S pero che mi sarà concesso di parlare, e parlare io voglio! Non son più ragazza né bambina. Gente meglio di voi m’ha lasciata dir la mia e se voi non potete permettermelo, turatevi le orecchie. La mia lingua vuol gridare” dichiara Caterina, la “bisbetica”, ancora indomata, della celebre opera di William Shakespeare. Tra il Cinquecento e il Seicento, un cospicuo numero di opere teatrali condivideva l’idea del femminile come macchina della sovversione; una sovversione che – nella maggior parte degli esempi – doveva essere addomesticata e messa a tacere. Una comunità senza precisa appartenenza legava la strega, la bisbetica, la puttana – figure poi frettolosamente rivendicate nella modernità, senza tuttavia elaborarne fino a fondo il piano di rovesciamento dei valori.
Se l’istituzione della famiglia come modello da proteggere e replicare costituisce ciò che Silvia Federici, nel suo classico Calibano e la strega, chiama “l’embrione di una politica capitalistica della riproduzione”, quanto accomuna la sorte di questi personaggi femminili eversivi è proprio la presa di distanza dal corpo dalla cornice familistica, e dalle sue funzioni puramente biologiche e riproduttive: “si accusavano le donne di essere irragionevoli, vanesie, selvagge, inefficienti. Più di ogni altra cosa era biasimata la lingua femminile, considerata strumento di insubordinazione. […] Il bersaglio maggiore era la moglie disobbediente, che insieme alla “bisbetica”, alla “strega” e alla “sgualdrina” era uno dei soggetti favoriti dei commediografi, degli scrittori popolari e dei moralisti”. Eppure, contro ogni programma didattico, contro ogni semplificazione moralistica, qualcosa in queste opere teatrali si muove verso un’altra direzione. Se è pur vero che in molti vi hanno saputo trovare soltanto una funzione repressiva, certamente presente e mirata a scongiurare la sovversione, noi, a nostra volta, possiamo sovvertire questa prima lettura, scovarvi modelli di insubordinazione per farne un uso differente, non coincidente con il potere del testo (ma nemmeno con il suo totale stravolgimento).
Quanto accomuna la sorte di questi personaggi femminili eversivi è la presa di distanza dal corpo dalla cornice familistica e dalle sue funzioni puramente biologiche e riproduttive.
Prendiamo Peccato che sia una sgualdrina di John Ford: considerata un’opera controversa a causa del tema dell’incesto, dei rapporti tumultuosi tra i personaggi e della profonda violenza disseminata in tutta la trama, non si può non notare in essa qualcosa che supera la rigidità del racconto morale, nonostante il finale veda l’assassinio “risolutorio” di tre dei quattro personaggi femminili. Una forza già notata da Antonin Artaud nel Teatro e il suo doppio, quando scriveva che il teatro, come la peste, è un formidabile “appello a forze che riportano con l’esempio lo spirito alla fonte dei suoi conflitti. Ed evidentemente l’esempio passionale di Ford altro non è che il simbolo di un lavoro più gigantesco e assolutamente essenziale”.
A tal proposito, il personaggio di Putana, dal nome così parlante, è emblematico: Ford ci propone il ritratto di una figura femminile non arresa al suo mero ruolo narrativo, incarnazione di una insurrezione contro la norma. Putana è la tutrice di Annabella, figura centrale dell’opera; proprio per via della sua identità, Putana si trova nella posizione di incoraggiare la relazione proibita tra Annabella e suo fratello. Il suo discorso è un esempio della prepotenza della lingua, una sorta di incantesimo retorico che minaccia concretamente le convenzioni sociali: “‘Sotto’ quale paradiso di gioia ti sei trovata! E ora io ti approvo, figliola” dice Putana; “non aver paura di nulla, cuoricino mio: cosa importa che sia tuo fratello? Tuo fratello è un uomo, spero; e dico di più: se una ragazza giovane si sente addosso la voglia, lasciate che prenda uno qualsiasi, padre o fratello che sia. È tutt’uno”. È tutt’uno… In questo breve frammento notiamo già una straordinaria critica dei ruoli identitari imposti dalla famiglia come miniaturizzazione delle strutture sociali dominanti.
Il desiderio di andare oltre la superstizione parentale e le costrizioni imposte dalla morale diventerà uno degli argomenti fondamentali del femminismo radicale e del suo attacco all’istituzione della famiglia biologica.
Questo desiderio di andare oltre la superstizione parentale e le costrizioni imposte dalla morale diventerà — nel XX secolo — uno degli argomenti fondamentali del femminismo radicale e del suo attacco all’istituzione della famiglia biologica. Se Shulamith Firestone sosteneva che il tabù dell’incesto poteva essere considerato funzionale soltanto a mantenere l’istituzione della famiglia, più avanti Judith Butler, in Questioni di genere, rimarcherà ulteriormente la necessità di decostruirne la genealogia. La distinzione tra naturale e innaturale, legittimo e illegittimo, permesso e proibito non previene soltanto l’incesto, ma tutto ciò che trapassa il mito procreativo, come l’omosessualità. Nelle parole di Judith Butler, il tabù non reprimerebbe soltanto delle predisposizioni primarie, “ma creerebbe proprio la distinzione tra predisposizioni “primarie” e “secondarie”, per descrivere e riprodurre la distinzione tra un’eterosessualità legittima e un’omosessualità illegittima”. Quindi, “se concepiamo il tabù dell’incesto come primariamente produttivo nei suoi effetti, allora il divieto che fonda il “soggetto” e sopravvive in quanto legge del suo desiderio diventa lo strumento attraverso il quale l’identità, e in particolare l’identità di genere viene costituita”.
Sebbene John Ford non condanni apertamente l’incesto, il destino sciagurato di Putana illustra con veemenza l’instaurazione di una norma sessuale come dispositivo di controllo chiamato a riprodursi per sopravvivere, a ingenerarsi senza che qualcuno l’abbia mai davvero generato; in quest’ottica, nessun deragliamento può essere tollerato. Se Giovanni è l’agente attivo della sovversione, Putana è il colpevole ideologico, la “cattiva donna” che assiste volentieri – e persino incoraggia – l’atto di perversione. Di conseguenza, deve essere punita in modo esemplare, così da impedire il diffondersi di un pericoloso modello di insubordinazione.
Ciò che è escluso dall’ordine sociale resta implicitamente incluso come presenza spettrale. Le ceneri del discorso sovversivo sono sempre ‘in fiamme.
Questa prevenzione è una costante del Cinquecento e del Seicento: il linguaggio femminile era generalmente visto come una minaccia; costituiva infatti la giustificazione per una rivolta contro l’ordine, una rivolta che poteva portare a qualcosa di grande come le passate rivolte dei contadini (Peasants’ Revolt), di cui l’ombra del Sabbat formava un terribile parallelo. Per questo Kirilka Stavreva sostiene che il discorso delle streghe “evocava una storia di discorsi insurrezionali che ebbero un impatto oltre la sfera femminile”; per questo la brutale punizione di Putana è vicina alla punizione di una strega a tutti gli effetti: bruciata sul rogo. Nel finale dell’opera, il cardinale esprime il valore esemplare di un castigo del genere: “Silenzio! Prima di tutto sentenzio che questa donna, responsabile prima di questi eventi, sia portata via di qui, fuori della città, e perché serva d’esempio, sia bruciata fino ad essere ridotta in cenere”. E tuttavia, ciò che è escluso dall’ordine sociale resta implicitamente incluso come presenza spettrale. Le ceneri del discorso sovversivo sono sempre in fiamme.
Alla luce di questo rogo che continua a bruciare, dovremmo domandarci: come è stato possibile trasformare il corpo della donna in un tale dominio coloniale? Come è stato possibile abbracciare un processo di degradazione femminile in un’epoca generalmente vista come più avanzata rispetto al sempre troppo vituperato “Medioevo”? La letteratura può aiutarci ad analizzare l’architettura ideologica di questo processo. Innanzitutto, bisogna considerare come nella opere teatrali e nei trattati del Cinquecento e Seicento vi fossero almeno tre interpretazioni riguardo alla figura femminile: una concezione della donna come essere inferiore e irrisolvibile – proveniente dalla tradizione aristotelica e scolastica –; un ritratto ideale, metafisico, alchemico delle donne come esseri spirituali e superiori, di cui Stevie Davies fornisce un sunto nel suo fondamentale saggio The Feminine Reclaimed; un modello patriarcale a cui ogni donna doveva tendere, frutto di un processo di disciplinamento della condizione femminile.
Questi modelli non sono fissi, non si escludono a vicenda, ma trascolorano, migrano e sopravvivono uno nell’altro, formando un avvicendamento di letture. Nelle sue opere, il Bardo mostra continuamente il carattere dirompente e violento del potere maschile, ma anche il capovolgimento della legge del padre. Pensiamo a Re Lear, questa figura prototipica del patriarca, questo personaggio quasi biblico che si riconcilia con la figlia attraverso un’umiliazione volontaria (“l’anziano si inginocchia alla giovane, il maschio si arrende alla femmina” dice Stevie Davies). Pensiamo anche alle sorprendenti trasformazioni de La dodicesima notte. Ma se, da una parte, la natura teatrale ermafroditica di Viola / Cesario può essere letta come una dirompente proliferazione di “stati” che non sono identità ma passaggi, capovolgimenti, transizioni (“l’uno nei molti” ) e nozze alchemiche (“solvi et coagula”), è poi lo stesso Shakespeare a offrire, nella Bisbetica domata, un esempio lampante del modello patriarcale: in quest’opera, egli descrive – attraverso la figura di Caterina – il doloroso e contorto percorso di addomesticamento di una moglie ribelle attuato da suo marito Petruchio. Il discorso finale di Caterina, che sancisce il successo del progetto, è particolarmente interessante: “Mi vergogno che le donne siano così sciocche da offrir guerra mentre dovrebbero chieder la pace in ginocchio, che vogliano legiferare, dominare, soverchiare, quando son nate a servire, ad amare e a ubbidire”. In questa specie di manifesto retorico, troviamo concentrata la costellazione di argomentazioni ideologiche che – in tutti questi secoli – sono state dispiegate per attuare tale addomesticamento: la giustificazione biologica dell’inferiorità delle donne, l’accentuazione della vocazione servile, la disparità e la conseguente svalutazione del lavoro femminile fuori casa, la neutralizzazione dell’autonomia e – infine – la produzione di un corpus di testi ideologicamente finalizzato a riprodurre, ampliare e assicurare il successo di questo processo disciplinante. Un’opera teatrale non era solo un intrattenimento: era una parte fondante del processo.
L’addomesticamento della femminilità non implica solo una modifica provvisoria dell’ordine sociale, ma la trasformazione di intere zone del corpo, del mondo e dei suoi saperi in oggetti estranei.
È sempre Silvia Federici a sottolineare infatti il ruolo della letteratura durante questa peculiare transizione sociale (transizione spesso trascurata nell’analisi della nascita dell’età capitalistica): “Non ci si deve sorprendere, data la svalutazione del lavoro e dello stato sociale delle donne, se l’insubordinazione femminile e i metodi con cui potevano essere ‘domate’ fossero tra i temi principali della letteratura e delle politiche sociali della transizione. Le donne non avrebbero potuto essere completamente svalutate come lavoratrici e private di ogni autonomia rispetto agli uomini se prima non fossero state fatte oggetto di un intenso processo di degradazione sociale tale per cui, tra il XVI e il XVII secolo, esse persero terreno in tutte le aree della vita pubblica”. Quando pensiamo al calvario di Caterina, vediamo “ingigantito” un processo di tortura psicologica, declassamento e violenta umiliazione: ma questo processo, se tradotto dalla sfera privata all’intera struttura sociale, manifesta caratteristiche ancora più spaventose. L’addomesticamento della femminilità non implica solo una modifica provvisoria dell’ordine sociale, ma la trasformazione di intere zone del corpo, del mondo e dei suoi saperi in oggetti estranei; il dominio patriarcale si afferma attraverso la presa violenta di quella che per secoli era stata una realtà prevalentemente femminile: l’assistenza alle donne incinte e anziane, la trasmissione di rimedi curativi, il controllo delle nascite, ecc. Così come il tabù dell’incesto crea una distinzione tra sessualità legittima e illegittima, così la scienza maschile distingue una conoscenza legittima da una che proviene da una fonte senza alcuna legittimazione.
Ecco perché, nell’analizzare questi drammi, notiamo sempre un’area di indistinzione che unisce, nella stessa comunità, tutte le forme di disobbedienza incarnate in coloro che tentano di sfuggire alla norma. Come abbiamo già affermato, le controverse figure di questo periodo (la moglie ribelle, la puttana, la strega) condividono un destino doloroso che supera il loro status “originario”. Se Putana presenta il pericolo di una sessualità polimorfa, e Caterina quello di una disobbedienza selvaggia, allo stesso modo la cosiddetta strega è colei che – in questo periodo – si rifiuta di abbandonare una conoscenza che le è stata ingiustamente sottratta. La sua ribellione contiene sia l’elemento sessuale sia l’elemento anarchico, ma anche qualcos’altro: l’eresia diventa un’eresia della conoscenza. In Dreaming the Dark: Magic, Sex, and Politics, Starhawk spiega che “le persecuzioni delle streghe erano legate a un altro dei profondi cambiamenti nella coscienza avvenuti durante il XVI e il XVII secolo. L’affermarsi del professionalismo in molti ambiti della vita fece sì che le attività e i servizi che le persone avevano sempre svolto per sé stessi, per i propri vicini e per le famiglie fossero assunte da un corpo di esperti retribuiti, abilitati o quantomeno riconosciuti come guardiani di un corpus di conoscenze approvato e limitato. […] I poteri delle streghe, usati per nuocere o per guarire, erano etichettati come malvagi perché provenivano da una fonte non approvata”.
Nell’analizzare questi drammi, notiamo sempre un’area di ‘indistinzione’ che unisce, nella stessa comunità, tutte le forme di disobbedienza incarnate in coloro che tentano di sfuggire alla norma.
La criminalizzazione di certi saperi tramandati, di certe modalità di darsi volontariamente all’intossicazione, la progressiva schiavizzazione delle risorse naturali in brevetti farmaceutici: tutto questo partecipa a uno smantellamento dell’universo femminile che il filosofo Preciado, con quel movimento vertiginoso che sempre appartiene al passato non trascorso, ricollega ai paradigmi biopolitici della modernità, e ai tentativi di sforamento. Pensiamo, per esempio, ai “preparati medievali con proprietà allucinogene”, che venivano “assorbiti per via topica, disciolti in un unguento a base di olio e spalmati sul collo, sulle ascelle o sullo stomaco. Il modo in cui questi unguenti sono stati applicati ricorda da vicino l’uso del testosterone in gel da parte delle persone transgender oggi” (Testo Junkie). Violazione auto-inflitta del mito della natura: untura che marca il corpo, lo disarticola, ne fa un campo di forze, una potente rivendicazione. Se il sapere medico agisce in maniera dispotica, certificando chi può accedere a determinati trattamenti e risorse, riemerge spettralmente nella modernità una volontà di riappropriazione di quell’erbario che prima “ognuno portava dentro di sé, nel sangue e nei tessuti”. Leggiamo infatti ne La carne impassibile, lo studio di Piero Camporesi sul rapporto tra salvezza e salute fra Medioevo e Controriforma, che in quei secoli “le erbe medicinali, aromatiche, stupefacenti, euforizzanti, tranquillizzanti penetravano per tutte le possibili vie di somministrazione: si annusavano, si odoravano, si applicavano sulla pelle, si succhiavano, s’inghiottivano, s’iniettavano con siringhe”, mentre il Paradiso veniva rappresentato in una fantasia sfigurata come un formidabile “laboratorio di restauro corporale”, come una clinica odierna dove “le più audaci operazioni di plastica riescono in una perfezione unica”, lontana dall’ossessione per il marciume, per lo sfacelo e i vermi che si credeva nascessero spontaneamente da quelle carcasse.
Poveri vermi “insolenti e incapaci” sono le donne in genere per Caterina; una volta domata, questa s’interroga proprio sui corpi “molli e fragili” delle donne, che sarebbero “lisci, inadatti a faticare e penare pel mondo” proprio perché progettati per combaciare con il loro aspetto esteriore. Vediamo quindi come il controllo patriarcale e la violenza classificatoria del discorso scientifico sia fondamentale per comprendere le ragioni di Caterina: il presupposto biologico giustifica la sua sottomissione. Dietro il rassicurante camuffamento della commedia teatrale si celano ancora le fondamenta del paradigma biopolitico, dove tutto ciò che è inutile viene scartato e posto ai margini (con scarse possibilità di riscatto). Ma se per Caterina la donna che non obbedisce è una “sciagurata traditrice del suo signore che l’adora”, oggi dobbiamo necessariamente percepire questa disobbedienza in modo diverso: essa risuona non come tradimento, ma come atto salvifico e necessario. La donna ribelle, la puttana che supera il tabù sessuale, la strega che non abbandona il suo sapere eretico, anzi convive in maniera perturbante con l’universo disumano: tutte queste figure, dopo essere state così tanto disattese o impiegate nel mercato spettacolare, possono diventare ora una comunità; una comunità traboccante di promesse innaturali, inaugurali, angeliche e demoniache, e di potenze che dirottano lo sguardo, si fanno veleno medicinale, intossicamento lenitivo per un mondo da guardare con occhi torvi ma, proprio per questi, fatti nuovi.