Storia del poeta operaio Xu Lizhi
Lavoro, frustrazione, solitudine: un estratto dal libro Fine lavoro mai.
Lavoro, frustrazione, solitudine: un estratto dal libro Fine lavoro mai.
N elle foto i poeti sono belli. I poeti conoscono meglio degli altri l’arte di posare di fronte a un fotografo. I poeti non si auto-fotografano, ma vengono fotografati. Le foto dei poeti sono efficaci. Nelle foto dei poeti prevale la compostezza. I poeti sono seri. La gente in foto sorride e loro invece restano senza parole. Ogni foto è muta, ma la foto di un poeta tace più a lungo e più profondamente. Il dolore c’è, ma non si vede. È una montagna franata, è lava raffreddata finita in fondo a un dirupo. Alla fine ciò che resta è solo riposo e silenzio. I poeti vestono in modo neutro, la medietà del poeta è inimitabile. Le giacche dei poeti le ha cucite un dio in ciabatte in un seminterrato a Milano. Sono giacche a quadretti. I pantaloni sono pantaloni di Stato, forniti dal Partito Comunista Mondiale. In realtà io non so chi sono i poeti e come vestono i poeti, scommetto che ci sono poeti che indossano giubbotti di cuoio, ma io ho in mente solo poeti con la giacca a quadretti. I poeti sono tramvieri in inverno, io li vedo così, sono bidelli che passano la spugnetta sopra le macchie di urina sulla tazza del cesso. La poesia è cenere sulla sigaretta di un tassista. È la merda giallognola degli storni a novembre sui cofani delle auto della polizia in via Schiaparelli. È il crepitio nel polmone di un bidello quando sente l’odore incongruo del disinfettante.
Nello sguardo c’è una stoica mansuetudine, la somma finale di una serie di sconfitte.
Ora guardo su uno schermo la foto di un poeta suicida. Si chiama Xu Lizhi. Alcune delle sue poesie sono state tradotte in italiano dall’Istituto Onorato Damen di Reggio Calabria. Nella foto Xu Lizhi indossa una camicia qualunque a scacchi colorati. Le maniche della camicia sono corte. Xu Lizhi è appoggiato alla balaustra di un ponte nella città di Shenzhen, dove vivono tredici milioni di abitanti. Automobili, camion e pullman corrono lungo la strada a quattro corsie che passa sotto il viadotto. Xu Lizhi è perfettamente calmo. Gli zigomi sono alti e pronunciati. Nello sguardo c’è una stoica mansuetudine, la somma finale di una serie di sconfitte. Il pomo d’Adamo è sporgente. I capelli, tagliati corti, sono fitti e robusti. Se il poeta dovesse per caso togliersi la camicia e restare a torso nudo, il fotografo vedrebbe probabilmente il segmento incerto delle clavicole, le costole glabre e bianche come neon, e la cassa toracica rivestita da uno strato sottile di pelle. Xu Lizhi, un metro e settantacinque di altezza, viene descritto come un giovane solitario e di poche parole. Lo ammette lui stesso in una poesia:
他们都说
Dicono tutti
我是个话很少的孩子
che sono un ragazzo di poche parole
Xu è nato nel 1990 nella provincia del Guangdong. A venti anni, nel 2010, si trasferisce a Shenzhen per cercarsi un lavoro. Sul conto corrente di Xu ci sono appena 99 yuan. Come altri milioni di cinesi, Xu è un dagong, un migrante. A Shenzhen, città fondata di fronte a Honk Kong nel 1978, trova un posto da operaio alla catena di montaggio nello stabilimento di Foxconn, a Foxconn City, dove lavorano altre trecentocinquantamila persone, tra operai e impiegati. Il primo stipendio è di 1700 yuan. Al lavoro indossa un caschetto, guanti e tuta ESD antistatici. Ai piedi porta un paio di scarpe antinfortunistiche. Quando non è impegnato alla catena di montaggio, vive all’interno di un dormitorio in uno spazio di dieci metri quadri. Nel dormitorio riposa, mangia, caga, scrive e pensa. Ogni volta che apre la porta per andare al lavoro, gli sembra di alzare il coperchio di un sarcofago. Le sue poesie, brevi e scarne, vengono pubblicate su Foxconn People, giornale interno di Foxconn. I suoi versi sono come sassolini ripuliti, ordinati e messi in fila sul bianco della carta. Il corpo e la mente di Xu sono una macchina che lava e asciuga. Oltre alle poesie, pubblica saggi di qualche pagina e recensioni cinematografiche.
Un giorno Xu Lizhi lascia un post sul suo blog per esprimere la propria gratitudine a Foxconn People. In un’altra occasione dice di non aver mai fatto leggere le sue poesie ai genitori, perché si vergogna e ha paura di farli soffrire.
Stando a notizie sparse qua e là in rete, a Shenzhen deve esserci un gruppetto di amici, operai come lui, che lo stimano e lo leggono. Xu Lizhi scrive dei turni alla catena di montaggio e delle condizioni di lavoro e di vita. Ne scrive con accenti a volte lugubri. Nella vita degli operai non c’è spazio per l’amore. In un documentario sulla classe operaia francese, Return to Reims, le immagini d’archivio raccontano lo sfruttamento degli operai e delle operaie in fabbrica. Eppure, dopo il lavoro, nei circoli operai si balla, uomini e donne si conoscono e s’innamorano. Nei luoghi e nelle vite raccontate da Xu Lizhi, nessuno s’innamora. Non c’è velo, illusione, sogno, struggimento. Dopo la fabbrica c’è il dormitorio e dopo il dormitorio c’è la fabbrica. Suena la sirena\de vuelta al trabajo, cantava Victor Jara. In una delle sue poesie più note, la morte di un uomo è paragonata a un oggetto che cade per terra. L’oggetto in questione è una delle tecnologie più antiche della storia, una vite, e la vite per Xu Lizhi è un simbolo, nel quale scrutare, ridotta a sintesi, la parabola del lavoro umano in fabbrica. La vite non solo rappresenta la condizione operaia, ma, volendo riconoscere in questi versi il proposito di un fulmineo e tremolante autoritratto, la vite, con la sua filettatura che brilla e sale in curve omeomeriche intorno al cilindro, fa pensare alla vulnerabilità, alla fragile lucentezza che la figura di Xu sembra emanare nelle tre, quattro foto scattate sul viadotto. Xu Lizhi è una vite, ma al villaggio dove è cresciuto, in realtà, dicevano che per la magrezza ricordava un attaccapanni.
Nei luoghi e nelle vite raccontate da Xu Lizhi, dopo la fabbrica c’è il dormitorio e dopo il dormitorio c’è la fabbrica.
Foxconn nasce a Taiwan nel 1974, nel tempo si trasforma in una multinazionale e oggi è la più grande produttrice mondiale a contratto di componenti elettrici ed elettronici. Il suo fondatore, Terry Gou, è il figlio di un poliziotto che a suo tempo si era trasferito a Taiwan e del quale si dice che per un periodo, non avendo una casa, si accampò in un angolino all’interno di un tempio taoista, nei pressi di una stazione ferroviaria. All’inizio della sua attività, Terry Gou fabbrica le manopolone per cambiare canale sui televisori, che poi rivende a un cliente americano. Negli anni Ottanta costruisce per Atari i cavi che collegano il joystick alla consolle. Negli anni Novanta inizia a lavorare per IBM, Apple, HP, Dell, Sharp e Nokia, e in seguito per Hewlett-Packard, Microsoft, Motorola e Samsung. Negli stabilimenti di Foxconn oggi vengono prodotte le PlayStation, gli iPhone, gli iPad, i lettori Kindle e la consolle portatile Nintendo 3DS. Nel 2019 il fondatore di Foxconn ha dichiarato di aver visto in sogno una divinità del mare, Mazu, protettrice di marinai e pescatori, che lo ha esortato a candidarsi alla presidenza di Taiwan e a prendersi cura dei giovani.
Della metropoli Xu ama il fatto che lì, e non altrove, esistono le librerie e le biblioteche. È quello che hanno sempre pensato nel proprio cuore i giovani e le giovani intellettuali di ogni tempo, quando sono scappati dalla provincia gretta per scrollarsi di dosso la solitudine e la depressione e per studio o per lavoro se ne sono andati nelle grandi città o nelle città universitarie, come Milano o Bologna, dove hanno finalmente potuto trovare il conforto e la compagnia dei propri simili e luoghi di discussione, cinema, teatri, librerie. Tuttavia a un certo punto Xu prova ad allontanarsi da Shenzhen e a cambiare città e lavoro. Il tentativo, purtroppo, non ha successo ed è costretto a tornare da dove è partito (nello spazio fatale di questa andata e ritorno si consuma una delusione amorosa: il padre di lei dice che lui è un povero e non ha un futuro). Il suo sogno è vivere a contatto con i libri e guadagnarsi il pane con i libri. Compila una job application che poi invia al Central Book Mall di Shenzhen. Parla in lungo e in largo del suo grande amore per la poesia e inserisce l’elenco delle pubblicazioni accumulate fino a quel momento. Niente da fare. Sfuma il sogno di trovare un posto in libreria e di lasciarsi per sempre alle spalle la fabbrica. Inizia un nuovo periodo di solitudine. Non partecipa più alle attività del circolo dedicato alla poesia operaia fondato da un amico. Deve trovarsi da vivere. Non ha scelta. Perciò torna di nuovo a Foxconn. Lo riassumono nello stesso reparto di prima. Tornare alla catena di montaggio, di fronte al nastro trasportatore, dopo aver tentato una strada diversa, deve sembrargli un fallimento intollerabile. Stando a un resoconto, il giorno del rientro a Foxconn è il 29 settembre 2014. L’indomani scrive una poesia dal titolo Sul letto di morte (我弥留之际). Nella poesia dichiara di voler tornare a guardare ancora una volta l’oceano, scalare una montagna, assaporare il blu del cielo, ma non è più in grado di realizzare i propri desideri, dice, sentendosi, presumo, sconfitto, annientato, al capolinea. Eppure, nell’ultimo verso il poeta si congeda con parole piane, semplici, scandite con voce disarmata, e quasi non viene data importanza al momento, come se si trattasse di uno di quei saluti lasciati a penna sul registro di un museo o di un ristorante:
我来时很好,去时,也很好
Quando sono arrivato, stavo bene, e quando me ne sono andato, stavo bene.
I due “quando” rappresentano, io credo, il principio e la fine, le due porte che segnano l’ingresso e l’uscita dal mondo dei vivi; fra i due estremi è racchiuso tutto il tratto di strada percorso, dalla nascita in un villaggio nei pressi di Jieyang, nello Guangdong, fino alla morte, ventiquattro anni più tardi, nella megalopoli di Shenzhen. Inoltre, con la doppia ripetizione dello “stavo bene”, così netto e inequivocabile, desidera forse rassicurare i propri cari, gli amici, i colleghi, chi gli è stato vicino, ma “stavo bene” potrebbe pure indicare qualcosa che Xu intende dire a sé stesso, e cioè che il bilancio della sua esistenza, nonostante tutto, è positivo, è stata una buona vita, ecco, forse perché è stata la vita di un poeta (un poeta “sempre in conflitto con questa società”, ha scritto Lizhi alla fine di un breve componimento). Ma c’è un altro dettaglio. I versi di Sul letto di morte sono stati scritti in qualche modo dall’aldilà, già accomodati a una scrivania nell’oltretomba, dato che quel “e quando me ne sono andato, stavo bene” è declinato al passato, come se la porta di uscita, quindi, fosse già stata imboccata e, con il mondo alle spalle, si fosse già sbarcati laggiù, nella terra dei morti. La limpidezza e la compostezza del commiato di Xu Lizhi sono il frutto di un calcolo e di una lucidità estremi: una volta acclarato che il lavoro e la vita sono una prigione soffocante, ci si può pure togliere di mezzo, tirando serenamente una riga. È una sorta di soluzionismo suicidario. Si decide di uscire dal mondo, di sbarazzarsi di sé stessi, ci si ritira dal mercato, dagli scaffali, avendo compreso che come prodotto non si vale granché.
Si decide di uscire dal mondo, di sbarazzarsi di sé stessi, ci si ritira dal mercato, dagli scaffali, avendo compreso che come prodotto non si vale granché.
Il primo ottobre, cioè il giorno dopo aver terminato Sul letto di morte, la sua ultima poesia, Xu Lizhi si toglie la vita, lanciandosi dal diciassettesimo piano di un palazzo. Qualcuno ha fatto notare che la scelta del giorno potrebbe non essere stata casuale, anzi, si dovrebbe prendere in considerazione l’ipotesi che il suicidio di Xu sia stato (anche) un gesto di protesta, visto che il primo ottobre è la data in calendario in cui si celebra la nascita della Repubblica Popolare Cinese.
Mentre scrivo a fine agosto questi paragrafi sulla storia di Xu Lizhi, di colpo mi appare una possibilità, per quanto remota: la scheda madre del vecchio MacBook Pro ricondizionato con il quale sto lavorando, o la vite di uno delle centinaia di computer dal quale ho ricevuto in passato una mail, potrebbero aver sfiorato il palmo e le dita, avvolti nei guanti bianchi antistatici, del poeta operaio Xu Lizhi.
Estratto da Fine lavoro mai di Ivan Carozzi (Eris Edizioni, 2022).