abbozzare un’idea certamente imperfetta ma comunque utile per un bambino sul perché siamo qui, qual è il senso della vita e qual è il modo più giusto di viverla. Ma come fa un padre imprigionato nella fuga dalle responsabilità che appartiene a questo presente a prendersi farsi carico di interrogativi tanto grandi? E difatti Claudio Morici straccia le sue lettere, le ricomincia daccapo, abbozza tentativi e poi si contraddice, facendo levitare il numero dei suoi scritti fino al fatidico numero riportato nel titolo di 46 (anche se ogni tanto un’improbabile babysitter epistolare e l’amico Fausto si sostituiscono a lui). Ma il nodo più complicato è spiegare al figlio perché i suoi genitori non stanno più insieme.
All’inizio tenta la carta del “così fan tutti”, in fondo di genitori separati ce ne sono tantissimi; salvo poi costatare che, se questo è vero verso l’adolescenza dei ragazzi, è assai meno vero in tenera età. Cerca allora di giocare una carta disperata: gettare zizzania tra i genitori dei suoi compagni di classe per convincerli a separarsi, facendo ingelosire un padre, flirtando con una madre, spiegando a un altro genitore i vantaggi della separazione. Ma se qui emerge la nota più demenziale e iperbolica della scrittura di Morici, quella che attraverso una lente distorsiva ci fa vedere i vizi dei nostri modi di fare, più il tono dello spettacolo si carica di emotività. Già, perché in virtù del mestiere di genitore occorre fare spazio alle dinamiche di un bambino, occorre mettere da parte molte cose: il tempo e i soldi, che una volta erano tutti per sé stessi, e l’inossidabile cinismo di cui si è fatta scudo la generazione dei quarantenni per poter arrivare, mentalmente indenni, a vivere da adolescenti in un’età in cui solo tre generazioni prima era facile essere nonni.
Il padre dapprima ci prova nel modo più ovvio e banale, citando le parole di una canzone: il più mieloso John Lennon, che dice che l’amore è il senso della vita (salvo poi ringhiare contro Yoko Ono, che “di certo c’aveva bisogno dei miei 30 euro di Siae…”). Poi, invece, si lancia in un monologo fantasioso e intenso, surreale e picaresco, dove si riaffaccia – ma in modo addolcito – il lato più corrosivo di Morici: “Ogni cosa è separata, figliolo”, dice il padre piratando il titolo di un famoso romanzo di Jonathan Safran Foer, e il fatto che lo siano anche i tuoi genitori non ti rende diverso, non ti rende un reietto, ma solo parte di un mondo complicato.
Come negli altri lavori, è ancora una volta l’inadeguatezza rispetto al ruolo di genitore a tenere banco in 46 tentativi di lettera a mio figlio; e cioè il sentirsi distanti, non conformi a un ruolo che la società ha da sempre concepito come ovvio, naturale, talmente scontato che è impossibile da problematizzare. Ma nella critica a cui questi spettacoli sottopongono l’idea stessa dell’essere genitori, si legge sullo sfondo non tanto un piagnisteo contro una società che ci vuole eterni Peter Pan, quanto la richiesta di poter ripensare le figure delle madri e dei padri, di poterle indossare in modo più comodo e non dettato dalle pressioni sociali. In sostanza, il diritto a essere imperfetti. La rivendicazione di quelle scorie che non aderiscono a una narrazione tanto perfetta quanto dannosa. Tutto quello che nei profili instagram delle neomamme super glamour non troverete mai.