N el 1976 il fotografo americano Stephen Shore incontra a una cena da amici Ansel Adams, padre indiscusso dell’idea classica della bellezza fotografica, fatta di paesaggi maestosi, bianco e nero impeccabile, ricchezza di dettagli. Conversano davanti a una fotografia di Carleton Watkins del 1880, un albero solitario nel deserto del Mojave. Watkins è uno dei pionieri del mito del selvaggio Ovest americano, quel sublime naturale che Adams porterà fino ai poster, le cartoline e i coffee table book. Guardando la stampa, Adams fa notare a Shore come un ramo dell’albero cada proprio all’altezza dell’orizzonte dietro l’albero, gli chiede se non sarebbe stato meglio abbassare un po’ l’inquadratura, per separare il ramo dallo sfondo. Shore, quarantacinque anni più giovane di Adams, concorda. A fine serata, dopo sei bicchieri di vodka, Adams chiosa: “Negli anni ’40 ho avuto una fase creativa intensa, poi da allora ho continuato a fare sempre la stessa roba.”
L’aneddoto è contenuto in Modern Instances. The Craft of Photograpy, memoir scritto da Stephen Shore da poco uscito per MACK. La casa editrice lo presenta come un “impressionistic scrapbook”, un album di ritagli e pensieri appuntati in cui Shore intreccia racconti personali con riflessioni sulla sua pratica artistica e le sue influenze. Già nel 1998 Shore aveva pubblicato The Nature of Photographs, volume in cui attraverso una selezione di fotografie analizzava i modi in cui possiamo leggere le immagini ottiche e scomponeva lo scatto fotografico in tutte le sue fasi fisiche, chimiche e mentali. Modern Instances prosegue la ricerca di quel precedente volume, riprendendo anche diverse fotografie proposte allora, ma spostando la riflessione su un piano personale.
Tra i temi al centro del libro c’è proprio la necessità dell’artista di continuare a evolversi, di cui è monito il racconto di Ansel Adams che tira una riga su 30 anni del proprio lavoro tra un bicchiere e l’altro. Da quella sera Shore racconta di aver imparato la necessità di cambiare prima di trovarsi a copiare se stesso. Frequentatore della Factory di Andy Warhol ancora adolescente, il suo primo corpus di immagini fu proprio la documentazione, scattata a mano e in bianco e nero, della vita quotidiana nella fucina della Pop Art. Già allora, Shore sentiva la necessità di immaginare qualcosa oltre l’idillio creativo di quel luogo magico: “A un certo punto mi sono reso conto che, essendo la Factory unica e Andy il centro di quella New York, per molte persone quel momento storico e quell’esperienza sarebbero stati l’apice delle loro vite. Ma io ero troppo ambizioso per finire così, sentivo che era il momento di andare altrove.” Le fotografie di Shore della Factory hanno valore come documento storico ma, convenzionali nel loro stile reportagistico, nulla ci dicono dell’artista che poi sarebbe diventato. Il lascito di quegli anni non è stato tanto un primo lavoro significativo, ma la possibilità di vedere all’opera Warhol & co. “L’esperienza più importante è stata osservare un artista mentre sperimenta, gioca, prende decisioni. Cominciavo a farmi un’idea di cosa fosse un’intenzione estetica.”
Quell’apprendistato nell’intenzionalità artistica porterà i suoi frutti poco dopo, quando Shore negli anni ’70 comincerà a andare in giro per gli Stati Uniti. Da quei viaggi sono nati American Surfaces e Uncommon Places, due grandi lavori dedicati ai luoghi, al paesaggio e all’immaginario dell’America. A prima vista sembrerebbero raccontare uno stesso viaggio fatto due volte: sfogliando i due libri ritroviamo stanze di motel, diner, highway a perdita d’occhio, villette, vetrine di negozi, automobili, ritratti della working class, manifesti pubblicitari, tavole apparecchiate, pranzi lasciati a metà poggiati su vassoi. La differenza tra i due lavori sta nel linguaggio: American Surfaces, con le sue fotografie scattate in 35mm, granulose, spesso schiarite dalla luce livida del flash e composte con calibrata noncuranza, si presenta come una raccolta di momenti, rappresenta la quotidianità americana come un accumulo di schegge che idealmente sono tutte unite tra loro, ma che nella vita reale si presentano in modo disordinato. “Volevo fare fotografie che assomigliassero all’esperienza del vedere”, racconta Shore in Modern Instances. “Come esercizio, mi concentravo su che aspetto avrebbe potuto avere la visione oculare vera e propria. Mi fermavo casualmente per osservare il mio campo visivo, praticamente facevo degli screenshot.”
Uncommon Places esplora lo stesso mondo ma utilizzando un apparecchio fotografico di grande formato, uno strumento che richiede una modalità operativa e produce risultati completamente diversi dall’agilità di una 35mm a mano. L’utilizzo del cavalletto, la composizione dell’inquadratura non in un mirino ma su un grande vetro sul retro dell’apparecchio, da osservare sotto un telo nero per vedere al riparo dalla luce esterna, il fatto di poter impressionare una sola lastra alla volta, tutti questi fattori hanno trasformato il lavoro di Shore in una meditazione sul senso dello spazio. Se in American Surfaces vediamo un linguaggio visivo privato che prefigura l’uso fotografico dei social network (le soggettive, le foto dei pasti, le camere da letto), in Uncommon Places vediamo la quotidianità attraverso il filtro di quella che Shore chiama “consapevolezza aumentata”, che ricorda la rivelazione metafisica del mondo ordinario descritta da Giorgio De Chirico nel 1919: “Pigliamo un esempio: io entro in una stanza, vedo pendere una gabbia con dentro un canarino, sul muro scorgo dei quadri, in una biblioteca dei libri; tutto ciò mi colpisce, non mi stupisce poiché la collana dei ricordi che si allacciano l’un l’altro mi spiega la logica di ciò che vedo; ma ammettiamo che per un momento e per cause inspiegabili ed indipendenti dalla mia volontà si spezzi il filo di tale collana, chissà come vedrei l’uomo seduto, la gabbia, i quadri, la biblioteca; chissà allora quale stupore, quale terrore e forse anche quale dolcezza e quale consolazione proverei io mirando questa scena. La scena però non sarebbe cambiata, sono io che la vedrei sotto un altro angolo. Eccoci all’aspetto metafisico delle cose.”
Shore cerca una trascendenza che parte proprio dal dato sensibile, per trovare l’universale nel particolare di quella strada, di quell’automobile parcheggiata o di quel tavolo di ristorante. Erede del modernismo fotografico americano degli anni ’30 di cui Walker Evans è stato il principale interprete, osserva il vernacolare e l’anonimo americano per farne una rappresentazione che vada al di là dell’effimero e del paesaggio negletto e consumato della vita quotidiana. Molti anni fa Bernd e Hilla Becher, fotografi tedeschi celebrati per la loro fotografia di paesaggio industriale (molto metafisica anche questa) e che hanno contribuito alla diffusione in Europa di Shore, guardando le sue fotografie di viali cittadini gli chiesero: “Ma quindi tu vuoi fotografare tutte le main street americane?”, e Shore ha risposto “No Hilla, quello lo fate voi. Io voglio fotografare l’essenza della main street.”
Frammentario e ricco come può essere un diario, Modern Instances raccoglie in ordine sparso le passioni e le domande che hanno nutrito la ricerca di Shore sin dall’infanzia: la sua prima camera oscura all’età di sei anni, la copia di American Photographs di Walker Evans ricevuta in regalo a dieci, le dirette radiofoniche di musica classica fatte a quindici; il Rinascimento italiano, le stampe giapponesi, Bach, Bob Dylan, Orson Welles, etc. Un’idea della fotografia come linguaggio in cui poter far confluire un’eterogeneità di stimoli che si incontrano nella “consapevolezza aumentata” e nella meditazione compositiva che Shore ha trovato nel grande formato, la cui lentezza operativa permette di pensare attraverso l’obiettivo, piuttosto che catturare quello che sta davanti.