H ai una corda al collo. Stai per mettere fine alla tua breve e tormentata vita di naufrago su un’isola deserta, quando la corrente trascina sulla spiaggia, di fronte ai tuoi occhi, un cadavere in giacca e cravatta che è sconquassato da peti roboanti. E ti salverà la vita. Sembra un’idea assurda, irrealizzabile, una parodia sagace di Castaway, invece è un film in carne e ossa e file digitali, ed è una di quelle idee per le quali si ringraziano gli dèi del cinema, che il film sia indimenticabile o che non lo sia.
Film di punta fra gli indie bizzarri al Sundance di quest’anno, Swiss Army Man è l’esordio di Daniels, un’idra a due teste, pseudonimo di una coppia di registi, Daniel Kwan e Daniel Scheinert. Quello della co-regia è un fenomeno più diffuso di quanto non sia riconosciuto, ed è spesso guardato con diffidenza. Ricordo una conoscente che si interrogava sulla dinamica fra due registi, dicendo: “Dev’essere una persona sola a prendere la decisione finale”. La realtà è più complessa, e un film è il risultato di decine di decisioni prese da un gruppo (più o meno allargato) di persone, dove l’arma cruciale non è avere l’ultima parola, ma circondarsi di individui che sapranno fare la scelta giusta per te. È la strada che hanno scelto i Daniels, e non soltanto loro. In questo ultimo mese, undici dei film usciti in Italia sono co-regie. Mine, thriller USA nei cinema da inizio ottobre, è firmato da due italiani, nella fattispecie due Fabio. Il fatto che sia una pratica sempre più diffusa è testimonianza di un certo modo di fare cinema che non ruota necessariamente attorno alla figura del Re Sole.
I Daniels nascono come registi commerciali: le loro incursioni in pubblicità e video musicali li hanno fatti conoscere per una propensione al morboso e all’assurdo, sempre traslata nell’immancabile chiave umoristica. Non stupisce che esordiscano al cinema con una storia di cadaveri salvavita.
Se in cento minuti non dubitiamo mai che un morto possa parlarci, o insegnarci cosa sia la vita, è dovuto al fatto che le regole del mondo del film ci sono state trasmesse con grazia e convinzione.
A dimostrazione del fatto che la mia conoscente aveva torto, la regia di Swiss Army Man dimostra una direzione precisa. L’approccio visivo dei Daniels è coerente, chiaro fin dal principio. Il film ricade in quella piega dei “cineasti indipendenti che fanno le cose con le proprie mani”: quegli autori come i Michel Gondry, i Takeshi Kitano, i Taika Waititi, gente che ha fatto della propria personale ricostruzione del mondo la carta vincente della propria filmografia, a partire dall’impronta che lasciano nella scenografia. Kitano dipinge, Gondry e Waititi costruiscono cose; i Daniels, nel loro film, ricostruiscono gli oggetti del mondo civilizzato con sterpi, spazzatura e pezzi di corteccia abbandonati nell’isola deserta in cui ambientano la storia.
Lo stesso discorso di “artigianato” vale per le musiche, che giocano in un registro che solo il cinema indipendente può permettersi: le voci di Paul Dano (l’uomo vivo) e Daniel Radcliffe (il cadavere) sono impresse nella colonna sonora del film, a ricreare la cantilena interiore del protagonista. Il risultato è sempre a un passo dall’essere lezioso, ma è troppo consapevole per non fare autoironia (più o meno ogni volta che qualcuno canta, l’azione viene commentata sullo schermo).
Anche se si basa unicamente sulla premessa di un cadavere petomane, l’universo creato dai Daniels diventa credibilissimo grazie al lavoro di interazione tra i personaggi e l’ambiente. Se in poco meno di cento minuti di film non dubitiamo mai che un morto possa parlarci, o che possa insegnarci cosa sia la vita, è dovuto al fatto che le regole di quel mondo ci sono state trasmesse con grazia e convinzione.
È il momento in cui i Daniels smettono di credere al loro universo per dare un finale al film che infrange la nostra sospensione del giudizio. Ed è la sceneggiatura di Swiss Army Man, rilavorata ai workshop del Sundance, a tradire il mondo che ha creato (e così torniamo all’idea che un film è una serie di decisioni spesso entropiche): l’atto finale del film nega tutte le premesse cui abbiamo deciso di credere, perché beve un sorso dal falso Graal dello spiegone hollywoodiano. Se per tre quarti di film non abbiamo avuto bisogno di sapere perché qualcosa si è verificato, grazie alla tessitura e alla grammatica di Daniels, è improbabile che moriremo dalla voglia di saperlo adesso. Il compromesso con le regole di Hollywood è un errore comune che i Daniels sceneggiatori hanno commesso, contraddicendo la loro coerenza visiva. Sarà la seconda opera a stabilire se finiranno nella pila degli autori americani incompiuti, o verranno consacrati come “cineasti indipendenti che fanno le cose con le proprie mani”.