T utti sappiamo e crediamo che Romolo fu il fondatore o almeno l’ampliatore di Roma, e tutta via i testimoni di quel fatto non vivono e non ci restano documenti e scritture di chi fosse presente, quando egli tirò il solco e gittò la fondamenta di quella metropoli dell’universo.”
Così scriveva Monaldo Leopardi, padre di Giacomo: chiamato a esprimersi sull’origine miracolosa della Santa Casa di Loreto utilizzava un paragone con Roma.
Il santuario di Loreto è uno dei principali luoghi di culto mariani, meta di pellegrinaggio da secoli, al suo interno vi è custodita quella che secondo la chiesa cattolica è la santa casa di Nazarath dove visse Maria.
La tradizione vuole che la casa di Maria fu portata in volo da degli angeli per salvarla da una possibile distruzione durante il dominio del Sultanato mamelucco in Terra Santa, prima in Dalmazia e in un secondo momento, con l’avanzare degli ottomani, nelle Marche.
Del santuario di Loreto ho sentito parlare spesso negli ultimi anni in relazione ai tatuaggi dei suoi devoti, i tatuaggi lauretani. Nel 2014 Albero Niro Editore ha ripubblicato un saggio del 1889, I tatuaggi sacri e profani della Santa Casa di Loreto. Tutte le informazioni reperibili sul tatuaggio lauretano hanno come punto di partenza questo testo di tale Caterina Pigorini Beri. Io tatuo e sono marchigiano ma di questa tradizione così ben localizzata, radicata e definita nel tempo non avevo mai sentito parlare prima della riedizione del libro. Questo saggio di poche pagine altro non è che un capitolo estratto da un volume ben più complesso e grande scritto dalla Pigorini Beri nel 1889 dal titolo Costumi e superstizioni dell’Appennino Marchigiano.
L’autrice era un’insegnante di origini emiliane che lavorava presso il Convitto Femminile della città di Camerino, di cui sposò il sindaco, l’avvocato Antonio Beri, ragion per cui il suo metodo di ricerca non è infallibile: poco aderente alla realtà, spesso romanzato, propone teorie affascinanti non supportate da fatti e documenti verificabili, un po’ come tutta la storiografia lauretana sulla quale tornerò poi (del resto lo stesso Monaldo Leopardi ci ricorda artatamente la storia di Romolo per giustificare l’assenza di prove concrete di una storiografia che in realtà è racconto agiografico e non storico). Diceva infatti la Pigorini, che scriveva per diletto e non aveva una preparazione scientifica: “Le ricerche scientifiche hanno questo di attraente, che dando a tutte le cose la loro ragione di essere, non lasciano tranquillo chi se ne occupa, se manca solo un anello nella catena delle umane armonie.”
Una delle sue teorie, tanto romanzata quanto affascinante, ricondurrebbe la pratica del tatuaggio lauretano all’ordine Francescano, questo perchè a suo dire i tatuaggi praticati su mani e polsi ricordano e celebrano le stigmate del santo di Assisi: “E se veramente la causa di questa strana cerimonia religiosa si dovesse attribuire alle stimmate del Santo, allora si potrebbe quasi stabilire con certezza il tempo in cui cominciò a praticarsi…”
Con la premessa “E se veramente…” ci introduce in un discorso puramente immaginato individuando nel pontificato di Sisto V, dell’ordine francescano, l’epoca in cui questa tradizione ebbe inizio, questo perchè fu lui ad apportare tutta una serie di migliorie a Loreto e ad avere dato la gestione di alcuni spazi della Santa Casa ai Francescani.
L’autrice identifica un periodo storico ben preciso in cui una data tradizione ebbe inizio solo per un’affascinante quanto fiabesca supposizione non verificabile e in alcun modo documentata.
Quindi, pare a me, che il tatuaggio sacro di Loreto debba la sua origine alle Stimmate di San Francesco per riprodurne il simbolo e la figura: e lo confermerebbe l’usanza che hanno di tatuarsi nell’avambraccio presso la mano e anche nella mano stessa, nei luoghi dove si può far uscire tanto sangue che basti per iniettarvi l’indaco.
Questo è stato il passaggio in cui a una prima lettura del volume i dubbi hanno cominciato ad albergare nella mia testa: “nei luoghi dove si può far uscire tanto sangue che basti per iniettarvi l’indaco.”
La Pigorini Beri non ha mai avuto contatti diretti con chi praticava l’arte del tatuaggio lauretano: parlando del colore indaco (cosa che tornerà più volte lungo il suo resoconto) dice un’inesattezza, deve avere visto dei soggetti tatuati molti anni prima e la tinta nera generalmente ricavata dalla combustione di alcune essenze (come l’inchiostro di china) tende con il tempo a virare verso il blu/verde, questo per degradazione dovuta a vari agenti, uno su tutti i raggi solari (e non a caso lei stessa ci parla di contadini e marinai tatuati, probabilmente le due categorie di lavoratori maggiormente esposte ai raggi UV durante tutto l’anno): “L’osservatore rimane sorpreso di vedere nei lavoratori dei campi, colle maniche rimboccate, questi segni simbolici di colore turchino…”
Seguendo l’indagine scientifica e cercando il perché di una consuetudine così singolare, diventata tanto comune da non attrarre neppure l’attenzione di coloro i quali fanno oggetto di studi di tatuaggi delle popolazioni barbare e primitive e quelli delle galere e altri misteri e infelicissimi luoghi, sono riuscita non solo a sapere dove e da chi questi tatuaggi si praticano, ma sono altresì venuta in possesso di quasi un centinaio di antichissimi clichés in legno di frutto, incisi forse con un chiodo, e di due punteruoli o penne, coi quali viene iniettato nelle carni vive, il colore degli strani geroglifici.
È singolare il modo in cui l’autrice prende distanza dai tatuaggi di popolazioni barbare e primitive e quelli delle galere e altri misteri e infelicissimi luoghi, come se il tatuaggio Lauretano in quanto sacro/cristiano esuli da ogni rapporto con tutti i tatuaggi praticati in altri luoghi e in altre circostanze, come se la stessa pratica fatta in contesti religiosi differenti acquisti un valore negativo o positivo.
La Pigorini è sì venuta a conoscenza, come dice, del dove e da chi venivano praticati i tatuaggi, ma non con un contatto diretto. Durante le sue ricerche si è imbattuta in quello che fu frutto di un sequestro avvenuto tempo prima, quando come lei stessa scrive:
La sapienza civile dei governanti indagava e cercava con amore e con fede le attitudini, le consuetudini, gli odi e gli amori dei popoli redenti, per opporre ad ogni male rimedio, ad ogni colpa una punizione, ad ogni sventura un sollievo.
Il sequestro venne fatto ad un becchino che, oltre a dare sepoltura ai morti, praticava quest’arte.
I materiali sequestrati di cui la Pigorini è successivamente entrata in possesso sono un centinaio di tavolette di legno con incisi in rilievo (sfruttando lo stesso principio della xilografia) i simboli che venivano tatuati. Le tavolette fungevano da matrici mediante le quali il tatuatore “stampava” sulla pelle del cliente un timbro del soggetto scelto e successivamente mediante ago e inchiostro lo ripassava punto per punto, forando la pelle con un apposito strumento anch’esso presente tra il materiale sequestrato e riprodotto in una illustrazione molto dettagliata presente nel libro: è una sorta di punteruolo in legno con tre aculei in metallo convergenti verso un punto centrale e tenuti assieme da un filo simile a dello spago avvolto attorno a loro e al legno del manico.
La Pigorini sostiene, senza avere mai visto dal vero la messa in pratica di un tatuaggio mediante questa strumentazione, che il tatuatore incidesse la pelle con il punteruolo per poi successivamente dilatarla e farci penetrare l’inchiostro indaco/turchino. Molto probabilmente, invece, il tatuatore intingeva lo strumento nell’inchiostro e forando la pelle punto dopo punto seguendo il soggetto precedentemente stampato sulla pelle componeva il disegno lasciando trasportare l’inchiostro sotto pelle a mano a mano che la forava lungo i contorni del tatuaggio.
Le tre punte convergenti hanno uno spazio vuoto al loro interno che, anche grazie al filo avvolto concentricamente tutto attorno – che probabilmente ne veniva intriso – tratteneva inchiostro in modo da facilitarne il passaggio dallo strumento alla pelle del tatuato.
In questa ricostruzione non vorrei aggiungere fantasie mie a quelle dell’autrice, ma strumenti simili sono da sempre utilizzati da quelle stesse “popolazioni barbare e primitive e quelli delle galere e altri misteri e infelicissimi luoghi” dalle quali la Pigorini ci tiene a fare prendere le distanze al tatuaggio della Santa Casa di Loreto.
Questo voler nobilitare il tatuaggio Lauretano in quanto cristiano, posto che in quasi tutte le culture in cui lo troviamo, il tatuaggio è sempre legato ad una forma di sacralità e di ritualità e a protezione del soggetto che lo porta, torna più volte in questo trattato.
In allegato al testo troviamo le riproduzioni dei cliché in legno utilizzati per i tatuaggi e tra i soggetti ne troviamo una serie che l’autrice definisce “amorosi”, per differenziarli da quelli sacri, e ce ne parla in questo tono per farli comunque rientrare in qualche modo in quella forma di sacralità da lei attribuita al tatuaggio della Santa Casa di Loreto:
Il tatuaggio di Loreto ha un’origine esclusivamente mistica; non si può confondere coi tatuaggi che ci vengono dalle civiltà primitive: esso è quel che si potrebbe chiamare una istituzione. E anche quello amoroso, che appare a prima vista nelle numerose incisioni che si presentano, ha il carattere speciale d’un giuramento a Dio che potrebbe riassumersi nei versi di fra Jacopone:
Quanto è al mondo m’invita ad amare/ Bestie ed uccelli e pesci dentro il mare;/ Ciò che è sotto all’abisso e sopra all’are.
È uno dei passaggi più emblematici di questo trattato, ci troviamo davanti a una ricostruzione che, come per la storia della Santa Casa di Loreto, esula dalla storiografia e si getta nell’agiografia più totale: si ha quasi l’impressione che tutto ciò che in qualche modo sia legato alla storia di Loreto debba abbandonare la razionalità e il metodo scientifico per poter essere raccontato o anche solo per potere esistere.
La riedizione stessa di questo volume, o meglio la scelta di pubblicare un estratto di un volume ben più ampio è l’ennesimo tassello che va a comporre un’agiografia popolare che si protrae da sette secoli.
Ed è qui che compare un elemento che la amplia: il crocefisso di Sirolo.
“Se vai a Loreto e non vai a Sirolo vedi la madre ma non vedi il figliolo”. Così recita un adagio popolare legando assieme i due luoghi di culto e nel libro tra le tavole in cui vengono riprodotti i clichè dei tatuaggi lauretani troviamo la Madonna di Loreto e il crocefisso di Sirolo nella stessa pagina uno a fianco dell’altro. La storia di questo crocefisso, come le storie di ogni reliquia proveniente dalla Terra Santa, è legata a fatti storici e date verificabili ed esatte ma farcite di misticismo, miracoli e fatti poco credibili se non accettati come verità dogmatiche.
Vuole la tradizione che il crocefisso sia stato scolpito da San Nicodemo dopo che depose Cristo dalla croce riproducendone quindi l’aspetto esatto. In seguito fu portato a Beirut dove venne flagellato in una sinagoga, si dice che dal legno ne sgorgò sangue vivo e che alcuni malati lo bevvero guarendo miracolosamente, i testimoni di queste guarigioni ne rimasero talmente colpiti da convertirsi al cristianesimo. Fu Carlo Magno a riportarlo in occidente in dono a papa Leone III, ma mentre attraversava l’Adriatico una tempesta lo costrinse ad attraccare a Numana e il crocefisso fu lasciato lì.
Le sue avventure non terminarono: nel 846 Numana fu devastata da un fortissimo sisma e la basilica dove era custodito il crocefisso crollò. Tre secoli dopo dei marinai lo ritrovarono in mare e lo portarono in una cappella che si era salvata dal terremoto.
Questi i dati storici e geografici reali che, assieme a cose inverosimili – basti immaginare ad esempio come una statua lignea possa essere rimasta intatta dopo tre secoli in mare, compongono un perfetto racconto agiografico.
Il mercato delle reliquie orientali fu un commercio molto fiorente. Per portare ordine nei culti ad esse legati papa Pio VI nel diciottesimo secolo fece raccogliere tutti i denti di Santa Apollonia: ne ottenne così tre chili che vennero chiusi in uno scrigno successivamente gettato nel Tevere.
In questo scambio continuo tra occidente e oriente la Pigorini individua un’altra potenziale origine del tatuaggio lauretano, molto più plausibile della precedente: in un periodo in cui le invasioni e le scorribande dei turchi erano all’ordine del giorno nelle zone costiere e contemporaneamente molti fedeli si recavano in Terra Santa si pose la necessità di stabilire che chiunque fosse deceduto per morte improvvisa o violenta, senza portare addosso segni della fede cristiana, non avrebbe ricevuto sepoltura in terra consacrata: un tatuaggio sarebbe stato un segno non rimovibile dopo il decesso e avrebbe dato accesso a una sepoltura in terra consacrata. In questo caso abbiamo diverse testimonianze nei diari dei pellegrini che raccontano di essersi fatti tatuare a Gerusalemme.
Vi è anche l’usanza nei principali luoghi di pellegrinaggio mondiali di acquistare un oggetto a testimonianza del percorso compiuto, oggetti prodotti da artigiani della zona, usanza che ha da sempre creato un’economia enorme attorno ai luoghi di culto. Nella città di Loreto si producevano e commerciavano rosari, medaglie, corone ed ex voto; non è da escludere che l’arte del tatuaggio si sia inserita in questo tipo di economia locale ma in modo silenzioso visto che papa Adriano I l’aveva vietata nel 787 d.C.
Tutte le vie sono fiancheggiate da botteghe nelle quali non si vendono che rosari, croci, medaglie, nastri, fiori artificiali e reliquari che danno a ogni cosa un senso di riposo e alla città un’aria di ornamento e di festa del tutto allegra. La fabbrica e la vendita di questi oggetti devozionali costituiscono il solo commercio di Loreto. (J.C. Belin 1843)