C’ era una volta un lupo. Ma non nel bosco: a New York, o giù di lì. Giacca di pelle, camminata sulle zampe posteriori, il lupo si fa strada terrorizzando gli altri abitanti del quartiere: dei maiali antropomorfi, indaffarati. Si ferma davanti a una sartoria dove una maialina sta provando un abito con strascico. Il negozio è fatto di paglia. Il lupo carica i polmoni con tutta l’aria che riesce e infine sputa fuori il suo soffio micidiale, lo stesso di cui ci raccontavano da bambini. Eppure c’è qualcosa che non funziona: il fiato finisce subito, si spegne in un rantolo. Gli occhi del predatore sono fuori dalle orbite. Subito dopo si guarda intorno vergognoso: la sua fama di feroce soffiatore è rovinata per sempre. I maiali ora gli passano di fianco indifferenti e lui se ne va sconsolato. Non gli rimane che accendersi una sigaretta.
Fumare fin da ragazzi fa questo: compromette in modo permanente la crescita dei polmoni. La Food and Drug Administration (che dipende dal Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani degli Stati Uniti) ha commissionato la campagna di sensibilizzazione contro il fumo alla FCB, celebre agenzia pubblicitaria di New York. Già, Straw City, con protagonista il nostro lupo di New York, è uno spot: tra i più amati degli ultimi mesi. Straw City si rifà chiaramente a I tre porcellini. E in pubblicità capita spesso che si utilizzi il materiale fiabesco, per quanto la fiaba sia quasi sempre citata per essere stravolta. Difficile che la si affronti con filologica fedeltà. Ma facciamo un passo indietro.
Le fiabe popolano da sempre il nostro immaginario. Ce le raccontano fin da bambini, spesso sono le stesse che venivano raccontate ai nostri genitori e ai nostri nonni. Molte sono nate dall’elaborazione di una consolidata tradizione orale di racconti popolari (come quelle dei fratelli Grimm, di Perrault, di Giovan Battista Basile per esempio). Altre sono invece il frutto dell’ingegno dei propri autori: Alice nel paese delle meraviglie (1865, Lewis Carroll), Le avventure di Pinocchio (1883, Carlo Collodi), Peter Pan (1906, James Matthew Barrie)… Le fiabe generalmente sono metastoriche: è difficile infatti che diano conto di una collocazione temporale. Si basano sempre su sviluppi fantastici e poco verosimili, una semplificazione manichea della realtà in cui il bene si contrappone in modo netto al male, in cui non esistono vie di mezzo né sfumature psicologiche. Infine, dal momento che il loro scopo è quasi sempre didattico, presuppongono sempre un lieto fine.
La fiaba è una formula di successo imperituro. Tant’è che Vladimir Propp nel suo celebre Morfologia della fiaba (1928), analizzando le fiabe popolari russe, aveva messo in luce la matrice immutabile che sta alla base delle centinaia di declinazioni fiabesche. I personaggi-tipo riassumibili in otto categorie (tra cui l’eroe, l’antagonista, il mandante…); lo schema generale dello sviluppo della fiaba scandito sempre dalla rottura di un equilibrio iniziale fino poi al suo ristabilimento, passando attraverso le peripezie dell’eroe; una scaletta divisa in una trentina di “funzioni”.
Le teorie interpretative delle fiabe sono moltissime. Alcune, come quella di Propp, si basano su un approccio antropologico e intravedono nello sviluppo del racconto la reinterpretazione di un antico rito d’iniziazione: il superamento da parte dell’eroe di prove e avversità porta al superamento dell’infanzia e all’ingresso nell’età adulta. I tanti sonni e le tante morti apparenti che popolano molte narrazioni segnerebbero simbolicamente questo passaggio. Certo, da un punto di vista psicoanalitico il lieto fine potrebbe rappresentare il superamento di un conflitto interiore, come spiega Bruno Bettelheim nel suo Mondo incantato (1976): le situazioni fiabesche rispettano la visione magica infantile delle cose ed esorcizzano incubi inconsci, placano inquietudini, aiutano a superare insicurezze e dubbi esistenziali, avviando il bambino a quella consapevolezza necessaria per affrontare la crescita.
Probabilmente l’eroe negativo è solo la personificazione dei nostri lati oscuri, delle nostre pulsioni negative. Perché metterli in discussione se possiamo esaltarli?
Anche per questo motivo, nelle Fiabe italiane (la raccolta che curò nel 1956, attingendo alla tradizione popolare e riscrivendo in italiano fiabe dialettali degli ultimi cent’anni), Calvino le definiva: “una spiegazione generale della vita”. Le fiabe sono così vicine al nucleo fondante di ogni esperienza che una volta introiettate da piccoli è difficile dimenticarsene. E infatti, per tornare alla pubblicità, Straw City non è il primo né certo sarà l’ultimo commercial a usare una fiaba per l’elaborazione di un messaggio pubblicitario. Questo prima di tutto perché le fiabe sono universalmente conosciute, e dunque perfettamente decodificabili da qualsiasi tipo di pubblico. Il mio ex direttore creativo era solito ripetere: “Il giornalista dice ogni giorno cose diverse nello stesso modo; il copywriter invece dice sempre la stessa cosa, ma in modi sempre differenti.” L’originalità dell’esecuzione diventa fondamentale, il ribaltamento dello stereotipo quasi un dogma. La fiaba dei Tre Porcellini è chiamata in causa, come si diceva all’inizio, per essere stravolta: il pubblico va sorpreso, bisogna disattendere le sue aspettative se si vuole essere memorabili. Lo spiazzamento è una delle regole fondamentali della comunicazione, ed ecco perché partire da un materiale noto a chiunque può essere molto efficace.
Quella dei tre porcellini è una fiaba della tradizione europea: nella versione che conosciamo apparve per la prima volta nelle English Fairy Tales di Joseph Jacobs (1890). È una parabola classica, che affronta il tema della crescita: i tre fratellini rappresentano un bambino che cresce e attraverso una serie di errori acquisisce esperienza. Ai creativi della FCB però non interessavano i porcellini. Ma perché concentrarsi su un lupo sfiatato dovrebbe essere efficace? Perché è un testimonial perfetto, come lo è Ronaldo per la Nike o Bolt per Puma. Il testimonial (il portavoce dei valori di un marchio) serve a innescare nel target l’immedesimazione: qui il pubblico da sensibilizzare è costituito dai teenager fumatori. La fiaba ha subìto un cambiamento narrativo fondamentale: quello del punto di vista. È tutta raccontata dalla prospettiva del predatore. Se sono un adolescente, guardo al lupo. È lui il testimonial. Lui il “figo” famoso della fiaba.
Ma forse c’è motivo di pensare che il catalizzatore dell’attenzione sarebbe sempre e comunque il lupo, anche se il pubblico di riferimento fossero gli adulti, andando così incontro alla tendenza ormai consolidata (e opposta a quella di molti schemi narrativi tradizionali) di parteggiare per l’eroe negativo. Dal Keyser Söze dei Soliti sospetti, passando per i film di Tarantino e arrivando a Gomorra, House of Cards, Billions, il male è sdoganato, accettato, forse elaborato. Ma di questo si è già molto parlato. Probabilmente l’eroe negativo è solo la rappresentazione della nostra voglia di non soccombere, di non subire; o ancora, la personificazione dei nostri lati oscuri, delle nostre pulsioni negative. Perché metterli in discussione se possiamo esaltarli? Se possiamo provare il brivido di scegliere il male coscientemente, sia pure nell’arco limitato della visione di un film?
È tanto vero che se poi, come nel caso di questo spot, il cattivo non riesce a essere cattivo come dovrebbe perché i suoi stravizi glielo impediscono, allora viene voglia anche a noi di rinunciare alle nostre sregolatezze (qui sta l’efficacia del messaggio per il pubblico di adolescenti fumatori). I veri malvagi, d’altronde, non hanno punti deboli. Meglio insomma perdere il vizio e tenersi il pelo (e il fiato). Con questi presupposti, sembra lontanissimo il tempo della campagna multi-soggetto di Mulino Bianco dal titolo La vita è una favola. Iniziata nel 2000 e proseguita fino al 2003, ripercorreva in ogni spot una fiaba diversa (Cenerentola, Biancaneve, Alice, Gulliver…), rimanendo quasi fedele alla trama e alle sue dinamiche. Con l’inevitabile differenza per cui il lieto fine diventava possibile solo grazie al consumo del prodotto. Tutto girato alla perfezione, tutto rassicurante dall’inizio alla fine, proprio come esigeva la filosofia di marca: “Mangia sano e vivi meglio”, recitava il pay off. Da allora, però, lo spirito dei tempi ha evidentemente cambiato di segno.
L’originalità dell’esecuzione diventa fondamentale, il ribaltamento dello stereotipo quasi un dogma.
In Straw City lo stravolgimento della favola riguarda il punto di vista, il lupo invece è sempre lo stesso: o meglio vorrebbe essere lo stesso. Tutto l’opposto di quello che accade nella favola di Cappuccetto Rosso messa in scena per lo spot della Lancia Ypsilon. È uno spot del 2009 che sembra fare il verso a Le loup, lo spot per Chanel n° 5 girato da Luc Besson e interpretato da Estella Warren che in un certo senso ha precorso i tempi, con una Cappuccetto Rosso seduttiva e imperiosa, in grado di fermare il lupo con un solo gesto e un ammiccamento. In quello della Lancia, vediamo una Cappuccetto Rosso impavida che il lupo l’ha addirittura addomesticato: indipendente e conscia dei suoi mezzi, dalla nonna preferisce andarci in macchina.
Nelle interpretazioni vicine a Propp, la partenza di Cappuccetto Rosso da casa rappresenta un rito di separazione; il bosco simboleggia un periodo di passaggio; il momento in cui viene divorata dal lupo una prova d‘iniziazione e il suo salvataggio dalla pancia del lupo la rinascita e l’ammissione nella società degli adulti. Il lupo è l’ombra, il pericolo, devìa la protagonista dal suo percorso di crescita. Eppure, è importante affrontarlo per arrivare al compimento del proprio viaggio. Il ribaltamento del messaggio sta nel fatto che nella rappresentazione pubblicitaria manca la paura. Come se Cappuccetto, e più in generale le donne a cui parla lo spot, fossero già talmente cresciute da andare oltre la fiaba e la sua stessa necessità.
Il tema dell’iniziazione è presente anche in Cenerentola. Qui si mette in scena il passaggio dall’adolescenza all’età adulta all’interno di un sistema familiare in cui l’ostacolo principale è costituito dalla rivalità tra madre e figlia. Molte sono – anche qui – le interpretazioni: le più interessanti sembrano proprio quelle psicologiche. Per diventare donna è necessario mettere in discussione la propria madre, farla diventare “altra”, dunque matrigna. Si tradisce la madre per scoprire la propria femminilità e avviarsi a una vita affettiva piena e gratificante. Il conflitto madre-figlia lo ritroviamo anche in Biancaneve, come spiega Bettelheim. La simbologia esplicita della mela richiama alla tentazione e alla sessualità e dunque alla perdita dell’innocenza. La matrigna non uccide la figlia, ma la fa cadere in un sonno profondo in cui le pulsioni sono congelate.
Cenerentola e Biancaneve sono altre due protagoniste degli spot Lancia Y. Cenerentola ha sostituito la carrozza con un degno mezzo a motore – sempre dotato di cavalli – ma non sembra essere intenzionata a salutare il principe. Anzi, a bordo della sua auto polverizza anche la scarpetta di cristallo. Come a dire che la crescita è avvenuta, ma con quella è arrivata anche la libertà di scegliere il proprio destino: e non è detto coincida con l’amore romantico. Biancaneve al volante, invece, si beffa della strega maligna e con uno sguardo di sfida addenta al mela. Come per Cappuccetto Rosso e il lupo, anche qui c’è la neutralizzazione di qualsiasi pericolo. Il rito di passaggio è avvenuto grazie alla macchina e senza troppi sforzi. In generale, per tutti i soggetti il ribaltamento avviene perché si va oltre lo schema, oltre la fiaba. Si mette in campo la personalità del personaggio, si spezza lo stereotipo. Non c’è un salvatore che entra in campo; l’eroina si salva da sola. Su questa strada si arriva fino al 2011 e alla Katy Perry di GHD (una marca di piastre per capelli): una Biancaneve dark, con la mela in mano.
La pubblicità non inventa nulla di nuovo né precorre i tempi. Non può permetterselo, perché deve essere sicura di parlare a un preciso gruppo di persone.
L’elenco è talmente ripetitivo da imporre una riflessione: la donna è il target che è cambiato di più nell’ultimo decennio. Vuole immedesimarsi in qualcuno che rompa gli schemi. Ha bisogno che si sottolinei la sua spinta libertaria, la sua autosufficienza. Questo fino alle estreme elaborazioni. Qualche mese fa, agli Epica Awards ha trionfato Spike Jonze con uno spot per il profumo Kenzo: Kenzo World. Nel film (della durata di 3’48”) Margaret Qualley danza al ritmo di Mutant Brain, canzone originale composta da Sam Spiegel & Ape Drums. Qualley abbandona la sala del gran gala al quale sta partecipando, si avventura nei corridoi e se ne va a ritmo di musica. Qui il modello di riferimento è solo alluso. La Bella e la Bestia? Allora la Bella qui avrebbe fagocitato anche la Bestia, potendo permettersi di essere entrambi. In caso, il superamento delle apparenze insito nel significato della favola qui più che ribaltato sarebbe iperbolizzato: diventerebbe accettazione di alcuni aspetti – bestiali, oscuri, istintivi – che riguardano noi stesse. Margaret Qualley fluttua da una personalità all’altra, più che ballare sembra posseduta o completamente pazza. Bellissima, buffissima, mostruosa, sgraziata, ma anche inaspettatamente coordinata. Un po’ zombie, un po’ Giselle.
Lo spot che rovescia gli schemi della fiaba risponde a un bisogno del target femminile, si diceva, così come per secoli c’è stato bisogno delle favole e dei loro insegnamenti. Una necessità che sicuramente la pubblicità banalizza e semplifica, ma è comunque una necessità reale, dal momento che ogni importante campagna pubblicitaria è preceduta da una ricerca di mercato: da focus group che mettano in luce le esigenze dei consumatori.
La pubblicità non inventa nulla di nuovo né precorre i tempi. Non può permetterselo, perché deve essere sicura di parlare a un preciso gruppo di persone. Come ha sottolineato Giampaolo Fabris nel suo interessantissimo La società post-crescita (Feltrinelli, 2010), oggi è avvenuta una rivoluzione nell’antropologia del consumo. Il consumatore è molto meno passivo: mette in discussione, condivide opinioni, si aggrega via web. E soprattutto identifica con più consapevolezza le comunità delle quali vuole far parte; sceglie uno stile di vita. La pubblicità oggi non si muove quasi più verso una comunicazione che sia puramente “aspirazionale”, ma individua e sottolinea stili di vita già esistenti e in parte già condivisi dal target di riferimento. Il prodotto non è più solo un prodotto: quello che si cerca di vendere è un mondo. Dei valori nei quali riconoscersi.
Scardinare uno schema (di una fiaba o di una narrazione tradizionale) è un modo molto efficace non solo per comunicare un messaggio pubblicitario (spiazzando, sorprendendo le aspettative del pubblico) ma anche per mostrare come e quanto siano cambiati i tempi, insieme alle donne e agli uomini che vivono in quei tempi. È efficace perché lo si fa in modo comparativo, anche se il termine di paragone – il prima, la fiaba come la conoscevamo – rimane sottointeso. Lo si può dare per scontato. Alla fine la pubblicità, nonostante la diffidenza con la quale viene guardata, riesce a dirci sempre qualcosa del mondo in cui viviamo.