A ffrontare un’intervista con Albert Serra significa prepararsi a un fiume di parole e di sentenze apodittiche. Ma se c’è uno che può permettersi queste sentenze, ai limiti del bullismo verbale, quello è Albert Serra. I suoi eccessi rientrano nelle caratteristiche di un personaggio eccessivo ma sincero, iconoclasta ma carico di personalità, non convenzionale ma con la barra dritta su una poetica e un’idea di cinema da difendere. Regista catalano e beniamino da anni dei cinefili più radicali, fin dai primi film ha ottenuto premi ai festival – Pardo d’oro a Locarno per Historia de la meva mort (2013), miglior film al Torino Film Festival per Honor de cavalleria (2006), premio Jean Vigo per La mort de Louis XIV (2016) – e riconoscimenti per uno stile personale, interessato ai margini della storia – il romanzo cavalleresco, l’illuminismo, i riferimenti biblici – e a un punto di vista radicale e inconsueto sugli spazi bianchi tra quegli avvenimenti. Quelli ignorati dai più, da riempire con il cinema, anche quando questo si limita a esplorare gli spazi e a contemplare il vuoto.
Il suo ultimo lungometraggio, Pacifiction (2022), rappresenta uno scarto in termini di ambientazione, collocato in un ipotetico presente nella Polinesia francese, e di “genere”, con atmosfere dalle parti del noir. Ma niente di quel che appare corrisponde alle nostre coordinate con cui leggerlo, come è tipico di Serra. Il racconto narcotico e suadente delle giornate di un agente governativo francese, De Roller, può preludere a un’apocalisse o al nulla di fatto, ma a contare sono le sensazioni che trasmette, la tensione che scaturisce dal contrasto tra la civiltà occidentale, inesorabilmente colonialista, e il mistero di una terra che conosciamo solo attraverso gli stereotipi che le abbiamo appiccicato sopra, da Gauguin a oggi. Cinquecentoquaranta ore di girato si trasformano in centosessantatre minuti dopo un montaggio sofferto e crudele, che abbatte le necessità di una narrazione e non lascia un attimo di tregua in termini di inquietudine. Cominciamo proprio da qui il nostro dialogo nella hall di un hotel del centro di Milano, dalla singolarità di un film che racconta una storia al tempo presente, per la prima volta.
“Per me tutto è finzione – esordisce Albert Serra – e finzione significa anche Storia. Non c’è una grande differenza tra trattare soggetti del presente o del passato, l’importante è che si stabilisca una connessione con i nostri problemi. È come con l’amore: quando vivi una storia d’amore vivi all’interno del tuo personale romanzo, in un mondo alternativo a quello reale. Così per me realizzare un film è vivere in quella bolla. Puoi metterci un po’ di perversione o alterare i limiti del politicamente corretto, lavorare al di fuori dello stereotipo. In Pacifiction significa non raccontare necessariamente, in maniera didascalica, che i polinesiani sono i buoni e le multinazionali sono cattive, ma raccontare una storia. Non mi interessa girare un film che denunci i test nucleari fatti lì dalla Francia e le loro conseguenze sulla popolazione, perché questo lo capisce anche un bambino di tre anni. Io cerco di raccontare l’opposto di quel che tutto conoscono, perché credo che la ricchezza della finzione stia nell’insinuare elementi di dubbio e di singolarità, senza cercare facili risposte.
Ad esempio cercare quel che non va nei “buoni”: perché la gente di lì preferisce ricevere denaro dall’Occidente per non lavorare, quel che non va, al di là dello stereotipo che li vuole vittime e martiri senza sfumature. Senza metterlo necessariamente nel film. La realtà è sempre più complessa e sfaccettata di una didascalia o di un titolo di giornale. Per questo ricorro a molta ironia e nei dettagli e nelle conversazioni del film credo si possano carpire queste sfumature. Oggi è difficile lavorare con l’ironia. Ad esempio se vuoi prendere in giro Donald Trump come fai, visto che è il primo a prendersi in giro? Quindi si tende a criticarlo seriamente. Su Hitler non puoi ironizzare perché non sarebbe appropriato, ad esempio. Su Dalì non puoi far ridere perché è già una caricatura di se stesso, usa il suo stesso personaggio per criticarsi in un modo strano e visionario. Quel cerco di dire è che ci si muove su un crinale pericoloso e forse è lì la cosa interessante, se la si affronta con una mente aperta e al di fuori dallo stereotipo”.
Come per Honor de cavalleria (2006) e El canto dels ocells (2008) la sensazione è che lavori soprattutto sui momenti di vuoto tra gli avvenimenti, sulle parentesi che il montaggio classico avrebbe rimosso. E così in Pacifiction, un cinema del nulla ricolmo di sensazioni invisibili, che pretende dallo spettatore e ripaga costantemente la sua attenzione…
Se mostri quel che succede si presuppone che tu abbia qualcosa da dire di ideologico sull’argomento. Usi i fatti per raccontare una drammaturgia basata sulle tue idee, su quel che già sai e che vuoi divulgare. Ma io non ho niente da dire in questo senso. Naturalmente ho le mie opinioni come ogni cittadino su quel che avviene, ma questo non deve interferire minimamente quando lavoro a un film. Mi interessano gli interstizi tra i capitoli di una storia o di un libro, la loro complessità. Non faccio giornalismo né propaganda, faccio cinema. Il che significa rifiutarsi di vendere una semplificazione della realtà. Oggi ogni personaggio che va in tv ha la sua storia da raccontare, l’enfasi è tutta sullo storytelling: questo marchio ha una storia, questa città ha una storia e bla bla bla. Ti devono vendere delle verità, che spesso non sono neanche tali. Io cerco l’opposto dello storytelling, quando niente è chiaro ed evidente, non succede niente e non c’è niente da spiegare. I miei film sono l’apoteosi di questo concetto, ad eccezione forse di Liberté (2019) che procede per accumulazione, costellata di corpi nudi e sesso fino a rendere il tutto faticoso, il racconto di un’intimità per non approdare da nessuna parte. Non so neanche dirti quanto mi piaccia oggi il film perché lo trovo stancante (ride, nda). Con Pacifiction volevo cambiare, senza lasciare concessioni alla leggerezza.
Hai parlato di “pigrizia” polinesiana e di Dalì. Impossibile non pensare a Gauguin, che ha esplicitamente ritratto questa indolenza, cifra tipica di Pacifiction…
È il ritmo tipico di un’isola. La Polinesia francese ha una notevole importanza geopolitica e strategica, è un territorio più grande dell’Europa, nel mezzo del Pacifico, costituito da isole. Principalmente c’è acqua. I francesi vogliono controllarlo e preferiscono pagare le persone per tenerle tranquille. Non so se è una buona metafora, ma è come se le tenessero sotto sedativo con il denaro, come se il denaro fosse il farmaco.
Alle ultime elezioni qualche mese fa i partiti indipendentisti hanno vinto per la prima volta nella storia, quindi magari le cose cambieranno e diverranno più violente, come in Nuova Caledonia, ma a me interessava raccontare questa atmosfera di quiete indotta, un tempo oppressa e oggi ancora oppressa perché narcotizzata. Come in fondo è tutto il mondo, costantemente tenuto sotto sedativi dal capitalismo, con una auto-repressione implicita, condotta dall’interno. I ritmi lenti del film raccontano questo. Uno degli attori del film, che interpreta il ruolo del giovane leader locale, mi ha detto che amava il film perché era riuscito a catturare questa atmosfera. Pacifiction è un lavoro di fantasia e di ironia, talora astratto o concettuale, senza alcuno scopo di rispecchiare una realtà. Non mi importa che sia fedele alla realtà, solo che catturi quell’atmosfera.
La sensazione che ne deriva è che il colonialismo sia così radicato da essere ineluttabile, immanente. Il protagonista, il De Roller interpretato da Benoît Magimel, rappresenta una continuazione di questo o una scheggia impazzita, che vorrebbe andare controcorrente?
Rappresenta quel che avviene oggi, il non sapere come stanno effettivamente le cose. Una ribellione esplicita non è possibile, ma tutti siamo consapevoli di come stiano le cose e non vogliamo essere schiavi. Quindi si vive nel mezzo di questa situazione, consapevoli che una ribellione può essere solo violenta e che oggi è proibito anche solo pensarlo, perché tutto deve essere condotto democraticamente e in maniera non violenta. Anche i partiti di sinistra oggi non fanno che dire che la violenza non è mai la soluzione e che occorre collaborare. Ma io ricordo qual era l’accezione nella seconda Guerra mondiale del termine collaborare. Il personaggio di De Roller incarna questa ambiguità. Non sai mai da che parte sta, magari è solo smarrito o paranoico, a causa dell’opacità del potere invisibile che lo opprime. Non sai mai chi sia al comando, perché si intravede solo un potere militare opaco, che forse vuole vendere armi o forse vuole usarle. È una situazione imprevedibile con personaggi imprevedibili, lontana da un mondo in cui tutto è prevedibile. Non c’è discorso di un politico odierno che non sia prevedibile: Macron non dirà mai nulla di personale o intimo, tutto è scritto e studiato in quel che dice. E per questo i leader populisti guadagnano consensi, perché in quel che dicono il popolo trova un minimo punto di contatto, anche quando sono chiaramente folli. Berlusconi, ad esempio, esercitava un fascino per la sua spontaneità, sebbene fosse l’uomo più ricco d’Italia. Colpiva perché era il cantante delle navi e il presidente della squadra di calcio, ma i suoi rivali politici non hanno mai colto la sua capacità di comunicare con la gente, lo hanno criticato con le armi della serietà o denunciando quanto fosse orribile. Nel cinema è simile. Lavori in una bolla, in cui si applicano regole differenti dalla vita quotidiana, ma ti devi comunque concentrare sulle qualità positive dei personaggi, anche se negativi, se vuoi capirli e rappresentarli.
Io metto molta pressione sugli attori per ottenere questo risultato, cerco di ottenere una tensione. Sul set non funziona un ambiente giocoso se vuoi ottenere questa mancanza di comunicazione, dei momenti di disagio insostenibile. Liberté è il migliore esempio di questo concentrarsi sulle qualità positive della gente. Poi ho la vita reale per tornare a preoccuparmi dei difetti di chiunque, ma sul set questi devono sparire.
Il personaggio di De Roller è affascinante proprio per la sua ambiguità e ambivalenza. Magimel fa un grande lavoro e mi ha ricordato il suo ruolo in Une fille facile (2019) di Rebecca Zlotowski. Poi ho letto che l’avevi scelto proprio dopo aver visto il suo film…
Più o meno, nel senso che Rebecca è un’amica e mi ha aiutato nel casting. Magimel nei suoi ruoli mette sempre qualcosa di misterioso, l’ho sempre considerato interessante. Quando l’ho conosciuto a un’occasione ufficiale a Cannes mi sono congratulato con lui e abbiamo chiacchierato. Naturalmente non sapeva chi fossi, perché non conosceva i film radicali che ho girato in passato, ma sapeva del film con Jean-Pierre Léaud – La mort de Louis XIV, nda – perché sua madre lavorava come infermiera e si prendeva cura di Jean-Pierre. In circa metà delle scene utilizzava un auricolare ed è stato grandioso a trasformare in corsa dialoghi e gesti, con un approccio molto rock’n’roll. Ha accettato senza aver letto la sceneggiatura e in genere non gli spiegavo mai prima della scena cosa dovesse fare, si arrangiava sfruttando l’auricolare. Ha il dono di unire una formazione da attore classico a un’attitudine rock’n’roll, in cui in qualche modo nelle scene successive sfruttava l’informazione acquisita in quelle precedenti, non sapendo cosa dovesse dire o con chi dovesse interagire. Ho cercato spesso di destabilizzarlo per mantenerlo in tensione, perché è fondamentale che ci sia tensione affinché l’attore dia intensità al personaggio. E credo che l’esito rispecchi questo: anche lo spettatore, che lo vede in scena praticamente sempre, non sa mai se si trova all’interno della sua testa oppure all’esterno, con distacco da lui. A volte condividi le sue preoccupazioni, ma a volte ti sembra un pupazzo manovrato da mani invisibili. Ha trasmesso esattamente l’ambiguità che volevo da lui.
Un’altra cosa di Pacifiction che mi ha colpito è la totale assenza di armi da fuoco. Ti aspetti in qualunque momento che ne compaia una, con queste atmosfere da noir o da spy story e invece nulla, se non un’aspettativa inappagata: né pistole né sigarette, classiche scorciatoie del film noir.
Ci sono cose che non amo inserire nei miei film. Tra queste armi da fuoco e sigarette. Fumare è un’attività del quotidiano del tutto superflua in una scena, crea un effetto di quotidianità da serie tv e attenua l’effetto di artificialità e di astrazione che invece voglio ottenere. Le pistole non mi piacciono, non ne ho mai vista una da vicino in 40 anni né ho conosciuto qualcuno che la usasse, almeno finché non sono andato in Texas (ride, nda). Non è il mio mondo e credo che in un film introduca un elemento di disturbo, che distolga l’attenzione da quel che voglio ottenere. Anche sull’uso della tecnologia sono rigido: niente smartphone, qui al massimo abbiamo fatto ricorso a un GPS, ma niente cellulari. Nei miei film non vedrai mai scene come quella del film di Olivier Assayas [Personal Shopper (2016), nda], mi annoio terribilmente se lo schermo è occupato dal display di un telefono, non c’è interazione cinematografica. Per me ci sono elementi cinematografici ed elementi no, e lo smartphone appartiene alla seconda categoria. Poi non escludo un giorno di girare un film di gangster e smentirmi, eh, ma per adesso la penso così: niente pistole, a meno che ovviamente non si tratti di un film sulla seconda guerra mondiale, che peraltro mi piacerebbe girare.
Questo rende tutto più complicato e privo di scorciatoie… la storia del noir è costellata di virtuosismi su volute di fumo e rivoltelle.
Per me è tutto noioso e concentrato sulla trama: una pistola automaticamente introduce una narrazione e un rapporto di causa-effetto. Non è necessariamente un discorso sulla rappresentazione della violenza, il film che sto girando ora è infatti un documentario sulla corrida. Ma è appunto un documentario, in cui mi concentro sui momenti che precedono o che seguono la corrida in sé. Non amo la violenza, ma questo sarà certamente il film più violento che ho girato: sto usando la tecnologia digitale in una maniera inedita e in contrasto con l’utilizzo tipicamente televisivo. C’è una scena quasi insostenibile, un primo piano di sette minuti, in cui mi soffermo sull’animale che vomita litri e litri di sangue, sugli occhi del toro mentre la vita lo sta abbandonando. E il toro non ne è consapevole, come invece lo sarebbe un umano. Non conosce la morte né la transizione tra la vita e la morte.
A proposito di digitale, il lavoro di color correction di Pacifiction è davvero incredibile. Verso la fine la sequenza virata in viola, che prelude all’epilogo, non avrebbe la stessa intensità senza quelle sfumature di colore.
Sì, avevo in mente i film degli anni ’50, come Brigadoon di Vincent Minnelli, in cui i colori sono organici, perché volevo ritrarre il lato oscuro del paradiso. Nella sequenza successiva invece abbiamo spinto fino all’inverosimile sulle tonalità rosate per ottenere poi la perfetta cartolina del tramonto, che è “realistica” pur essendo totalmente artificiale, è un’immagine verosimile ma falsa, come il ricordo di un paesaggio che però non è mai la fotografia di quest’ultimo.
Il montaggio è stato un lavoro mostruoso: più di 500 ore di girato ridotte a 163 minuti. Cosa ci puoi raccontare di come è andata?
Abbiamo trascorso otto o nove mesi con tre persone che lavoravano sette giorni alla settimana sul montaggio, senza neanche mezza giornata di riposo – a parte le vacanze di Natale e Capodanno. È stato folle ma credo ne sia valsa la pena. Il film è stato selezionato a Cannes dopo che c’era stata la conferenza stampa, cosa rara e praticamente impossibile.
Il personaggio di Shannah, la ragazza transessuale, è uno dei più affascinanti. La sua relazione con De Roller rimane misteriosa, non sappiamo fino a che punto sia romantica o di pura ammirazione.
In qualche modo è ancora più sfuggente e misteriosa di De Roller. Possiamo solo intuire quel che avviene fuoricampo. Con il tizio portoghese, ad esempio. Il dialogo sembra suggerire che abbiano fatto sesso, forse anche estremo, ma resta tutto nell’indeterminatezza. La scena tra Shannah e De Roller, in cui lui la paragona a una leonessa, è forse il mio momento preferito del film.
Sono stato fortunato, perché ho iniziato a lavorare con Pahoa Mahagafanau solo il sedicesimo giorno delle riprese, dei 24 che avevamo a disposizione. Le due attrici che l’avevano preceduta per il ruolo di Shannah hanno abbandonato per ragioni diverse. La prima che avevamo scelto non mi piaceva per niente, allora ho chiamato un’attrice filippina che era in Liberté e lei è arrivata al dodicesimo giorno di riprese. Stava andando tutto benissimo, finché non ha litigato con la produzione relativamente alla paga e ha lasciato il set. Avevo soli otto giorni a disposizione ed ero disperato, quindi il personaggio di Shannah alla fine è andato a Pahoa, che era già presente nel film in un ruolo minore, quello che vediamo all’inizio in cui fa dei commenti seducenti. E così abbiamo salvato la situazione. L’indeterminatezza è anche davanti alla macchina da presa. Quando prima parlavi di incompiutezza ho pensato alle sculture di Michelangelo, I prigioni. È così con il cinema: hai un blocco di marmo e all’improvviso qualcosa lentamente appare nel blocco, distingui delle forme, ma rimane fondamentalmente indeterminato e astratto. A volte incompiuto.