Ivan Carozzi
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tratta da "Italo. Educazione di un reazionario" di Vincenzo Filosa
26.2.2020
Tarantella manga
Intervista al fumettista e traduttore dal giapponese Vincenzo Filosa.
Ivan Carozzi è stato caporedattore di Linus e lavora per la tv. Ha scritto per diversi quotidiani e periodici. È autore di "Figli delle stelle" (Baldini e Castoldi, 2014), "Macao" (Feltrinelli digital, 2012), "Teneri violenti" (Einaudi Stile Libero, 2016) e "L'età della tigre" (Il Saggiatore, 2019).
M
i trovo nel piccolo studio che Vincenzo Filosa, traduttore e fumettista, condivide a Milano con un altro autore di fumetto, Paolo Bacilieri. Una lampada da tavolo accesa. La luce dei monitor. Nello studio il silenzio è immacolato, ideale per ragionare, disegnare e ogni tanto, immagino, aprire una scheda sul browser… Paolo Bacilieri è seduto al computer e ci dà le spalle. Acciambellato su una stuoia, il suo cagnolino dal pelo nocciola, di una educazione e placidità intenerenti, si gode la pace di questo spazio angusto e ingombrato dai nostri corpi umani, carta e pile di libri (albi, manga, cataloghi, romanzi etc.).
Italo. Educazione di un reazionario è l’ultimo lavoro di Filosa, uscito per Rizzoli Lizard a novembre. Ci sono la Calabria, il Giappone e la dipendenza dagli antidolorifici, cioè le tre componenti delle storie che Filosa ha raccontato con stile trasparente nei precedenti Viaggio a Tokyo e Figlio unico. Stavolta c’è anche la famiglia, non quella del papà e la mamma, ma quella che ci si è costruiti, con un figlio piccolo e una compagna. Il ménage è burrascoso (è incalcolabile, stando alla mia esperienza, il numero delle coppie che dopo un figlio vanno in crisi ed esplodono) ed è un attimo riconoscersi in questo sfascio. Italo Filone ha un problema di droga e dipendenza (nella tavola di apertura appare l’ago da cucire di Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen piantato in Piazzale Cadorna), frequenta un SERT, è pieno di debiti, è un bohémien, un fumettista. C’è Milano e c’è la Calabria, cioè la matrice che continua a risucchiare Italo nel suo passato. E poi c’è l’etica del racconto ispirata al gekiga, che Filosa descrive come un arcano equilibrio dell’io, fatto di sincerità e di assenza.
Le prime tavole di Italo mi hanno ricordato il SERT raccontato in Amore tossico, il film di Claudio Caligari del 1983. Lì c’erano le tribù metropolitane dell’epoca: rimasugli degli anni ‘70, un trans, ma pure i new wavers. Anche nelle tue tavole c’è una grande attenzione ai caratteri. Che mondo c’è nel SERT di via Argelati? Che tipi umani s’incontrano?
Amore Tossico è un film che amo e conosco benissimo. Da principio Italo doveva essere proprio un lavoro sui SERT che ho conosciuto. Il libro poi ha preso un’altra strada, anche per non interferire con la vita delle persone: avrei dovuto coinvolgerle, parlarci, seguirle… tutte cose che a un tossico non piacciono. Ho dovuto rinunciare anche a ritrarli. Peccato. C’erano un sacco di sosia di Vasco Rossi e di altri cantanti anni ’80. Il SERT di via Argelati, comunque, è molto pulito, ordinato ed efficiente.
È un SERT milanese…
Il vantaggio di un posto così è che se sei una persona funzionale, riesci a sentirti a tuo agio e a lavorare su te stesso correttamente. È una situazione difficile da trovare in contesti analoghi. C’è una psicologa, analisi e test gratuiti. Il mio orario è tra le sette e mezzo e le nove e mezzo del mattino. In quella fascia trovi tanta gente che magari deve andare al lavoro, uomini dai 45 in su, vecchie glorie. Più tardi trovi i giovani e giovanissimi. La maggior parte è gente di ceto medio basso e di rado capita qualche borghese della Milano bene. A Crotone l’utenza media era quella del tossico rovinato e abbandonato a sé stesso.
Perché il sottotitolo Educazione di un reazionario?
È un’idea dell’editor, Pasquale La Forgia. La mia proposta era Bianco, nero e terrone, laddove “nero” aveva una connotazione politica. Volevo raccontare il fascismo inconsapevole, in particolare il mio fascismo inconsapevole e i miei momenti di brutalità e di razzismo, magari verso altri meridionali.
Sono aspetti che ho amato molto nel libro, dato che il tuo personaggio non è mai veramente schifoso, semmai vitale e tormentato.
Nel periodo in cui finivo di disegnare Cosma & Mito (Coconino 2019) ho vissuto quelli che chiamo “i miei 15 giorni da fascista”: ero chiuso in una casa a Torre Melissa, in Calabria, pensavo a quanto ero sfigato, a quanto poco ero pagato, e me la prendevo con una famiglia di napoletani che si trovava in villeggiatura accanto a casa mia. Pensavo: “ma guarda ‘sti napoletani di merda! Li odio”… e poi quei 15 giorni sono sfociati nelle risse verbali che ho raccontato in Italo.
In un’altra tavola compare la chioma spoglia di un albero, mentre in alto, nel cielo bianco, compare una scritta piccola piccola: “Sono depresso”. Che cosa significa essere depressi?
Significa essere completamente passivi, l’immobilità, restare su un divano per giorni, senza parlare con nessuno, uno stato che sono riuscito a superare anche grazie alle sedute con la psicologa. Cercavo all’esterno la causa dei miei problemi. Oppure avevo l’inclinazione a romanzare la mia sofferenza, a vederci qualcosa di mitico. Lui (indica con lo sguardo la sagoma di spalle di Paolo Bacilieri, Nda) mi è servito a imparare la disciplina nella professione. Fare il fumettista significa lavorare a una tavola dopo l’altra. Finisci una tavola, ne inizi una nuova. Non c’è altro. Fare il fumettista è questa cosa qui. La felicità per me sono le ore che passo con la mia famiglia e quelle che vivo al lavoro. Ho capito una volta di più che il fumetto è la mia prima lingua. Quando ero piccolo e volevo comunicare qualcosa a qualcuno, gli prestavo uno dei miei fumetti.
Tu però sei anche un traduttore…
Certo, ma tradurre non mi dà più la felicità che mi regalava un tempo.
Tu oggi ti senti “funzionale”?
Direi di sì. Ho imparato a gestire le aspettative, ho capito come soffocare certe tendenze autodistruttive, ad aprirmi con gli altri.
Chi è “funzionale”? A me viene in mente il personaggio del film di Paolo Sorrentino, Le conseguenze dell’amore, che da metà della sua vita s’inietta una sola dose di eroina alla settimana, come una specie di travet…
William Burroughs è per me il tossicomane funzionale per eccellenza. Burroughs ha preso gli aspetti meno edificanti della sua vita e li ha trasformati in un tesoro da condividere con gli altri. In generale per “funzionale” intendo chi riesce a dare un proprio contributo, a prescindere dalla sua condizione di disagio, e chi non causa sofferenza e non distrugge la vita di chi gli sta intorno.
Filone, il tuo protagonista, incrocia un tizio per strada che gli sussurra “Amico, vuoi coca? Coca buona?”. Sbaglio o è un siparietto poco frequente a Milano?
A me è successo in via Gola, alle sette di mattina.
A pagina 32 del volume, cioè nel mezzo di una progressione spettacolare che porta a una doppia pagina di grande virtuosismo, compare una parola che non avevo mai sentito: Pescor. Che significa?
È uno scarto tossico prodotto alla Pertusola, una grande fabbrica di zinco un tempo attiva a Crotone. Il pescor è stato utilizzato come materiale di rivestimento in diversi edifici e perfino nelle aule di Ragioneria dove insegnava mia madre. A Crotone è stata registrata un’altissima incidenza di malattie tumorali e pare che la ragione fosse proprio il pescor. La parola “pescor” mi ha sempre affascinato, così come “cubilot”, che è il nome di un’altra scoria.
Filone è pieno di debiti, deve pagare le bollette, le multe, vive con le pezze al culo (anche se ha una bellissima giacca), insomma fatica. Questo aspetto del personaggio, ti confesso, mi ha confortato e spinto a pensare una cosa sul conto del fumetto e cioè che soprattutto in certo fumetto questa tradizione romantica e bohémien dell’artista si è conservata, mentre se apri la porta di casa, oggi, vedi una folla di trapper e di rapper imprenditori che parlano di soldi, di come fare i soldi, che fanno musica per fare i soldi e nel cui immaginario non si conserva la minima traccia di quella figura dell’artista bohémien…
Capisco, ma ci tengo a dire una cosa: il mio sguardo su Italo non è benevolo, perché Italo Filone è un egoista, un presunto artista che sacrifica la famiglia pur di realizzare i propri sogni e così facendo trascina gli altri nella propria spirale autodistruttiva.È vero però che il fumettista è un mestiere povero ma nobile, fatto di poco e con poco. Perciò è facile vedere nel fumettista un bohémien.
Un aspetto che ho trovato molto contemporaneo del tuo fumetto è la centralità del sud, della Calabria, di Crotone, della famiglia, dei parenti. Penso alle dichiarazioni del ministro Peppe Provenzano, alla fortissima emigrazione da sud verso il nord e l’UE di questi anni. Il sud per contrappasso torna a essere una terra mitica, vagheggiata. Non so se hai presente fenomeni pop come Casa Surace, con la sua retorica delle radici, dei costumi, dei dialetti.
Conosco Casa Surace. Mi sembra che presti il fianco a certi luoghi comuni sul meridione. È un tipo di trattamento della cultura del sud che trovo mortificante. Aggiungo una cosa. Nunzio Belcaro, persona straordinaria e gestore della libreria Ubik di Catanzaro, mi ha fatto capire che la Calabria è una delle poche aree geografiche d’Europa dove la globalizzazione fatica a penetrare.
C’è un momento molto poetico in Italo, ovvero la pasta al forno cucinata dalla mamma e mangiata in spiaggia con 40 gradi sotto il sole. Vorrei chiederti se a Milano la Calabria è sempre con te e in che modo è sempre con te…
Effettivamente, anche se risiedo a Milano, col cuore vivo in Calabria. La mia condizione di meridionale mi accompagna. Paradossalmente, quando vivevo da ragazzo a Crotone, con la testa ero già a Bologna, a Roma, a Milano. Alla mia famiglia sono legato e sento fortissimo anche il richiamo della terra. Quando torno a Melissa, il paese natale di mio padre, sento le radici che mi trascinano giù, sotto terra (nel dirlo Filosa mima con le braccia e le dita il movimento di qualcosa che sembra ghermire un corpo e sprofondarlo da qualche parte in basso, NDA).
“Melodia antica e irresistibile”, dice il padre del protagonista, commentando una tarantella danzata a una festa di matrimonio; e Italo Filone commenta: “Allegra e malinconica, come il patriarcato”. Trovo che sia uno scambio potentissimo, buffo, sorprendente. Ma in che senso il patriarcato è allegro e malinconico?
Mio padre ha vissuto nel patriarcato assoluto. La sua vita era più semplice, in un certo senso, più ingenua e felice. L’immagine più antica che ho dentro di me e che associo al patriarcato è un’enorme riunione di famiglia in campagna, al momento della vendemmia, e un mio zio che arriva e comincia a distribuire compiti. Tu fai questo, tu fai quest’altro. Mio zio era anche un grandissimo lettore di Tex, che ho iniziato a conoscere grazie a lui. Queste figure di padri, di zii, erano sagome silenziose, con gli occhi a fessura che sorridevano e ti comunicavano anche il peso del lavoro, della fatica. In Calabria è popolarissima questa tarantella, “Il ballo della zitella”, che ho provato a disegnare passo per passo nel libro. Spopola ai matrimoni, ma pure in spiaggia. La nuova Presidente di Regione, quando ha vinto le elezioni, ha ballato la tarantella. In Calabria il ritorno al patriarcato è di grande attualità. Il patriarcato è un sogno. La Calabria è un paese di grandi nostalgici. Nei paesi la psicologia è ancora quella di un tempo. Qualche settimana fa un compaesano doveva portarmi l’olio, qui a Milano, ma aveva imbarazzo perché avrebbe dovuto suonare alla porta e consegnarlo alla mia compagna, mentre io non ero in casa…
E tu come ti poni di fronte a questa cultura?
Io non credo che si stesse meglio un tempo. Anzi, penso che stiamo vivendo un periodo bellissimo, perché stiamo provando a sperimentare un nuovo confronto tra i sessi, a vivere un vero rispetto reciproco. È un momento storico e sociale emozionante. Io sono uno che il patriarcato lo ha subito. Sono un fumettista, uno di quei soggetti che non quadrano molto con il patriarcato. Eppure, come racconto in Italo, so che in determinate circostanze anch’io posso tornare a essere un cane e un fascista inconsapevole.
I rapporti tra uomo e donna nei tuoi libri sono poco civilizzati, eppure molto intimi. Ci si sopporta poco, si è sempre in conflitto e ci si manda volentieri a fanculo…
È la dinamica di coppia che meglio riesco a raccontare, vuoi perché non sono un maestro dell’erotismo, vuoi perché faccio fatica a comunicare quelle poche e aride aree gentili del mio intimo… Inoltre sono un grande amante del melodramma, nella vita come nell’arte, e ho scoperto quanto è importante essere bruschi e diretti, anche in ambito lavorativo. Sono un sostenitore della filosofia del “vivi e lascia vivere”, ma ho anche imparato col tempo che uno scambio d’opinioni brusco può essere molto efficace.
In Figlio unico è scritto: “Quando hai un padre, non hai bisogno di altro”.
Antenati è una poesia di Pavese che ho scoperto a diciassette anni. È una poesia meschina e brutale. Riflette in modo cristallino certe dinamiche della mia terra. Man mano che passano gli anni, e la mia corazza giapponese va in pezzi, i versi di Antenati hanno ripreso a bussare con insistenza. Così come ci sono tre frasi pronunciate da mio padre che non cessano di tornarmi in mente. La prima risale a quando avevo più o meno quattordici anni ed ero pieno di amici: “Papà è il tuo unico, vero amico”. Ho lottato una vita contro questo assunto e adesso che sono padre per me è diventato Vangelo. La seconda, pochi mesi dopo che la polizia mi aveva fermato con una canna scatenando un dramma familiare inaudito: “Io ti conosco. Tuo padre è vizioso e lo sei pure tu”: in pratica, Antico Testamento. Infine, per farmi capire quanto bene mi vuole: “mi strapperei gli occhi anche adesso per darteli”. Ecco, sono ricordi e parole che mastico, sputo e rimastico in continuazione mentre disegno.
Nei tuoi libri compaiono spesso quegli scheletri di edifici che s’incontrano in Calabria e in Sicilia. Case non terminate, infrastrutture incompiute, palazzine senza intonaco.
Il mobilificio del bivio di Strongoli sulla SS106 è il primo ricordo che ho di un palazzo incompiuto. Ricordo di averlo intravisto dal finestrino di una Mercedes mentre stringevo in mano un Topolino. Per me l’incompiuto calabrese è l’insieme dei templi che abbiamo eretto in ricordo dei figli che sono partiti e non tornano più.
Veniamo a Viaggio a Tokyo, il libro uscito nel 2015 per Canicola che racconta la tua esperienza da gaijin. Chi sono i gaijin?
Sono gli stranieri che vivono a Tokyo. Un tempo il termine aveva una sfumatura di disprezzo. Gaijin erano i barbari.
Chi sono gli altri gaijin che oggi s’incontrano a Tokyo?
Fondamentalmente sono nerd occidentali che vanno a Tokyo per abbuffarsi di manga e cultura giapponese.
Quanto tempo hai vissuto a Tokyo?
Poco più di un anno. Tokyo è una città che amplifica ogni emozione, puoi sentirti al settimo cielo come la persona più sola sulla terra.
In Viaggio a Tokyo descrivi il tuo ingresso a Mandarake, cioè il celebre negozio di manga nel quartiere Shibuya. Che cosa hai provato?
Vertigine, confusione.
Quanti piani sono?
Un solo piano, mentre quello di Akihabara è di cinque piani e quello di Nakano di due piani. L’effetto è sconvolgente. I primi cinque, sei corridoi, dalle scaffalature altissime, sono dedicate ai dōjinshi, cioè alle autoproduzioni. Quindi ti trovi di fronte a questa sterminata distesa di fumetti fatti in casa, amatoriali, che sono parodie di altri fumetti o volumetti autobiografici. Non so se hai presente Hicksville, un fumetto uscito in Italia per BAO, nel quale si narra la storia di una città dove tutti si raccontano producendo un proprio manga. Ecco, in quel reparto di Mandarake sembrava di essere dentro Hicksville.
E lì scopri Yoshiharu Tsuge, che poi sarai tu a portare e a tradurre in Italia. Come ha reagito il pubblico italiano al Gekiga?
I lettori, specie i non frequentatori del manga, hanno riconosciuto il valore di opere come La mia vita in barca o L’uomo senza talento. I fratelli Tsuge hanno trovato un discreto successo. Il rammarico è quello di non essere riusciti a riproporre in maniera sistematica l’opera di Yoshiharu Tsuge.
Aokigahara Forest è il luogo dove il protagonista smaltisce l’astinenza da antidolorifici, perché anche in Viaggio a Tokyo ci sono gli antidolorifici. E in Figlio unico, il tuo secondo libro, c’è di nuovo un bosco, una foresta… è un caso o i boschi nella tua mente sono un luogo molto particolare?
Il bosco inquietante, pauroso, legato al tema della dipendenza, è un filo conduttore che percorre Figlio Unico e Viaggio a Tokyo. Alcuni dei miei ricordi d’infanzia sono legati ai boschi della Sila, alla paura delle vipere, alle passeggiate con la mia famiglia in cerca di funghi, a quel brivido che mi dava sentire la voce di mio padre o di mia madre che mi dicevano “attento, non allontanarti o rischi di perderti”. Nel caso di Viaggio a Tokyo ha giocato molto la fascinazione di un film come Sogni di Kurosawa.
Qualche giorno fa parlavo con una scrittrice. Diceva che non potrebbe mai mettere sé stessa nelle proprie storie, perché non sopporterebbe di venire associata ai fatti che racconta, che spesso sono molto scabrosi. Tu invece non ti fai nessun problema.
Io non riesco a prescindere dalla mia biografia e penso sia ipocrita la convinzione di poter raccontare solo attraverso la narrativa di genere o la fiction. Inoltre sono convinto che non ci siano storie che non valga la pena condividere e che ogni vita è degna di essere raccontata. Trovo che questo bisogno di essere o produrre qualcosa di speciale e diverso, questa necessità di visitare mondi lontani e altri, abbia distorto le aspettative della mia generazione. Quindi considero un mio dovere raccontare ciò che di più unico io posso offrire: la mia biografia.
A Luca Valtorta di Repubblica hai detto una cosa molto bella, parlando di gekiga, cioè il genere del fumetto giapponese che hai portato tu in Italia, anche attraverso il tuo lavoro editoriale con la casa editrice Canicola e il tuo mestiere di traduttore: “devi essere sincero e al tempo stesso assente, anche nel tratto. Il gekiga non si fonda sul bel disegno a tutti i costi, ma la sequenza è al servizio della storia. Questo ti permette di sparire”.
Una delle regole del gekiga è: racconta ciò che sai. Io non voglio raccontare quello che so, ma quello che vivo e che provo, di cui ho esperienza. Devi essere sincero ma assente e il fumetto ti consente di farlo, attraverso una resa realistica delle anatomie. La mia vita in barca di Tadao Tsuge per me è il modello di riferimento più importante. Tsuge ha una maniera educata e discreta di raccontare, lasciando al lettore il massimo di libertà d’interpretazione rispetto a una vicenda che è quella della vita dell’autore, ma al tempo stesso universale. Prima di conoscere il gekiga non facevo fumetti. È stato il gekiga a offrirmi una chiave d’ingresso. Nel fumetto occidentale c’è una continua ricerca dell’emotività, dalla quale io ho cercato di allontanarmi.
Io non ne so nulla di letteratura giapponese. Consigliami un libro.
Restando in tema di padri, ti consiglio Un’esperienza personale di Kenzaburo Oe.
A che cosa stai lavorando di nuovo?
Al secondo volume di Cosma e Mito, scritto da Nicola Zurlo. Un tripudio di seni e tentacoli giganteschi. Sono in ansia. Non avendo mai lavorato a una serie devo cercare di non annoiarmi e soprattutto di non annoiare i lettori. Ma in ambito fantastico proporre qualcosa che sia davvero unico è praticamente impossibile. Anche per questo abbiamo scelto di popolare la serie di mostri e luoghi della Calabria. Ci auguriamo che Cosma e Mito possa diventare un piccolo, allegro archivio di folklore calabrese.