È il dicembre del 2000. Ho undici anni, sono in prepubertà. Non ho ancora avuto il semenarca, sebbene la mia percezione sia già tempestata da pulsioni sessuali. Passo dalle quattro alle sei ore al giorno a guardare la televisione. Da qualche giorno, su Canale 5 e Italia Uno, non si fa che parlare di Pietro Taricone. Si dice che abbia fatto cilecca. Non credo di capire bene: in che senso? Pare che non sia riuscito a fare l’amore con Cristina Plevani. Ancora non capisco. Non gli è diventato duro. Come è possibile? A undici anni scopro una scomodante verità: il sesso può quindi essere terribile, umiliante, catastrofico. È possibile che qualcosa non funzioni, l’erezione non è un automatismo, ci possono essere delle complicazioni.
Con la pubertà dietro l’angolo e gli ormoni in subbuglio, sembra pura irrazionalità. Le pornografie scrutate in edicola, dietro gli almanacchi di Ratman, o i teasing nei palinsesti notturni dei canali regionali – che mostrano bellezze rarefatte con i capezzoli che affiorano oltre i ferretti dei reggiseni dopo quindici minuti di video, ondeggiando sul sassofono del commento musicale – non sembrano comunicarmi altro che una necessaria e inaggirabile tensione al godimento. Il sesso a undici anni è un piacere mai sperimentato, ma immaginabile. Un’erezione non può fallire. Ecco però che d’improvviso il maschio – il suo immaginario, le sue proiezioni, le sue categorie incubate negli spogliatoi della scuola calcio – mostra una macchia di fallibilità. Quell’unico vettore assertivo, configurato nella tenuta dell’erezione, può essere negato; la virilità stessa può conoscere negazione.
Alla luce delle parabole e dei cabotaggi dell’immaginario negli ultimi vent’anni, la più efficace metonimia della fragilità berlusconiana e del peso culturale di Pietro Taricone, è proprio quella: ecco materializzata l’estrema intimità di un uomo – un privilegiato maschio alfa eterosessuale di centro destra – ridicolizzata, spettacolarizzata nel suo disintegrarsi, nel suo andare in frantumi, in una notte di dicembre del 2000 e per tutta la settimana seguente. Il primo – fortissimo – colpo di martelletto, nell’impalcatura già fragile dell’uomo bianco occidentale. Tanto più ostentato nella sua esuberanza e nel suo potere, quanto più frangibile e incerto, sempre sul punto di precipitare.
Cominciamo dal contesto. La prima edizione del Grande Fratello è stata un media-event molto diverso dalle successive riproposizioni del format. Il programma sembrava essere frutto di un sofisticato posizionamento di targeting. Il piglio intellettualistico, la proiezione d’avanguardia, la cross-medialità intrinseca, le implicazioni metatestuali, offrirono subito ampio margine retorico agli elzeviristi. Il programma è una creatura olandese della società di produzione Endemol: cita Orwell nel concept e nel payoff, si presenta come un vero esperimento sociale a portata di pubblico generalista.
Ecco però che d’improvviso il maschio mostra una macchia di fallibilità.
Dopo esattamente un anno dall’esordio olandese, il format sbarca in Italia. La conduzione è affidata a Daria Bignardi, allieva di Gad Lerner e Gianni Riotta, figlia del DAMS bolognese e del new journalism anglosassone. Il pubblico appare confuso, il setting è impreciso: non si capisce se il registro sia colto o becero. Il pubblico più scettico osserva con garbato disinteresse, quello più engagé invece auspica un flop. Vengono messe in piedi strategie mai sperimentate prima, con elementi di innovazione assoluta: oltre allo show settimanale, in prima serata su Canale 5, viene generato un canale satellitare interamente dedicato alla Casa – esclusivo per gli abbonati a Stream tv – in più sul portale online interattivo Jumpy, sempre di proprietà Fininvest, che trasmette a sua volta le immagini in diretta, l’utente può scegliere la stanza e l’angolazione della scena, può gestire la regia di ciò che vede, investito di un inedito potere voyeuristico: per la prima volta internet viene integrato nei codici televisivi.
Il sesso è ovviamente contemplato dagli autori. È ciò a cui immediatamente pensano tutti: dopo quanto scoperanno? Dopo neanche otto ore di diretta, ecco il primo topless. Alle 6 di mattina, dopo una notte carica dell’adrenalina della scoperta, Cristina Plevani si toglie la camicia con noncuranza. “Non ce lo aspettavamo” avrebbe scritto, anni dopo, Valerio Magrelli “eppure, benché nel peggiore dei modi, l’immaginazione è davvero arrivata al potere. Così, la parola d’ordine del Sessantotto è stata realizzata da Mediaset”. Quella liberalizzazione dei costumi che Magrelli avrebbe indicato nel pamphlet del 2011 Il Sessantotto realizzato da Mediaset, in quell’esatto momento, in cui Cristina Plevani mostra il seno alle telecamere, compie un balzo in avanti e si allaccia ad una congiuntura storica globale. Qualcosa che va oltre Guy Debord, McLuhan, oltre Pasolini: non è più la Mediaset del Drive-In e di Colpo Grosso, non è la televisione di Non è la Rai, questa è un’altra dimensione in cui la sessualità non è più pubblica – quella degli spogliarelli delle Ragazze Cin Cin – ma è privata. La normalizzazione a mezzo televisivo della sessualità comune, nel paese più visceralmente cattolico del mondo, arriva la mattina del 18 settembre 2000, quando il primo rapporto sessuale semplicemente accade.
Boys will be boys. Il canovaccio degli autori pretende che il maschio alpha si erga in rappresentanza dell’eterosessualità italiana: tutti i satiri del paese, pronti a violare le virtù femminili. L’uomo è cacciatore, l’uomo conquista, le femmine non si concedono perché così devono fare, l’uomo deve insistere, farsi valere. Taricone è un personaggio quasi brancatiano: studente di Giurisprudenza, nato a Frosinone ma cresciuto a Caserta, maturità scientifica, denota da subito una forte cognizione del proprio sapere. Viene soprannominato O’Guerriero, tanto per rimarcare i crismi patriarcali del profilo. Ma un guerriero raffinato – ci tengono sempre a far emergere i copywriter – intelligente, e pienamente consapevole dei suoi mezzi. Con le sue sofisticate rozzezze conquista l’Italia. La “liberazione” magrelliana di Mediaset ha trovato il suo pasdaran. Un comune uomo del popolo e allo stesso tempo un eroe attorno cui edificare un’epica. Liberale einaudiano – per sua stessa ammissione – anticrociano, per i tabloid diventa la nemesi machista di Fabrizio Rondolino, già portavoce della presidenza del consiglio nello staff di Massimo D’Alema, figura chiave della comunicazione dei Democratici di Sinistra.
Nella mia ingenua interpretazione del reale di undicenne, non posso che constatare la necessaria congiunzione tra il maschio protagonista, pertinace alla prevaricazione sessuale, e il personaggio più chiaramente identificabile nel suo opposto femminile: la “gattamorta” – così fu soprannominata durante i talk e negli articoli di costume – Marina La Rosa, studentessa di economia, messinese ventitreenne. I due sembrano fatti l’uno per l’altra. Ma sarà una tensione sempre più alimentata, mai concretizzata. “Marina non cammina, sfila. Ti frega”, dirà il nostro kalokagate.
Il canovaccio degli autori del Grande Fratello pretende che il maschio alpha si erga in rappresentanza dell’eterosessualità italiana.
Taricone non fa coppia con Marina La Rosa, ma con Cristina Plevani, bellezza amazzone, nordica, dal duro accento bresciano. Il primo bacio avviene nell’intimità sfumata di un pomeriggio del terzo giorno nella casa. La scena, osservata oggi, è esemplificativa: Pietro afferra la giugulare di Cristina, per trarla a sé e affondare nel più bagnato dei baci. Lo show sembra quasi finto per la naturalezza con cui viene allestito dal volitivo bullo di provincia. Durante tutta la nottata successiva, mentre Cristina sta seduta sul divano, Pietro costruisce con le sue mani un nido d’amore, utilizzando tende e tovaglie per nascondersi dall’occhio delle telecamere. Il conseguente rapporto si consuma tra le inquadrature dei calcagni che escono dai bordi del giaciglio. Dura 5 minuti: dalle 5:42 alle 5:47.
Sulla vicenda interviene anche la politica con toni per lo più critici. Clemente Mastella, cattolico, allora segretario UDEUR, dice “L’operazione Grande Fratello si sta svolgendo secondo le regole dell’ audience, che impongono, di fronte a uno scarso successo, di trovare subito un colpo di scena, e per una tv guardona l’unica strada è il sesso”. Vincenzo Maria Vita, sottosegretario alle comunicazioni, liquiderà l’accaduto definendolo “una pagina di brutta televisione”. Il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri difese il programma affermando: “Alle 5:40 di mattina i miei nipotini dormono”. Presidente del consiglio dei ministri, da qualche mese, è Giuliano Amato, la cui squadra di governo è sostenuta da una maggioranza parlamentare di centro sinistra, a trazione DS.
Passata la notte, il Don Giovanni Taricone si rivolge poi al suo Leporello – Rocco Casalino – per affermare, nella piena serenità prostatica, “Abbiamo scopato solo dopo quattro giorni, le cose sono due: o Cristina è ingenua o è furbissima. A me comunque già me piace n’altra”. Passano i giorni. Le settimane. I rapporti sono serrati. Uno ogni 36 ore circa. Finché non succede: Pietro fallisce. La coppia è in una delle camere, senza nessuno dei compagni a infastidire. Il capobranco e la sua femmina hanno reclamato spazi per la loro intimità. I due si voltolano tra le lenzuola. Pietro però non riesce ad avere un’erezione. Dopo mezz’ora di tentativi, Cristina abbandona il talamo.
Il modo con il quale i media hanno ritratto quel gesto è impietoso: la Gialappa’s Band, la cui tremenda comicità scopofila arriva a gestire un format autonomo (Mai dire Grande Fratello), che va in onda dopo ogni diretta in prima serata di Canale 5, deride il macho di fronte alla sua debacle. Taricone resta solo sul letto, dopo 35 minuti di abbracci (nei montaggi che successivamente vengono inseriti nei palinsesti, si sottolinea il passaggio del tempo, cerchiando in rosso il quadrante in alto a destra che segnala l’ora). Pietro comincia a prendere a pugni la parete, fino a rompere il vetro di un quadro – e giù risate – lei torna dopo qualche minuto, “Mica ho detto che non mi è piaciuto…”, dice.
Passano i giorni. Le settimane. I rapporti sono serrati. Uno ogni 36 ore circa. Finché non succede: Pietro fallisce.
Qualche giorno dopo, Striscia la Notizia, più invasivamente, procura un Tapiro d’Oro a Taricone e ai ragazzi della casa, attraverso l’uso di un aereoplanino telecomandato. Per il megafono mediatico di Antonio Ricci non ci sono dubbi: quella défaillance è dovuta al bombardamento delle onde elettromagnetiche irradiate dalle batterie dei microfoni, che i ragazzi tengono fissate sui pantaloni all’altezza dell’inguine. Alla statua in polistirolo laccato d’oro – che secondo il taglio editoriale viene consegnata a personaggi pubblici intristiti da una figuraccia o da un passo falso (definiti, appunto, “attapirati”) – viene allegato un articolo in cui si riporta l’allarme lanciato da un non meglio specificato dipartimento di ricerca sul radioelettromagnetismo. Un dispaccio medico testimoniante la tossicità delle onde. Rocco Casalino improvvisa una lezione di fisica sul tema.
Ecco spiegato al pubblico di Canale 5 il perché della brutta prestazione sessuale del Guerriero. Non sembra possibile prendere in considerazione fattori psicologici: se il cazzo non funziona, è colpa di qualcosa che lo danneggia – soprattutto se il cazzo che non funziona è di Pietro Taricone. Il maschio alfa, muscoloso e tatuato, statuario in ogni gesto, mentre si osserva lo spacco dei pettorali, mentre sfiora il tricipite con la mano libera durante il french press, mentre tiene saldo il volto di Cristina Pleviani, stringendole la gola, durante le sessioni di petting in favore di camera.
Il modo con cui i media hanno raccontato questo evento al pubblico – e stiamo parlando di servizi televisivi in access prime time, sia su rotocalchi che telegiornali, decine di articoli di spalla da 1000 battute sui quotidiani, pagine su pagine nei settimanali di costume – è un chiaro esempio di come la normalizzazione di certa cultura patriarcale non tenesse conto delle sue contraddizioni. Tra le risatine, le battute e le reticenze, il focus è tutto sulla funzione attiva della sessualità maschile. Un maschio è maschio, c’è poco da fare. “Io so’ omo e tu si’ ffemmina” declama Taricone al suo oggetto dovuto, dopo un atto sessuale.
Altro elemento che emerge da quei servizi è che bisogna sempre sorridere, quando si parla di sesso: il desiderio non è una cosa seria, soprattutto per gli uomini. Deve essere godimento becero e fugace. L’altro, rispetto al desiderio maschile, diventa – per automatismo patriarcale – oggetto, e non sembrano sussistere riprensioni: “Troviamo l’uomo che non si chiede, neanche quando a chiederglielo sono tante e tanti, se possa esistere un modo di manifestare un lecito interesse sessuale che non sia”, scrive Lorenzo Gasparrini nel suo NO – Del rifiuto e del suo essere un problema essenzialmente maschile, “un rendere l’altro un mero oggetto di desiderio: non lo sa fare in un altro modo, e probabilmente non gli interessa neanche sapere se possa esistere un altro modo, laddove non ne vede il motivo”.
È palese come questo evento fotografi un momento-chiave per la storia della sessualità in Italia.
Questo piccolo episodio che a buon diritto possiamo nominare “culturale”, può essere osservato in tutta la sua potenza se lo si contestualizza nel momento storico politico che l’Italia stava attraversando in quel momento. Si sta preparando la grande voragine berlusconiana del suo secondo governo – il più lungo della storia d’Italia repubblicana, finora – quello di Videocracy, di Lele Mora, dei reality come misura identificativa del pubblico, generatori di consumi, capaci di generare immaginari condivisi nel giro di tre puntate. Silvio Berlusconi sarà Presidente del Consiglio dei Ministri dal giugno 2001 al maggio 2006, con due diverse maggioranze in cinque anni.
È palese come questo evento fotografi un momento-chiave per la storia della sessualità in Italia. Un frame in cui è possibile leggere i prodromi delle criticità del nostro tempo. Taricone che non mantiene l’erezione, e le reazioni a questa vicenda, sono il segno di una metamorfosi di cui forse solo a partire da oggi riusciamo a percepire la compiutezza della transizione: la fine del maschio. Ecco che oggi Taricone diventa la sineddoche che spiattella l’obsolescenza dei rapporti di genere fino a quel momento codificati dalla società borghese bianca cattolica occidentale. Come Elisa Cuter nel suo Ripartire dal Desiderio indica nell’operazione di Boncompagni, nel disegno del personaggio di Ambra, per Non è La Rai, la manifestazione superficiale di un inconscio sociale, allo stesso modo è possibile, di questo frame televisivo, indagare l’ideologia sotterranea diffusa, intesa come mentalità di un’epoca. Quello che si rivela a noi spettatori, carichi di un eccesso di senno-di-poi, è la chiarificazione di quanto quel media-event sia ancora più avveniristico di quanto si sia pensato.
Sul modo con cui la specifica vicenda sessuale di Taricone sia stata trattata, è importante sottolineare come questa venisse banalizzata. È un modo strano quello con cui si parla di sesso nei canali Mediaset ma più in generale in televisione, nei primi anni 2000 (eccezion fatta per Mtv Italia). Tutti i rotocalchi ne parlano con un lessico da scuola media. Più o meno lo stesso che pertiene alle inibite lezioni di educazione sessuale a scuola: le inani ore che puntellavano a casaccio il piano didattico nei primi anni 2000 erano infatti contraddistinte da aposiopesi imbarazzate, scatologie, umorismi stemperanti. Non c’era poi un’educazione sessuale rivolta alla sfera maschile, non c’era una guida emotiva che accompagnasse il Maschile alla scoperta di sé. La scoperta della sessualità per i ragazzi veniva affidata agli spogliatoi, alla pornografia, aumentando il rischio di disfunzione percettiva della sfera sessuale, con tutto ciò che ne conseguiva nell’edificazione dei rapporti umani e nella gestione dell’emotività. Su Mediaset la dialettica da bar, si mostra, servita agli occhi del pubblico generalista. Eppure nessun maschio ne risulta oltraggiato.
Non basta: un altro risultato allarmante è relativo alla totale mancanza di consapevolezza, ancora oggi, nei confronti del proprio corpo. Secondo un sondaggio del 2015, promosso tra gli altri dalla Fondazione Umberto Veronesi, solo un uomo over 50 su 4 è in grado di identificare correttamente la funzione principale della prostata, solo 2 maschi Under 40 su 10 hanno fatto almeno una visita dall’andrologo o dall’urologo (mentre quasi tutte le ragazze si sono recate dal ginecologo) e solo il 5% degli adolescenti ha svolto almeno una volta una visita con uno specialista. I problemi legati alla sessualità, ma più specificatamente quelli legati alla disfunzione erettile, all’ipertrofia prostatica, per non parlare poi dei disagi psichici che coinvolgono la sfera maschile (tre quarti dei suicidi sono di uomini), sono dei tabù.
La parabola di Taricone nella Casa, oggi, ci parla della necessità di una ricollocazione del maschile.
È il giugno del 2021. La sessualità e la ridefinizione dei rapporti tra i generi è uno dei campi di dibattito più accesi del tempo presente. Sembra ridondante dover ripetere quanto le lotte femministe – e della comunità LGBTQ+ – siano importanti anche per il maschile. Osservare oggi la parabola di Pietro Taricone dentro la casa del Grande Fratello nel 2000, la sua epica, la sua mitologia, ci mette di fronte all’evoluzione, alla crescita della sensibilità maturata negli ultimi vent’anni su certi temi. In più, ci fornisce l’accento per una prosecuzione dell’evoluzione nei confronti della ricollocazione del maschile, l’analisi delle sue necessità, delle sue debolezze.
Pietro Taricone nel 2000 è l’eroe tragico di questa ridefinizione del maschile. Ci suggerisce di mettere in discussione il nostro desiderio, interrogarci sulla sua vera natura, spogliarlo delle imposizioni sociali. Taricone ci chiede di capire cosa il maschio vuole per sé veramente e non per compiacersi o per esercitare un potere. Taricone chiede oggi al maschio di prendere consapevolezza della propria irreversibile, genuina, enorme fragilità.