Stella Succi
/ IMMAGINE: Due qui / To Hear, Padiglione Italia, 60.Esposizione internazionale d’arte. Courtesy: La Biennale di Venezia. Foto: Andrea Avezzù.
2.5.2024
Suono, geometria e grazia
Una conversazione con Massimo Bartolini, artista del Padiglione Italia alla Biennale 2024.
Stella Succi è una storica dell'arte e ricercatrice indipendente. Ha fatto parte delle redazioni di Alfabeta2, Mousse Magazine, The Towner, Prismo e attualmente è coordinatrice del Tascabile. Fa parte di Altalena, collettivo e gruppo di ricerca interdisciplinare nel campo delle arti visive. Dal 2020 cura la ricerca drammaturgica della danzatrice e coreografa Annamaria Ajmone. È ricercatrice presso least [laboratoire écologie et art pour une société en transition].
U
n giardino all’italiana al cui centro pulsa l’onda di uno tsunami; un immenso organo; un piccolo Buddha in bronzo seduto in meditazione su un la bemolle; dagli alberi, un canto; nel prato, una fiaba, il discorso di un condannato, un cerchio di persone piantate in terra per le gambe. Il progetto Due qui / To Hear di Massimo Bartolini per il Padiglione Italia alla Biennale d’arte 2024 (curato da Luca Cerizza e promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura) è frutto di un percorso fatto di numerose collaborazioni artistiche e tecniche. È così che la sua riflessione ha potuto declinarsi in suono, forma, parola, corpo, paesaggio. L’insieme delle opere invita all’inazione, all’attenzione, a ritrovare un senso del sacro e dell’universale in una Biennale ancorata (e a tratti inchiodata) alle storie e alle identità.
Nella guida che accompagna Due qui / To Hear ringrazi Thelonius Monk, Emily Dickinson e Cristina Campo. Che rapporto hai con gli scritti di Cristina Campo?
Conosco il lavoro di Cristina Campo da una venticinquina d’anni. È una lettura fulminante, soprattutto relativamente al “sapore massimo di ogni parola” che si percepisce in lei. Io di formazione sono geometra, quindi la mia cultura è abbastanza approssimativa, eventuale, e Campo mi ha fatto conoscere Simone Weil. Ho anche creato un’opera per Cristina Campo: un paio di orecchini dalla perla scavata. Sono due “extrapadiglioni auricolari”, per sentire ancora di più.
E per quanto riguarda questo lavoro in particolare? È un Padiglione che trasmette sacralità, con il Buddha e la canna d’organo di Pensive Bodhisattva on A Flat all’ingresso, e Due qui, il grande organo in tubi innocenti nella sala centrale che emette una composizione musicale di Caterina Barbieri e Kali Malone.
Il mio lavoro, in effetti, è una campagna per riportare il sacro anche nella vita di noi laici: un sacro weiliano e campiano, cioè relativo all’impersonale in ognuno di noi. Se noi riusciamo a fare arte, a capirla, a confrontarci, io credo che non sia per un fatto culturale, ma sovraculturale – o quantomeno, io ho la pretesa, con il mio lavoro, di travalicare le culture. Credo che mi sia riuscito, perché al Padiglione ho visto tanta gente diversa emozionarsi. Io posso non capire un idolo di un paese lontano, ma se rido o se ci tocchiamo ci capiamo – ecco, io desidero arrivare a un punto in cui ci capiamo. A sentire prima di ascoltare, secondo la dualità di Pauline Oliveiros, o, per tornare a Campo, alla sintesi invece dell’analisi. L’analisi tradisce una paura del mondo, il bisogno di fare proiezioni, di capire. Io sono appassionato di poesia, di sintesi, del momento felice di allegra fusione con quello che ti sta intorno, delle tre parole che descrivono il mondo.
Hai citato Pauline Oliveiros, compositrice e teorica della pratica dell’ascolto profondo.
L’ascolto è attenzione, ed è un altro tipo di attenzione rispetto alla vista, alla quale siamo abituati. La nostra società è a trazione visiva, e questo ci preclude altre dimensioni – io vedo quello che mi sta di fronte, non vedo quello che mi sta dietro. L’invisibile è precluso. La confidenza nell’invisibile è una cosa che secondo me andrebbe insegnata, ma non come fa la religione, che a un certo punto riempie l’invisibile di immagini. Piuttosto, aspirare a una dimestichezza a trattare cose che non si vedono, e l’ascolto può dare un grosso aiuto. Io sento quello che non vedo quando ascolto. L’ascolto gira intorno a me a 360 gradi, e quindi posso cogliere qualcosa al di fuori della dialettica frontale della visione. Credo che anche questo sia qualcosa di campiano.
Lavorare sul suono significa anche trattare l’aria come medium e interfaccia relazionale tra umano e oltre-che-umano: lo hai fatto nel Padiglione, ed è anche un elemento del concerto di Gavin e Yuri Bryars per voci, campana e vibrafono (A veces ya no puedo moverme) che è stato parte del public program del Padiglione.
Emanuele Coccia parla dello scambio di respiro con le piante: io ho trasposto questo scambio nello strumento dell’organo, e mi è sembrato ancora più vertiginoso, perché l’aria che l’organo emette sotto forma di nota, tu la respiri – respiri una nota, e butti fuori aria, e con quell’aria l’organo fa una nota che tu respiri. L’organo di solito è alto, lontano: io l’ho voluto avvicinare fisicamente per far percepire non solo la sua nota ma anche il suo respiro, il suo fiato, e ho voluto anche donargli una struttura familiare, come quella di uno scaffale.
Due qui / To Hear è giocato sulla visualizzazione del suono. Oggi, a meno che tu non vada a un concerto, non vedi più gli strumenti, sono oggetti lontani. Nel padiglione lo strumento è presenza del suono, così come a un concerto. L’aria modella lo strumento, e lo strumento esprime la musica, perché per fare quella nota deve avere proprio quella dimensione e proprio quella forma. È uno scambio in cui l’aria scolpisce la materia; la misura si impone perché appaia una nota. I due aspetti – la cosa solida, concreta, e la cosa aerea, invisibile – sono rilevanti nello stesso modo. Tra l’altro la mostra a tratti si spegne per permettere ai suoni delle altre due stanze di accedere, di interfacciarsi. In effetti è un’orchestrazione di una specie di trio o di terzetto.
Dicevi di esserti formato come geometra. Qual è il tuo rapporto con la matematica, con la tecnica, in relazione all’impersonale? Di primo acchito, entrando nel Padiglione, mi ha colpita l’ortogonalità cartesiana delle tue sculture. Poi, però, la grande canna d’organo della prima sala è sdraiata in orizzontale invece che in verticale; nella seconda sala, le fughe prospettiche del giardino all’italiana a cui ti sei ispirato esplodono, fanno un salto verso l’alto e diventano un labirinto. Al centro di queste fughe, nella vasca si muove un’onda perenne: dall’ortogonalità si passa alla circolarità. E alla fine, resta solo il rapporto tra suono e silenzio, pieno e vuoto.
La geometria è un modo di collocarsi dentro il mondo, e a me ha dato una forma mentale molto precisa. Il mio modo di relazionarmi allo spazio viene esclusivamente da lì, dal fare topografia, dal misurare il terreno, dal disegno delle proiezioni. Un tempo era un lavoro manuale, si usavano la livella, la stadia, si facevano gli angoli, bisognava mettere in bolla lo strumento – riportare un esagono con un lato di 30 metri disegnando sul terreno non è facile, mi sembrava sempre di riparare un orologio. È da lì che ho imparato la costruzione dello spazio. Allo stesso tempo il progetto può essere una gabbia, quindi un buon progetto secondo me deve sempre avere una parte “cava” – è rischioso, perché è dove si può annidare un errore, ma è anche la parte che può permette al lavoro di fiorire, di legarsi al posto in cui sta.
La persona e il sacro di Weil che citi nel tuo testo per Due qui / To Hear è un saggio che si muove tra dottrina e filosofia sociale e politica: parla del rapporto tra individuo e collettività, di diritto, di giustizia, di compassione. In Biennale, e più in generale nei linguaggi artistici contemporanei, la componente politica è spesso molto schietta. Dopo aver attraversato l’Arsenale, ho avuto la sensazione che anche Due qui / To Hear esprima un messaggio politico affrontandolo però da una distanza siderale. Qual è la tua relazione con la politica, con la storia?
Io non ho mai avuto una vita politica attiva (ma vado sempre a votare, perché penso sia giusto). Chiaramente mi interrogo: “ma con tutto quello che succede nel mondo, perché sono qui a fare le mie cosette?”. Weil mi ha reso comprensibile qualcosa che avevo già trovato nelle religioni orientali e che mi risultava di difficile applicazione. Sto parlando dell’interpretazione di alcune parole che sono abusate ma, credo, poco comprese nella loro profondità – come giustizia, ad esempio, che è la parola più bella del mondo, e che abbiamo scambiata con la parola libertà. Libertà è una parola che non mi piace più, perché è una parola che è rimasta sola, e difatti i Francesi gliene avevano messe due accanto, e se non ci sono le altre due quella parola è terrificante: vediamo i frutti, della libertà senza giustizia.
Ora, non so se dalle opere emergano tutte queste cose, ma di sicuro io ci penso mentre lavoro. Due qui / To Hear parla chiaramente di condivisione, parla di non essere asserviti a una struttura di lavoro alienante. È un invito a stare a sedere, fermi: guardiamo insieme questa cosa che cambia, sgonfiamoci dalle pretese. Tante persone passano e si siedono, pensano: ora mi riposo. Perché sembra che dappertutto cia sia un discorso, che si debba sempre prendere posizione. E nessuno invece si siede all’interno di se stesso, come il Pensive Boshidattva. Questo è sicuramente presente nel padiglione, l’idea di concepire il non fare come fare la mia ricchitudine, fare la mia grazia. Meister Eckhart diceva “essere per grazia ciò che Dio è per natura”.
A Dio uno può credere o meno, ma fare intervenire la grazia su se stessi è come accordarsi a una giustizia. Per far intervenire la grazia è necessario riferirsi all’ impersonale di Weil, e se succede questo non abbiamo più bisogno nemmeno di parlare fra di noi, faremo entrambi la cosa giusta l’uno per l’altro. Come fare? Credo stando con le persone, con i ragazzi, insegnando l’unica cosa che valga la pena insegnare: come accedere alla giustizia attraverso il nostro impersonale. Mi sembra che questo sia l’unica vera questione. È anche la tremenda morale di Apocalypse Now, quando Kurtz dice che vincerebbe la guerra con dieci divisioni di soldati che hanno la forza morale di tagliare il braccio vaccinato dagli americani ai loro figli.
Il Padiglione convoglia verso le opere e l’artista, contemporaneamente, il massimo dell’attenzione e il massimo della disattenzione. Quali sono state le tue difficoltà o paure nell’interfacciarti con l’infrastruttura della Biennale?
Si parla spesso della complessità di affrontare le dimensioni del Padiglione Italia. Il Padiglione è molto grande, ma non è uno spazio piccolo né gigantesco, e in ogni caso a me lo spazio non ha mai fatto paura: basta parlarsi e ci si capisce, è un’opportunità. Mi ha piuttosto tormentato la ristrettezza dei tempi, perché non abbiamo potuto essere operativi che cinque o sei mesi fa. In questo modo ogni problema produttivo crea tensione, ma il progetto, a parte qualche modifica, è sempre stato quello. Oltretutto sono lavori su cui, con alcune differenze, ho lavorato in passato; a parte il lavoro in giardino, hanno un retroterra: volevo mostrare il risultato di una ricerca, non mettermi a fare delle sperimentazioni come forse avrei fatto da giovane. E poi sono stato sostenuto da tutti, a partire dalle mie gallerie, dal curatore Luca Cerizza, da tutte le persone coinvolte, e non mi posso lamentare nemmeno del budget.
E per quanto riguarda le polemiche?
Le recensioni, gli articoli, non li leggo. Me li hanno mandati una volta e non li ho più voluti ricevere. Non rileggo nemmeno le interviste che faccio, magari lo farò fra qualche anno. Sto e sono sempre stato in una specie di guscio nel quale mi è facile vivere.
Ho trovato paradossale che la critica di Brugnaro vertesse sull’assenza della tradizione italiana dalla tua opera. Io l’ho trovata a tratti addirittura “toscana” – Campo, la geometria, anche la metafisica, nella straniante fontana silenziosa centrale.
Dalla mia finestra qui a Cecina vedo tutti i giorni questo paesaggio: là c’è la casa di Boccaccio; più in là la casa di Michelangelo; poco distante, lo studio di Desiderio da Settignano. Queste sono le mie “zuppe Campbell”. Io tutti i giorni vedo, vedo queste cose qui.
Mi ci siedo sopra, mi ci appoggio, mi ci pulisco il fango delle scarpe quando vado a camminare. Non ho mai avuto paura di riferirmi a Beato Angelico, lo vedo tutti i giorni, gli do del tu. La pretesa di questi artisti era di essere universali, addirittura di parlare a Dio: riferirsi a questi artisti non vuol dire riferirsi a dove operavano. Riferirsi a questi artisti vuol dire riferirsi a dove puntava il loro desiderio.
Nel mio lavoro c’è tantissimo di italiano, anche nel lavoro per la Biennale. La pianta di Due qui / To Hear è un giardino all’italiana con la vasca al centro. Ferdinando Innocenti (che ha brevettato i tubi innocenti), gli organari e l’ingegnere che hanno progettato l’organo: sono tutti Pistoiesi. C’è poi una tensione tra il massimo del “fatto a mano” e della tecnica. Non so se hai notato, ma accanto all’organone c’è un lavoro fantasma, si chiama “fare”: è un organino a un metro e dieci di altezza, ad altezza bambino, tre armonichine che fanno un fa, un fa e un re. E poi, la lettura della fiaba di Nicoletta Costa che è parte del public program l’abbiamo fatta proprio davanti alla scritta Italia del Padiglione. C’è l’inclusione di Tiziano Scarpa.
Il public program del tuo progetto è molto ricco. Ho visto che in un incontro hai incluso David George Haskell: il suo Suoni fragili e selvaggi connette suono e tempo profondo, e camminando per il Padiglione mi hai fatto pensare alle sue pagine.
È un libro che mi ha colpito. Tra l’altro quando costruisci un lavoro sei costretto a muoverti, specialmente se un lavoro suona: per ascoltarlo in modo corretto ti devi muovere, ed è proprio ciò che ha dato origine al suono, muoversi e sentire lo spostamento d’aria. Sono tante le letture che mi hanno aiutato in Due qui / To Hear, a capire se questo lavoro fosse idiosincratico o se invece avesse senso – Haskell, Byung-Chul Han, ma appunto, soprattutto Weil: mi ha dato la forza, la convinzione di pensare che fosse qualcosa di importante da mettere nel mondo.